Opinioni
Parliamo di tasse
Serve una riforma fiscale, in grado di superare davvero i quattro limiti evidenti del sistema fiscale italiano, che grava troppo sui lavoratori dipendenti (e sui pensionati), non è progressiva (come vorrebbe la Costituzione), garantisce entrate allo Stato (mentre la spesa pubblica è degli enti locali) e genera una evasione "monstre". Il commento di Alessandro Volpi
Il tema della riduzione della pressione fiscale nel nostro Paese è decisivo, ma non dovrebbe costituire la questione principale del dibattito politico in materia di tributi. Esistono infatti anche altre, forse ancora più gravi, incongruenze del nostro sistema, a cui occorrerebbe porre rimedio attraverso una vera riforma di struttura, che non è più rinviabile. Il sistema fiscale italiano ha conosciuto stagioni molto diverse tra loro, ed è diventato un insieme complicatissimo di scadenze e di differenti forme di prelievo, difficili da comprendere ai comuni abitanti del pianeta.
Questa complessità deriva in buona misura da una storia assai tormentata che si è aggrovigliata nel tempo, pur in assenza, quasi paradossalmente, di vere riforme fiscali. Fino agli anni Settanta, alla riforma Cosciani-Visentini, il sistema fiscale italiano ha presentato caratteri assai farraginosi, avendo in pancia molteplici sovrapposizioni fra i vari apparati amministrativi che indebolivano in maniera sostanziale la capacità impositiva dello Stato centrale a vantaggio di mille rivoli periferici. Con l’adozione dell’impianto voluto da Bruno Visentini, in coerenza con il rafforzamento del ruolo dello Stato nell’economia nazionale, il sistema fiscale ha conosciuto l’avvio di un processo di semplificazione, destinato a dare spazio a pochi tributi, riscossi direttamente dallo Stato, a fronte dei quali le risorse della finanza locale erano affidate ai trasferimenti, allora decisamente copiosi.
A partire dagli anni Novanta, e soprattutto nel 1997 con la riforma Visco, è iniziato il ritorno alla fiscalità locale, in primis mediante il potenziamento dell’imposizione regionale, riconducibile all’IRAP. La riforma del titolo V, con la modifica dell’articolo 119 della Costituzione, ha accelerato tale percorso che si è ulteriormente definito nella legge 42 del 2009, con cui sarebbe dovuto nascere il fisco federale. Da allora il processo di riforma sembra essersi schiantato contro il muro dei provvedimenti attuativi, mentre ha preso corpo una girandola di cambi di titolazione delle diverse voci del prelievo da parte degli enti locali. In realtà, quello che colpisce maggiormente, al di là delle tappe confuse di questo iter legislativo incompiuto, è la perdurante fissità -un vero e proprio immobilismo- delle architetture portanti del sistema fiscale italiano.
L’asse centrale, infatti, dei circa 470 miliardi di entrate è costituito dall’Irpef, per circa il 40% del totale, e dall’Iva, che pesa per il 30%. Il resto è frammentato in una serie di altre voci decisamente meno significative, così come risultano meno rilevanti le entrate degli enti locali, pari a meno di 100 miliardi di euro, in larghissima misura riscosse dalle Regioni e solo per poco più di una ventina di miliardi di competenza dei Comuni.
Questa fisionomia del sistema fiscale italiano che attribuisce allo Stato centrale circa i tre quarti del entrate previste manifesta, come accennato in apertura, almeno quattro criticità evidenti.
1) La pressione grava soprattutto su lavoratori dipendenti e pensionati, per una percentuale vicina all’85% nel caso dell’Irpef e all’80% nel caso dell’Iva, che, per quanto sia un’imposta indiretta, è in larghissima parte pagata appunto da dipendenti e pensionati.
2) Non esiste alcuna reale corrispondenza fra le entrate e la spesa pubblica. Dei circa 800 miliardi di spesa, in buona parte di natura fissa e destinata a servizi essenziali, circa il 57% è a carico degli enti locali, che dispongono, come detto, di circa un quarto delle entrate complessive, dovendo coprire il resto con trasferimenti dallo Stato in rapida erosione.
3) Il sistema fiscale italiano sconta più di ogni altro in Europa un’evasione fiscale monstre, nell’ordine dei 150 miliardi annui, in larga misura legata al mancato versamento dell’Iva. In questo senso la pressione reale che grava sui contribuenti onesti è decisamente più alta di quella meramente nominale.
4) La Costituzione italiana, all’articolo 53, prevede la progressività fiscale del nostro sistema tributario, per cui tutti sono chiamati a “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”; in realtà per le ragioni sopra ricordate tale principio si applica solo a circa un quarto del prelievo fiscale complessivo.
Alla luce di tutto ciò, il tema della riduzione della pressione fiscale dovrebbe legarsi ad altri due principi forse ancora più importanti; quello della redistribuzione della pressione e quello di un più corretto legame tra entrate e uscite dello Stato, decisamente preliminare ad ogni idea di rimodulazione delle singole imposte locali.
* Università di Pisa