Esteri / Reportage
Tra gli orfani Rohingya in fuga dal Myanmar. Un disastro umanitario
Dall’ottobre 2016, un fiume di persone perseguitate dall’esercito birmano e dai civili ha attraversato a piedi il confine fino a raggiungere il Bangladesh. Tra loro, bambini abbandonati o affidati a sconosciuti. Abbiamo raccolto le loro storie
Cox’s Bazar, Bangladesh. Sowkat Ara non sa quanti anni ha. Probabilmente ne ha sei. Ha occhi neri grandi, i capelli bagnati a causa della pioggia e insieme ad altri 40mila bambini Rohingya in Bangladesh non ha una famiglia. Sowkat Ara ha perso i suoi genitori quando l’esercito birmano è arrivato nel villaggio e adesso non sa neanche se sono vivi o morti. In realtà non sa altro a parte il suo nome. Non ricorda. “I militari sono arrivati e hanno cominciato a sparare -Tannat Ara ha 9 anni, siede accanto agli altri bambini senza famiglia e racconta la sua storia senza prendere respiro-. Tutto è cominciato a bruciare intorno a me e sono fuggita, mi sono nascosta nella foresta finché non c’era silenzio”.
Tannat Ara, il cui nome significa “paradiso”, è arrivata a ottobre al campo profughi di Kutupalong dopo aver attraversato la giungla e il confine con il Bangladesh. “Non trovavo i miei genitori da nessuna parte, così i vicini di casa del villaggio mi hanno accompagnata -continua la bambina-. Poi ho perso anche loro e ho seguito tutte le persone che stavano fuggendo”. Un fiume di profughi percorre ogni giorno, dall’ottobre del 2016, le foreste del Myanmar e i campi di riso del Bangladesh per trovare riparo dalle violenze. Una fila indiana di disperazione che solo ad agosto, dopo l’accordo informale sul blocco dei confini tra i due Paesi, si è bloccata. “I militari hanno arrestato mio padre, li ho visti -i capelli nero corvino di Nur Fatema, 9 anni, sono legati con un elastico rosa- poi hanno sparato un razzo nella nostra casa e siamo scappati”.
La bambina non vede la madre, il fratello e la sorella da quel giorno. “Un uomo anziano mi ha aiutata e mi ha consegnato ad una signora -Nur Fatema non conosce il nome della donna che ha seguito per 10 giorni fino alle sponde del Naf river, fiume che divide i due Paesi-. Arrivata a Teknaf ci hanno trasportato a Kutupalong”. Adesso Nur Fatema vive nella tenda che di giorno viene usata come madrasa, la scuola islamica, da circa una sessantina di studenti. I suoi precettori e altri bambini senza parenti sono diventati la sua nuova famiglia.
Anowara, 9 anni, indossa una maglia viola e una catenina. “Ho camminato otto giorni per arrivare al fiume -la bambina racconta decisa la sua storia, mentre un gruppo di curiosi si affaccia alla porta della madrasa- con me c’era una signora del villaggio, adesso vivo con lei”. L’esperienza di Anowara assomiglia alle altre: i militari attaccano le comunità Rohingya del Nord di Rakhine, spesso di notte, e le famiglie si dividono nel caos provocato dagli spari. La paura prende il sopravvento e le madri, come nel caso della rifugiata di 9 anni, non riescono ad accudire tutti i figli. Anowara viene dall’area di Tula Toli, una realtà fatta di coltivatori di riso e una delle zone che più di altre ha subito la pulizia etnica dell’esercito birmano.
Dal racconto della bambina emerge che oltre ai militari sono intervenuti civili. Oggi a Tula Toli non ci vive più nessuno. “La prima volta che ci hanno incendiato la casa siamo fuggiti, spostandoci a Nord -continua Anowara- la seconda, a settembre, è stata l’ultima volta che ho visto i miei due fratellini”. Anche Zubair, 7 anni, vive ancora con chi lo ha accompagnato fino in Bangladesh. “Mangio una volta al giorno, non c’è molto cibo”, le braccia del bambino mostrano i segni di una magrezza non comune. Il viaggio per arrivare a Kutupalong rimane confuso, mentre ricorda benissimo i nomi di sua sorella più grande e del suo fratellino, di cui non ha più notizie dall’attacco.
Il sole scende sul campo profughi. I raggi rossi riflettono nelle pozze d’acqua contaminata che si formano sul terreno. Dalle alture l’orizzonte è una successione infinita di tende, intervallate da piccoli negozi di alimentari, moschee e centri per la prima assistenza medica allestiti dalle agenzie che lavorano nell’area. Kutupalong è una prigione a cielo aperto, i suoi abitanti non possono uscire. Costretti nel campo, i Rohingya hanno creato centri di aggregazione, un modo per evadere dall’assenza di libertà e ricreare quel senso di comunità perso nella fuga dal Myanmar. Le scuole islamiche, nate spontaneamente nel corso della crisi, ne sono un esempio.
