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Sport / Intervista

Niccolò Campriani. L’ingegnere alla giusta distanza

Niccolò Campriani, classe 1987, ingegnere e tiratore. Ha vinto tre medaglie d’oro e una d’argento ai Giochi olimpici - foto ANSA/ETTORE FERRARI

A 13 anni ha iniziato a giocare al poligono con la carabina, innamorandosi di uno sport tecnico e di grande forza mentale. Ha vinto le Olimpiadi, ma il tiro non è la sua unica passione. “Studio e agonismo non sono solo conciliabili, ma addirittura interfunzionali”

Tratto da Altreconomia 189 — Gennaio 2017

“A oggi l’ultimo colpo che ho sparato è stato quello che mi ha portato al secondo oro a Rio in agosto, poi non ho più toccato la carabina”, sorride Niccolò Campriani, tre volte campione olimpico di tiro a segno fra Londra 2012 (dove aveva ottenuto anche un argento) e le due vittorie alle ultime Olimpiadi brasiliane. Ha raccontato con rara schiettezza la durezza della sua disciplina e del proprio percorso di crescita nel libro “Ricordati di dimenticare la paura” (Mondadori-Strade Blu), così come nelle spiazzanti interviste a Rio, quando disorientò la stampa che già lo immaginava portabandiera italiano a Tokyo 2020. Atleta professionista e ingegnere con laurea negli Stati Uniti, Campriani è un uomo di ventinove anni in equilibrio fra la gloria sportiva, l’incognita del ritiro e l’adesione a nuove sfide.

Come hai cominciato col tiro a segno?
NC Ho iniziato a 13 anni per gioco, grazie a mio padre. Nei fine settimana andavamo al poligono di Bibbiena, nel Casentino, perchè lui aveva bisogno di fare delle prove di tiro per il suo porto d’armi da difesa. Una volta, mentre stavo ad aspettarlo, ho provato per gioco pistola e carabina ad aria compressa. È stato un colpo di fulmine. Le caratteristiche di questo sport si sposano bene con la mia personalità: è uno sport individuale e una sfida estremamente intima. Sei da solo col bersaglio, alla ricerca della perfezione, che pure sai che non raggiungerai mai.

Qual è il tuo rapporto con le armi?
NC Chi è entrato in un poligono si è reso conto di ciò che succede là dentro: usiamo pistole e carabine anzichè racchette e mazze da golf, ma è puro e semplice sport. Mi rendo conto che le armi evocano altri scenari, ma nella mia vita ho tirato sempre e solo su bersagli di carta.
Più che altro sono strumenti di altissima precisione: noi dobbiamo rientrare entro il millimetro come tolleranza di errore e quindi i materiali devono fare lo stesso. Il centro da colpire nelle gare a dieci metri è di mezzo millimetro, come un punto tipografico, mentre tutto il bersaglio è di sei-sette centimetri. A cinquanta metri è più grande e il centro è di un centimetro di diametro. È uno sport tecnico e soprattutto di grande forza mentale. Bisogna sapersi gestire: il cuore nei momenti decisivi può arrivare a 180 battiti al minuto. Non a caso è l’unica disciplina in cui il record del mondo femminile è superiore a quello maschile.

In che relazione sta lo sport col resto della tua vita?
NC Se sono quello che sono, lo devo allo sport. Persino l’essere diventato ingegnere negli Stati Uniti è stato grazie al tiro, che mi ha fruttato una borsa di studio da studente-atleta all’Università della West Virginia. Lo stesso vale per il fatto di avere conosciuto la mia compagna Petra (Zublasing, anche lei tiratrice di livello mondiale, ndr) e tutte le altre persone che mi hanno dato qualcosa, come lo psicologo americano Etzel. È dalla relazione con loro che scaturisce la persona che sono oggi. Poi lo sport mi ha insegnato a gestire lo stress e l’emotività anche fuori dalle gare. E mi ha fatto scoprire la meditazione, alla quale senza lo sport non credo mi sarei mai avvicinato. Sono scoperte che devo allo sport ad alto livello: cercavo di colpire il più vicino possibile al centro, ma di fatto stavo imparando qualcosa di molto utile per la vita di tutti i giorni.

Come si alimenta la tensione al miglioramento costante?
NC Si tiene viva mantenendo la passione. La motivazione da sola non basta. E credo che una questione fondamentale sia conservare la giusta distanza: non bisogna stare nè troppo immersi, nè troppo distanti dalla propria passione. Vale per chiunque, nella vita professionale come con il partner, e per me è successo anche con il tiro a segno. Il periodo più felice, nonché quello in cui sono stato più forte, fra il 2010 e il 2012, è stato anche il più impegnato: gli studi in America. Dormivo una media di cinque ore a notte, perchè c’erano mille cose da fare fra allenamenti e studio. Vedere un film la sera era un evento. Ma incredibilmente è stato anche il periodo in cui rendevo meglio. Grande difficoltà l’ho trovata, invece, quando sono passato professionista a tutti gli effetti, nel 2014, dopo avere completato gli studi. Lì ho fatto fatica ad autogestirmi, a calibrare il mio rapporto col tiro. Per me è stata un po’ una rivelazione, che va anche contro tanti luoghi comuni: studio e sport ad alto livello non sono solo conciliabili, ma addirittura interfunzionali.

