Esteri / Reportage
L’inverno dei richiedenti asilo afghani a Sofia
Quasi 40mila persone hanno presentato richiesta di protezione internazionale tra il 2015 e il 2016 in Bulgaria. Il Paese, però, non ha strutture adeguate per gestire simili flussi
“Ci trattano come bestie, a noi afghani. Quasi tutti quelli che vedi qui dentro sono stati derubati e picchiati dalla polizia. Fa schifo la Bulgaria, me ne voglio andare” dice Tony, un 28enne originario dell’Afghanistan bloccato nella capitale da otto mesi.
La rotta migratoria che passa per i Balcani, usata da centinaia di migliaia di migranti (in maggioranza provenienti da Siria, Afghanistan, Pakistan e Iran) per raggiungere l’Europa occidentale, è stata ufficialmente chiusa nel marzo del 2016, e l’attraversamento legale dei confini è divenuto quasi impossibile. Com’è successo anche a Tony, migliaia di migranti sono rimasti in un limbo: intrappolati in un Paese in cui non vogliono rimanere, e impossibilitati a continuare il viaggio verso la meta prestabilita. Tony è seduto dentro il caffè Maria Luiza, situato nel centro di Sofia. Questo posto è il luogo di ritrovo della comunità afghana bloccata in città. Dalle 15 in poi, il caffè si riempie: molti degli afghani che vivono nei tre campi di Sofia (Ovcha Kupel, Vrazhdebna and Voenna Rampa) passano il pomeriggio qua, ammazzando la noia con tè e kebab.
L’Agenzia di Stato bulgara per i rifugiati ha registrato 19.418 richieste di protezione internazionale nel 2016 -in linea con quelle del 2015, quando furono 20.391-. Fino al 2012, però, la Bulgaria non era un Paese così interessato dal flusso dei migranti: quell’anno le richieste furono solo 1.387; tra il 2013 al 2015, complice la chiusura della via balcanica attraverso la Macedonia, c’è stato un aumento del 1.300%. I migranti in transito attraverso la Grecia non potendo più passare ad Ovest hanno optato per il cammino ad Est, attraversando la Bulgaria, per poi continuare in Serbia. Da lì si aprono due possibilità per raggiungere “l’Europa che conta”, o attraverso l’Ungheria e poi da lì in Germania; oppure attraverso la Croazia, per continuare verso la Slovenia e infine l’Austria. L’aumento imponente di arrivi ha sicuramente messo a dura prova un Paese che non aveva le strutture adatte a gestire questi numeri. Un report dello European Council on Refugees and Exiles, del febbraio 2016, evidenzia come a fronte delle 20.391 richieste d’asilo ci fossero soltanto 5.130 posti disponibili suddivisi su 6 strutture.
In effetti, stando all’ultimo report di Amnesty International sul Paese, quello pubblicato a gennaio 2016, i campi versano in condizioni pessime: “Rimangono forti perplessità riguardo cibo, strutture, e accesso alle cure mediche e ai medicinali” si legge. Rappresentano un posto difficile dove poter vivere.
I violenti scontri del 25 novembre 2016, tra polizia e residenti del campo di Harmanli, non lontano dal confine turco, sono il sintomo del disagio vissuto dai residenti di queste strutture.
“Io c’ero” racconta dentro il caffè Maria Luiza Abdullah Saheel, 18 anni. “Quel campo era orribile. Il cibo faceva schifo, niente acqua calda, e nemmeno un letto dove poter dormire” continua.
I media bulgari hanno fatto passare i disordini come un attacco dei migranti alla polizia, ma -come spiega Abdullah- la situazione era ben diversa e protestavano per le orribili ed insostenibili condizioni in cui versavano. Questa tesi è ribadita anche dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che già il 29 Novembre 2016 aveva criticato il governo bulgaro. William Spindler, uno dei portavoce dell’UNHCR, aveva dichiarato ai giornalisti, durante una conferenza stampa a Ginevra: “Il campo di Harmanli è incredibilmente sovraffollato, ospita 3.100 persone, di cui un terzo sono bambini, quando la capacità massima è di 2.710. Le condizioni, poi, sono deplorevoli e ben sotto gli standard richiesti”.
Abdullah conferma: “Siamo stati circa 15 giorni chiusi nel campo, non potevamo uscire. Eravamo in quarantena a causa della scabbia, così dicevano. Dopo un po’ hanno smesso di far entrare i dottori, il cibo era sempre peggio, e non c’era l’acqua calda. Per questo abbiamo protestato, non potevamo più resistere. Fu un vero caos, molta violenza, ho visto tanti feriti”. Furano 50, quella notte, tra poliziotti e migranti.
Dal campo di Harmanli, che si trova a 250 chilometri dalla capitale e ad appena 47 chilometri dal confine turco, Abdullah è scappato: “Ci trattavano senza dignità: calci, pugni; la polizia ci picchiava ogni giorno”.
