Cultura e scienza / Attualità
Luca Falsini. La storia che cancella l’oblìo
Oggetto di usi e abusi strumentali, la storia oggi è utilizzata per demonizzare l’avversario e non per comprendere il nostro tempo. Intervista all’autore de “La storia contesa”
La narrazione storica non sta molto bene. Negli ultimi decenni è caduta nelle maglie del revisionismo e del sensazionalismo, deriva che nulla ha a che vedere con il rigore del suo metodo scientifico. Una colpa è della politica, che ha fatto dell’uso pubblico della storia uno strumento elettorale. È una delle argomentazioni sostenute dallo storico Luca Falsini ne “La storia contesa” (Donzelli Editore, 2020). Analizzando gli editoriali dei quotidiani e dei discorsi parlamentari pronunciati nel primo decennio della seconda Repubblica, l’autore presenta una lunga casistica di come gli eventi nazionali dell’ultimo secolo siano stati oggetto di una narrazione fuorviante. Dal Risorgimento al fascismo, di cui ancora si nega la forma totalitaria, alla Resistenza. Si aggiunge, poi, lo scarso interesse che le nuove generazioni nutrono nei confronti dello studio della storia e che non contribuisce a migliorare la situazione. Anche per questo, sottolinea Falsini, è arrivato il tempo che il metodo storico si rinnovi usando mezzi come le immagini, le fonti orali e le fotografie. “Lo storico non può che far propri gli strumenti della moderna comunicazione -afferma- e imparare i linguaggi di chi è cresciuto nella società dell’immagine e dei social media perché è proprio nel rapporto con le giovani generazioni che si gioca la partita più importante”.
Per riflettere sul rapporto tra discorso politico e storia, sceglie il 1989 come data di partenza. Che cosa prende avvio da questo momento?
LF Il 1989 è una data periodizzante, non solo per l’Italia. Il crollo del muro di Berlino diede il via al processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica che si compì formalmente alla fine del 1991, costringendo tutti i partiti che si erano ispirati all’ideale comunista a ripensarsi e a riposizionarsi su nuovi paradigmi politici e identitari. Di lì a poco in Italia, il disvelamento del malaffare e della corruzione politica ed economica trascinò a fondo i partiti che avevano variamente governato il Paese nell’intero arco costituzionale, aprendo anche a destra nuovi scenari politici. In una fase così intensa di cambiamento, in cui erano in gioco le eredità simboliche di ideologie totalitarie e pervasive, la storia tornò prepotentemente al centro del dibattito. Ma nel modo sbagliato, divenendo oggetto di usi e abusi strumentali, finalizzati non a comprendere il nostro tempo ma a demonizzare l’avversario politico.
Uno dei terreni dello scontro continua a essere la Resistenza. Come mai?
LF Perché una parte dei contendenti, per fortuna, pur riconoscendo alcuni limiti ed eccessi del racconto storico della Resistenza, continua ancora a credere nell’attualità del suo messaggio; e perché invece un’altra parte ha preferito, per ragioni ideologiche, accantonare tutto quanto ci fu di buono in quell’esperienza preferendo vedere in essa e nella proposta antifascista di cui era portatrice il cavallo di Troia attraverso il quale sia era potuto affermare in Italia il comunismo.
La forza numerica del Pci, un partito dipinto come filosovietico e antipatriottico, unita all’indifferenza verso i partigiani della maggioranza degli italiani tra il 1943 e il 1945, rendono oggi la Resistenza, agli occhi dei suoi detrattori, incapace di rappresentare un momento condiviso della nostra storia nazionale. È una lettura che dimentica il ruolo svolto dalla Resistenza e dall’antifascismo nel passaggio dalla dittatura alla democrazia e nel suo consolidamento nonché -per dirla con Claudio Pavone- nell’“aiutare il destino” restituendo a molti popoli il diritto di tornare a disporre di sé.
“Definire il fascismo una ‘dittatura benigna’ significa cancellare quanto il regime
ha rappresentato per oltre 20 anni”
Emilio Gentile ha parlato di “defascistizzazione retroattiva”, intesa come edulcorazione del fascismo e mancato riconoscimento della sua struttura totalitaria. Quanto pesa sul discorso pubblico?
LF Pesa molto, se non altro perché rende più difficile fare i conti con il nostro passato. Definire il fascismo una “dittatura benigna” significa cancellare quanto il regime ha rappresentato per oltre 20 anni in termini di violazione delle libertà individuali e di oppressione di ogni forma di dissenso. Significa sminuire il ruolo italiano nella persecuzione degli ebrei, nelle politiche di italianizzazione forzata nel confine orientale, in Grecia, nei Balcani e nelle sciagurate politiche coloniali. Assolvendo il fascismo abbiamo cercato di assolvere noi stessi per il consenso dato a un regime totalitario e oppressivo. Ma come dice Henry Rousso, la rimozione di un evento traumatico può produrre il “ritorno del rimosso” che può poi trasformarsi in “ossessione della memoria”. Solo la conoscenza ci aiuterà a fare i conti con il passato, non le rimozioni né l’oblio.
Molti storici parlano di “destoricizzazione della coscienza giovanile” e “delegittimazione del discorso storico” per indicare il disinteresse delle nuove generazioni verso l’argomentazione storica. Come si è arrivati a questo punto critico?
LF La politica ha le sue responsabilità, in parte per aver delegittimato il discorso storico subordinando la ricerca e la trasmissione del sapere alle esigenze del mercato e dei gruppi politici; in parte per aver ridimensionato il ruolo della storia nei processi educativi. La storia contemporanea un tempo era considerata una disciplina essenziale in molte facoltà universitarie, mentre oggi è quasi ovunque confinata negli specifici percorsi storici. Ma è un problema che riguarda l’intera cultura umanistica, messa sempre più a margine nella formazione degli studenti. Tutto ciò ha trovato terreno fertile nella società contemporanea, dominata dalla superficialità, dalla frenesia e da una visione sostanzialmente aproblematica del mondo, dove le giovani generazioni vogliono tutto e subito mostrandosi indisponibili ad affrontare le sfide del proprio tempo con un po’ di sana consapevolezza critica.
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