Ambiente / Attualità
Microplastiche, l’inquinamento parte dalle lavatrici di casa
Il 35% dei micro-frammenti di plastica che inquinano mari e oceani vengono dai lavaggi dei nostri capi d’abbigliamento: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre. Contaminando la catena alimentare
Ogni giorno da un grande depuratore del Nord Italia fuoriescono verso i fiumi acque trattate contenenti 160 milioni di frammenti di microplastiche. Tantissimi, ma meno del 20% di quelli contenuti nei reflui in entrata. L’84%, pari a circa 3,4 miliardi di frammenti, rimane infatti nei fanghi di depurazione, gli scarti di pulitura che però in molti casi vengono sparsi nei campi come concime. Quando si parla di microplastica negli oceani, la maggior parte degli studiosi guarda all’ultimo anello della catena, il mare, mentre pochi provano a risalire i passaggi per cercare le fonti della contaminazione.
Una ricerca realizzata dall’Università Statale di Milano in collaborazione con l’università Politecnica delle Marche, coordinata dalla fondazione AquaLab e pubblicata a ottobre sulla rivista “Science of the Total Environment” ha studiato il fenomeno all’origine concentrandosi su un grande impianto di trattamento dei reflui e su ciò che finisce nelle acque dolci.
Oggi, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), tra il 15% e il 31% delle microplastiche presenti negli oceani ci finisce direttamente sotto forma di frammenti più piccoli di 5 millimetri, in un caso su quattro proprio attraverso i fiumi. La fonte principale (35% dei frammenti) sono i lavaggi in lavatrice: gli indumenti sintetici, che oggi rappresentano il 60% del consumo tessile globale, rilasciano grosse quantità di fibre, che dallo scarico domestico passano nei depuratori. Altra fonte significativa di particelle di microplastica è il logorio dei pneumatici (28%), le cui particelle arrivano nei mari tramite il vento e i reflui stradali. Infine, dai depuratori passano anche le microsfere contenute nei cosmetici, minuscole ma responsabili da sole del 2% dei frammenti totali.
Un’altra ricerca condotta dall’Istituto per gli studi ambientali dell’università Vrije di Amsterdam ha trovato concentrazioni di microplastiche comprese tra 9 e 91 particelle per litro nelle acque trattate da tre depuratori olandesi che scaricano in mare o nei fiumi. “Gli impianti di depurazione di recente costruzione, pur non essendo progettati per la separazione di piccoli frammenti di plastiche, riescono ad evitare che otto frammenti su dieci arrivino al fiume”, dice il direttore di AquaLab e docente presso l’università Bocconi di Milano, Alessandro De Carli guardando al bicchiere mezzo pieno. Certo, dove i depuratori sono vecchi o inesistenti, le cose vanno molto peggio. Per immaginare situazioni peggiori basta pensare che l’Italia a maggio scorso è stata multata dall’Europa per non aver ancora completato fognature e impianti di depurazione in 74 città.
Quando a casa chiudiamo l’oblò della lavatrice e premiamo il tasto “on”, difficilmente il nostro pensiero va alle microplastiche in mare. Eppure quel lavaggio sarà il punto di partenza di un lungo viaggio verso gli oceani per migliaia di fibre. Secondo la Fao (Fondo delle Nazioni Unite per l’alimentazione) e l’International Cotton Advisory Committee, tra il 1992 e il 2010 il consumo di fibre sintetiche è aumentato del 300%, passando da 16 a 42 milioni di tonnellate. Non esistono -al momento- dati scientifici completi sull’esatta quantità di microplastiche che, dai nostri maglioni o dai jeans, finisce nelle acque dei fiumi dopo i lavaggi. Ma i dati disponibili sono allarmanti.
Una ricerca guidata da Mark Browne dell’University College di Dublino nel 2011 ha dimostrato per esempio che un singolo capo può liberare in un lavaggio più di 1.900 microfibre. Uno studio dell’università di Plymouth pubblicato nel 2016 ha messo a confronto tessuti diversi e analizzato una serie di variabili di lavaggio. Se non si sono ottenuti risultati chiari rispetto al tipo di detersivo e all’aggiunta o meno di ammorbidente, è emerso però che dai capi completamente sintetici si staccano più microfibre: su un carico da 6 chilogrammi, infatti, capi in tessuti misti cotone e poliestere rilasciando quasi 138mila fibre, contro le oltre 496mila del poliestere e le quasi 729mila dell’acrilico. Di fronte a questi dati, alcuni grandi gruppi di abbigliamento stanno cercando di correre ai ripari prima che sia l’Europa a mettere dei paletti: tra questi, l’associazione di marchi per sport all’aperto European Outdoor Group, che sta conducendo ricerche sul tema, e aziende come Benetton.