Un amico gli ha pagato il bus per la capitale Bulgara. Appena arrivato, si è diretto al campo di Voenna Rampa, dove però non lo hanno accettato, visto che era registrato in quello di Harmanli. Così ha iniziato a vagare senza meta. Ha provato all’ostello accanto al Cafè Maria Luiza, ma non aveva neanche 5 euro a notte per la stanza. Ora dorme all’aperto, con temperature che toccano meno 10 gradi (“In verità più che dormire vago, perché fa troppo freddo”, dice). Per mangiare esiste la solidarietà tra gli afghani: al caffè qualcuno, di volta in volta, gli offre qualche, e quando capita lo fanno anche i cronisti di passaggio.
Al Maria Luiza incontro decine e decine di afghani, tutti uomini tra i 20 e i 30 anni. La stragrande maggioranza di loro ha avuto problemi con la polizia locale: “Mi hanno forzato a salire in macchina, hanno guidato fino a un parco, sicuri che non ci fossero telecamere” mi racconta Aarif, fuori dal caffè mentre fuma una sigaretta.
Nevica parecchio e il freddo è intenso. “Mi hanno obbligato a dar loro il cellulare e i pochi soldi che avevo. All’inizio ho rifiutato, ma uno di loro si è arrabbiato e mi ha dato il manganello sul naso. Vedi, questa cicatrice sul naso è la frattura che mi ha provocato”. Lo stesso report di Amnesty International 2015/2016, e il Consiglio per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in data 22 giugno 2015, hanno denunciato apertamente un alto livello di razzismo e di atti d’intolleranza nei confronti dei migranti bloccati in Bulgaria, che sfocia in molestie e violenze nei loro confronti. Questi attacchi xenofobi e razzisti compiuti da polizia e cittadini, che di solito fanno parte di fazioni politiche nazionaliste, rimangono largamente impuniti. Come si legge nel documento di Amnesty, “in Bulgaria, alle vittime di questi attacchi Xenofobi, viene negata giustizia… Questa tipologia di crimini d’odio viene generalmente investigata come attacchi motivati da vandalismo (‘Hooliganism’) piuttosto che come crimini legati all’etnia d’origine o lo status di migrante. Dunque, in Bulgaria, l’entità dei crimini d’odio e il loro impatto sulle vittime, rimangono largamente nascosti e senza risposte”.
L’ostello dove dormono gli afghani che si possono permettere 5 euro a notte è lurido. Nel corridoio due ragazzi di 18 anni fumano una nuova droga molto diffusa nei Balcani, e che arriva dalla Turchia: la chiamano Banzai. Tecnicamente un cannabinoide sintetico; cioè, una qualunque pianta fatta essiccare e cosparsa di agenti chimici. Gli effetti sul cervello sono seri e permanenti, nulla a che vedere con la Marijuana. Mentre fumano, uno di loro mi indica il naso. Anche in questo caso ha una vecchia cicatrice : “La polizia me lo ha rotto. Mi hanno rubato tutto quello che avevo”.
Fuori dall’ostello c’è Jamal, un afghano di 33 anni che lavora come traduttore per Medici Senza Frontiere nel campo di Voenna Rampa, e racconta di altri particolari inquietanti: “La sera è molto rischioso prendere il bus che dal centro di Sofia ti porta verso i campi. Ci sono gang di bulgari che vanno in giro a malmenare i rifugiati. Molte persone che conosco sono state derubate e picchiate da questa gente. Per Medici Senza Frontiere, questa problema è la priorità. Solo le autorità possono fermare queste violenze, non possiamo farci giustizia da soli”.
Daniel Stefanov, portavoce dell’UNHCR Bulgaria, chiarisce ad Altreconomia la posizione dell’Agenzia umanitaria riguardo queste quotidiane violenze : “Siamo consapevoli di questi attacchi, che condanniamo fermamente. Noi incoraggiamo le vittime di questi attacchi a presentare formale denuncia. L’UNHCR offre assistenza legale gratuita per questi attacchi, qualora la vittima non si senta a proprio agio nel presentarsi di fronte alla polizia. Visti questi attacchi xenofobi, che accadono in molti Stati europei, la nostra agenzia ha condannato apertamente e pubblicamente queste derive e fatto pressione perché i governi intervengano in modo deciso”.
Nel frattempo, fuori dall’ufficio lussuoso e ben riscaldato dell’UNHCR, le persone che quell’agenzia dovrebbe proteggere muoiono di freddo (dall’inizio del 2017 si contano ben sei migranti assiderati in Bulgaria), o vengono quotidianamente picchiate e derubate dalla polizia e dai razzisti, e vivono nei campi in condizioni non accettabili.
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