Ambiente / Opinioni
Nell’Italia fragile i ponti non cadono da soli
Nonostante l’evidenza dei cambiamenti climatici andiamo dritti per la nostra strada d’asfalto e cemento a imbrattare valli, pianure, montagne e colline. Poi ci accontentiamo delle condoglianze e diamo la colpa al meteo. Dobbiamo cambiare. Il commento del prof. Paolo Pileri
Un altro ponte è crollato. È ora il turno di un ponte sconosciuto che sta nella pancia di un Paese che si ricorda delle sue viscere interne e fragili solo quando succede qualcosa di irreparabile. Il ponte Lenzino è nell’alta Val Trebbia, provincia di Piacenza.
Il Trebbia è un fiume tra i tanti in Italia, dimenticati e abbandonati. Al netto delle zampate di cemento che l’hanno violentata, la Val Trebbia è così incantevole che Ernest Hemingway la celebrava come uno dei luoghi più belli al mondo. Hemingway in Val Trebbia? Sì, il grande scrittore americano è stato qui. E non ci è stato perché noi ce ne dimenticassimo, ma perché facessimo di tutto per ricordarci di quella valle come delle altre migliaia che abbiamo e a cui giriamo le spalle. Ma non ascoltiamo né lui né nessuno.
La Val Trebbia è pure attraversata da cammini medioevali che si incrociano in quel borgo meraviglioso che è Bobbio. Ma niente, noi andiamo dritti per la nostra strada d’asfalto e cemento a imbrattare valli, pianure, montagne e colline. Scriviamo leggi-patacca che fingono di non consumare più suolo, che fingono di indirizzare l’urbanistica a fare altro (solo recuperare), che si inventano deroghe su deroghe, che dicono che sistemeremo tutto al 2050 e che alla fine hanno spesso il sapore amaro di essere negazioniste di fatto a cui importa poco dei pezzi che cadono del Paese, specie se accade dove guardano in pochi, nell’interno.
I ponti non cadono da soli. Ci sono sempre delle cause che ne determinano il loro crollo. E vanno studiate. Studiare, vuol dire impegnare persone esperte prima che accadano i fatti. Pagarle, ascoltarle, apprezzarle. Quando un ponte nella pancia del Paese cade dobbiamo provare a chiudere gli occhi e a immaginare la lunga catena di dimenticanze e incuranze che ci sono state prima del crollo.
Quando le acque si ingrossano per via delle violente piogge (oggi peraltro assai prevedibili) un ruscello diventa una bestia furiosa che si porta giù tutto a partire da quel che noi lasciamo in giro perché non curiamo più il nostro paesaggio. Tronchi e rami che sono a terra o che erano già in alveo incastrati da qualche parte e che nessuno più toglie, perché la manutenzione non si fa a dovere, diventano proiettili che si scagliano a tutta velocità contro le pile di quei ponti tremolanti. E tutto peggiora in un nanosecondo. Magari il ponte era a posto. Gli strutturisti, si legge sui giornali, lo avevano visitato come un medico fa con il suo paziente. Ma il malato spesso non è quel che abbiamo davanti, ma l’ambiente intorno che non manuteniamo più. Un paziente sano se respira aria sporca si ammalerà.
È questo spostamento di attenzione, dal malato al suo ambiente, che dobbiamo fare e fare presto. Le condoglianze del nostro presidente della Repubblica al governatore di turno sono sempre apprezzate, ma abbiamo bisogno di altro, mi si permetta. Bisogna che capiamo profondamente le ragioni del clima, frequentandole e facendoci aiutare da esperti appassionati e scientificamente preparati a vedere oltre il loro naso. Luigi Einaudi, presidente anch’egli, capii negli anni 50 che trascurare il suolo italico così fragile ci avrebbe spinto nel baratro. Scriveva sul Corriere della Sera che era quella la sfida più difficile e urgente della politica italiana, del Paese.
Ecco abbiamo bisogno di quelle parole, parole che ci strappano dalla pur necessaria pietà per quel che accade e ci danno uno scossone, spiegandoci che siamo parte del problema e non solo vittime. È urgente essere richiamati al dovere della prevenzione e della manutenzione delle aree più fragili del Paese. Ma non con un fare burocratico o con la solita litania dei finanziamenti che mancano, bensì con una rinnovata spinta culturale. Di soldi ce ne sono, ma mancano le idee e la chiara convinzione a spenderli per tenere pulito il Paese. Abbiamo bisogno di voci che ci riappassionino a un’Italia che è fragile da sempre e può salvarsi solo se abbiamo occhi per vederla così nuda e ferita. Le voci alte che ci rimproverano per uno stile di vita assurdo e per una cronica dimenticanza delle aree interne sono flebili e quasi inesistenti.
Le parole che sentiamo, di condoglianza, non fanno che muoversi in uno spazio ambiguo, lasciando che nel nostro immaginario di cittadini trovi spazio l’idea che è ancora il meteo il colpevole mentre noi abbiamo poche responsabilità. Se chi ha ruoli di responsabilità non dice chiaramente che è vero il contrario e non fa ammenda degli errori e dell’incultura che alimenta le fragilità del Paese, la strisciante voglia di assoluzione prevarrà e dopodomani tutto riprenderà come prima e peggio di prima. Hemingway se ne faccia una ragione. Il prossimo anno ripartirà la stessa trasmissione e saremo ancora qui a dirci le stesse cose. Se i ponti su nostri fiumi cadono è perché non chiudiamo i circuiti logici tra quel che riteniamo giusto fare e gli effetti che si depositano a terra. Davanti al modo diverso con cui la natura sta reagendo c’è una sola coppia di parole da guardare: cambiamento climatico. Basta distrarsi e fingere di non capire: dobbiamo cambiare. Solo questo ci eviterà il peggio. E non c’è più tempo per cambiare gradualmente, occorre fare subito e bene.
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)
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