Dal depuratore i frammenti potrebbero tornare all’uomo attraverso la catena alimentare. Sia tramite i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi, sia attraverso l’assorbimento da parte dei pesci usati per l’alimentazione umana. Il gruppo scientifico coordinato dall’ecotossicologo dell’università statale di Milano (dipartimento di Bioscienze) Andrea Binelli ha studiato in che modo le microplastiche entrano negli organismi d’acqua dolce. Una prima ricerca, condotta in collaborazione con l’agenzia governativa canadese Eccc, ha mostrato come i piccoli frammenti penetrino in tutto l’organismo dei molluschi d’acqua dolce Dreissena polymorpha.
“Le microplastiche somministrate ai bivalvi entrano non solo nel tratto digerente, ma riescono a infiltrarsi attraverso le pareti intestinali, venendo trasportate dal sistema circolatorio in altri organi, dove si accumulano nelle cellule”, spiega Binelli. In altre ricerche in corso di pubblicazione, gli scienziati milanesi hanno osservato l’infiltrarsi delle microplastiche negli embrioni di Danio rerio , un pesce di acqua dolce usato comunemente negli esperimenti di laboratorio: “Dopo solo 24 ore di esposizione, le microsfere di polistirene sono state rilevate nelle branchie, nel tubo digerente e, per la prima volta, anche in un organo di senso presente nella linea laterale dei pesci, chiamato neuromasto. Anche in questo caso le microplastiche sono riuscite a infiltrarsi nei tessuti dell’organismo, in quanto sono state rilevate nella muscolatura e in prossimità di un vaso sanguigno”, aggiunge lo studioso.
Sui possibili effetti ancora non ci sono informazioni esaustive, anche se dai test sui molluschi arrivano indizi interessanti. I ricercatori dell’università di Milano hanno esposto i bivalvi per sei giorni a concentrazioni di 1 milione e di 4 milioni di microsfere di polistirene per litro: se nel primo caso non si sono osservate variazioni significative delle proteine branchiali, nel secondo si è osservata l’alterazione di 78 diverse proteine, legate per lo più all’aumento o alla risposta allo stress ossidativo. “Questo sembrerebbe indicare la presenza di un valore-soglia oltre il quale si attiva una risposta dell’organismo nei confronti della presenza di microplastiche”, spiega ancora Binelli.
Una delle ipotesi sulla tossicità delle microplastiche “è legata soprattutto ai contaminanti adsorbiti sulla loro superficie, raccolti in ambiente, e ai plasticizzanti che vengono impiegati per la loro produzione. In questo modo le microplastiche potrebbero fungere da vettori per tali composti tossici, aumentando l’esposizione effettiva degli organismi”, spiega ancora Binelli.
Aspetti da approfondire anche per capire che cosa davvero entra nella catena alimentare, sia attraverso i pesci, sia attraverso i fanghi di depurazione sparsi sui campi. Binelli ci tiene a non cadere in allarmismi al momento non supportati da evidenze scientifiche: “Nelle prove di esposizione eseguite in laboratorio abbiamo, comunque, impiegato concentrazioni di microplastiche decisamente superiori ai livelli ambientali, in quanto ci interessava capire se le microplastiche entrassero nei nostri modelli biologici, il loro eventuale trasporto all’interno degli organismi e il meccanismo d’azione tossicologico. Il passo successivo, sarà quello di comprendere il loro comportamento e la pericolosità a concentrazioni ambientali, con esposizioni più lunghe, che mimino l’esposizione reale degli organismi acquatici”. Altre ricerche dovranno essere fatte sulle microfibre tessili, che potrebbero avere comportamenti differenti dalle microsfere.
Due studiosi dell’università di Portsmouth, Paul Farrell e Kathryn Nelson, hanno dimostrato che le microplastiche assorbite dalle cozze sono in grado di passare nel sistema circolatorio del loro predatore, un comune granchio, passando così nella catena alimentare: “Questo pone una seria minaccia alla sicurezza dell’alimentazione umana, specialmente con i mitili marini edibili”, si legge nell’articolo scritto dai ricercatori italiani e canadesi.
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