Economia / Opinioni
Paradossi finanziari del nostro tempo
Criptovalute, risparmi congelati e diritti speciali di prelievo sono tre modi per aggravare le disuguaglianze, sfruttando vecchi modelli ingiusti. La rubrica di Alessandro Volpi
Alcuni paradossi che non possono non essere censiti in un Dizionario dell’ignoto. Nel nostro Paese non esiste ancora una normativa specifica sulle criptovalute: mentre giornali, analisti e operatori ne parlano con grande frequenza (spesso caldeggiandone l’acquisto) l’ordinamento italiano non ha ancora disciplinato il fenomeno. Si procede dunque per analogia: le criptovalute sono considerate normali valute estere. Una forzatura tutt’altro che banale, data la natura delle valute emesse dalle Banche centrali. Sul piano fiscale, poi, le persone fisiche che possiedono criptovalute e le hanno detenute almeno sette giorni lavorativi nell’arco di un anno fiscale non pagano imposte fino alla soglia di 51.645,69 euro (i vecchi 100 milioni di lire, un dato che fa capire a quando risalga la norma). Sopra tale soglia l’aliquota è del 26%, la stessa che si applica sulle plusvalenze ottenute dalla compravendita di titoli finanziari.
La seconda assurdità è ancora più evidente. Sui conti correnti attivi presso le banche in Italia “giacciono” circa 1.800 miliardi di euro (1.500 sono quelli di famiglie e imprese, una cifra che sale ogni anno del 10%, mentre circa 300 miliardi sono delle pubbliche amministrazioni) per un totale che non è molto distante dal valore del Prodotto interno lordo italiano. L’assurdità consiste nel fatto che da oltre cinque anni questa gigantesca montagna di soldi non rende pressoché nulla: l’0,03% per i conti liberi e lo 0,32% per quelli vincolati. È una perdita enorme di produzione di reddito che dovrebbe essere corretta puntando all’offerta di titoli del debito pubblico, con un rendimento leggermente più alto (in grado di generare reddito) e, al contempo, con la finalità di finanziare gli interventi indispensabili al Paese, a partire da scuola e sanità.
51.645,69 euro è la soglia di esenzione fiscale sui proventi delle criptovalute per le persone fisiche che le hanno detenute per almeno sette giorni lavorativi. Sopra tale soglia l’aliquota è del 26%
A fronte di tutto ciò, si presenta un preoccupante dato speculare. Il deficit pubblico primario è cresciuto, negli ultimi 16 mesi, di 167 miliardi di euro. Lo Stato si è fatto carico delle spese per affrontare la crisi, fornendo sussidi e sostegni in maniera decisamente indistinta in termini di reddito dei beneficiari e così una parte rilevantissima di tali sostegni finisce a famiglie e imprese che non ne avrebbero realmente bisogno e li depositano sui propri conti correnti.
L’ultima assurdità è di portata ben più vasta. A Roma, a settembre, si è riunito il G20 dei ministri della Salute che ha affrontato anche il tema di come avviare una campagna in grado di migliorare la sanità dei Paesi più poveri. È evidente che per realizzare un simile obiettivo servono molte risorse che potrebbero essere rintracciate facendo ricorso ai Diritti speciali di prelievo (Dsp). Si tratta di una valuta “sintetica”, creata dal Fondo monetario internazionale (Fmi) a partire dal 1969, il cui valore deriva da una media pesata delle quotazioni delle principali monete mondiali.
Il 23 agosto il Fmi ha deciso una distribuzione “storica” di tali Dsp per oltre 700 miliardi di dollari con l’obiettivo di fornire risorse per fronteggiare la crisi pandemica. Il problema nasce dal fatto che questa distribuzione è avvenuta in proporzione alle quote del Fmi già possedute dai singoli Stati membri: circa il 30% dell’erogazione è così finita a Stati Uniti, Giappone, Cina e Germania, mentre i Paesi poveri hanno ricevuto ben poco. Forse per trovare una soluzione alla crisi pandemica sarebbe necessario invertire le proporzioni della distribuzione dei Dps, privilegiando chi realmente ne ha bisogno.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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