Zamman, 55 anni, era un imam in Myanmar, adesso gestisce due madrase, in cui ospita i bambini che raccoglie dalle strade fangose del campo di Kutupalong. “Mia figlia ha adottato una delle orfane arrivate l’anno scorso”, l’uomo conosce molto bene l’area e i suoi abitanti, così cerca di fare da tramite tra gli orfani e coloro che sono disposti ad aiutarli. “Nei precetti dell’Islam c’è l’obbligo di assistere i più deboli, soprattutto in questa condizione così precaria”, continua l’imam, che si occupa anche della formazione degli altri bambini della zona. “Pochi mesi fa ho aperto una madrasa anche per le femmine, questa dove ci troviamo”, Zamman ci mostra le tre stanze i cui divisori sono realizzati con canne di bambù, mentre il tetto è un telo nero di nylon.
“Credo sia importante che i bambini abbiano un insegnamento, religioso e non”, l’ex Imam si è accorto della moltitudine di minori che ogni giorno passeggiano per le strade del campo, senza guida e senza strutture capaci di accoglierli. “Nella scuola ci sono adesso circa 60 studenti, anche se il numero varia ogni giorno”, conclude Zamman, prima di recarsi alla moschea per la preghiera del venerdì. Fuori dalla madrasa il cielo comincia a imbrunire, tre bambini faticano ad una delle pompe istallate dal Governo di Dacca per sopperire alla mancanza di acqua potabile e una donna accende un fuoco davanti a casa per preparare la cena. L’aria della sera spazza via il tanfo di rifiuti e fogne.
A pochi metri dalla scuola, superato il cimitero, c’è la tenda di Rafiqa, 8 anni. I suoi occhi cercano persone fidate. Ha paura. “Ho visto mia mamma e mio padre venire uccisi dai soldati”, sulla passata della bambina, che tiene i lunghi capelli ricci, c’è un rosa bianca e rossa. “Sono venuta qua con i nonni e vivo con loro”. Rafiqa è traumatizzata e come gli altri piccoli testimoni, non ha ancora ricevuto nessuna assistenza, né medica né psicologica.
Nei due campi profughi di Kutupalong, che uniti a quello di Balukhali e alle zone in espansione, contano oltre 500mila persone, ci sono, dati del ministero per il welfare del Bangladesh, 25mila orfani. Tra questi, il 25% ha perso entrambi i genitori, mentre poco più del 72% il padre. Il resto sono bambini che nella fuga si sono divisi dai familiari. Per completare il quadro dell’emergenza, il 13% dei minori è senza una casa.
Questa condizione aumenta le possibilità di violenze e soprusi. Nell’inchiesta della Reuters, compiuta l’11 novembre, sono trapelate infatti testimonianze allarmanti. Nonostante i numerosi checkpoint della polizia bengalese all’entrata e all’uscita dei campi, molti minori escono dall’area per andare a lavorare. Le bambine trovano impiego come domestiche, mentre i bambini svolgono attività agricole o vengono assunti nei cantieri stradali. Una volta fuori dal campo, senza il controllo di Ong e autorità, rischiano di essere oggetto di sfruttamento e molestie sessuali. “La maggior parte dei bambini che vedete ai lati della strada di Cox’s Bazar sono Rohingya -la fonte, vicina alle autorità di Dacca, chiede ripetutamente di rimanere anonima- chiedono qualche spicciolo, sono senza una famiglia oppure sono gli stessi genitori a mandarli a elemosinare”.
La spiaggia della città turistica del Sud Est del Bangladesh è uno dei contesti in cui poter osservare questo fenomeno. Gruppi di bambini avvicinano i pochi turisti di novembre allungando la mano. “Secondo voi quanto tempo ci vuole prima che i ragazzini entrino in giri pericolosi?”, la fonte si riferisce a pratiche di sfruttamento minorile. “Sta già accadendo. Le porte posteriori degli alberghi di Cox’s Bazar si sono già aperte. La prostituzione minorile fa già parte di questa realtà e il costo di un incontro si aggira intorno a 300 Taka, circa 4 dollari”. La piaga è all’inizio, “ma se non interveniamo ora, puntando a mettere in sicurezza i bambini dei campi, circa il 60% della popolazione, ci ritroveremo con una generazione di senza speranza alla mercé di qualsiasi pericolo”, conclude la fonte, disegnando i contorni di un possibile disastro futuro.
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