In che senso?
NC Intanto, grazie ai miei studi ho contribuito alla realizzazione della carabina con cui poi ho vinto le medaglie a Rio. Poi ha influito sulle mie metodologie di allenamento, che sono molto scientifiche. Ma c’è un livello più importante: sport e studi sono interfunzionali perchè ogni giorno sei costretto a organizzarti dando il giusto peso alle cose. Ti rendi conto che lo sport fa parte di qualcosa di più ampio, e la stessa cosa vale per lo studio, e forse questo è il modo più sano per vivere un impegno o una passione. Per fortuna oggi posso dirmi: sono Niccolò, e sono un ingegnere e un tiratore. Questo ti leva veramente un macigno dal petto quando vai alla finale delle Olimpiadi e rischi di credere di giocare tutto te stesso in pochi minuti. Puoi finire per confondere le classifiche con l’autostima. Invece, combinare più elementi ti permette di diventare un po’ più oggettivo, di filtrare sia le vittorie che le sconfitte. E fa una differenza enorme quando ti trovi lì, a tirare un grilletto di sessanta grammi in piena aritmia cardiaca. È questa la lezione importante che ho tratto nell’ultimo quadriennio: bisogna portare avanti contemporaneamente due o tre passioni.

Questa convinzione ha che fare col periodo recente, nel quale si discute tanto del tuo possibile ritiro?
NC Mi sembra una questione assai meno tragica di come la mettono i giornali. Di recente ho scoperto cos’aveva detto Michael Jordan alla conferenza stampa in cui annunciò il suo primo ritiro: semplicemente, dal giorno dopo avrebbe fatto ciò che desiderava, passo dopo passo, e in questo rientrava anche la possibilità che un giorno avrebbe riavvertito il richiamo del campo da basket. Così è stato, e dopo un anno e mezzo è tornato. Forse il mio sarà un ritiro alla Jordan, non lo so ancora, ma è una cosa buona. Oggi sto cercando davvero di capire cosa voglio fare da grande e quali sono le mie aspirazioni. Se un domani tornassi in pedana per me non ci sarebbe niente di male, anzi. Sarà una scelta basata sulle passioni e non sull’inerzia.

Quali altre prospettive attirano un pluricampione olimpico non ancora trentenne?
NC Se sei il più bravo in una stanza, vuol dire che sei nella stanza sbagliata, si dice. Ecco, un’esperienza che mi attira molto è conoscere l’universo della Silicon Valley, dove se vai a bere un caffè ti ritrovi di fianco imprenditori di tutti i tipi, ragazzini che hanno cinque anni meno di te e hanno già creato un impero. Quella potrebbe essere la nuova “stanza giusta”, uno stimolo incredibile. E in questi anni sta esplodendo l’ambito delle wearable technologies, al crocevia fra sport e tecnologia. Qui penso possa stare il mio valore aggiunto: credo di essere un discreto ingegnere, e senz’altro nello sport ho raggiunto livelli alti, ma ciò che mi caratterizza di più è proprio di trovarmi all’intersezione fra questi due mondi. Ma molte cose devono ancora definirsi e ho anche altre curiosità. Mi piacerebbe contribuire a divulgare in Italia l’idea dello sport come strumento formativo per i ragazzi, secondo un modello che riprenda l’esempio del NCAA americana, che coordina i programmi sportivi nei college e nelle università. Naturalmente bisognerebbe sperimentare una via italiana, che consenta anche di frantumare la diffidenza reciproca che spesso esiste fra sport e studio nel nostro Paese.

Dopo tanti anni trascorsi ad affinare movimenti così precisi, in cosa credi consista il gesto perfetto?
NC Io il colpo perfetto non l’ho mai tirato. È difficilissimo descrivere a parole come sia, ma in testa ce l’ho. Connesso al gesto c’è una sensazione di pace, di assoluto controllo, anche senza che l’esecutore si sforzi. È ciò che dicono le filosofie di stampo orientale e si può tradurre in ogni cosa: dal tiro con l’arco, alla cerimonia del tè, alla scrittura. Non bisogna pensare a una ricompensa e nemmeno alla dinamica del gesto. Non bisogna proprio pensare. Il punto è perdersi nel gesto e tentare di sfiorare questa perfezione.

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