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L’indispensabile dibattito sui biocombustibili


Coltivare carburanti e combustibili è ecologicamente utile
o ecologicamente disutile, mettendo nel conto anche il consumo di acqua, pesticidi, energia, e la difesa del suolo, della biodiversità, del paesaggio? Tutto compreso, le colture energetiche (biodiesel, bioetanolo, biomassa legnosa) producono più energia di quella che ne serve per la loro crescita, dunque sono utili agli obiettivi di Kyoto? In che percentuale, considerate le terre a disposizione, si può pensare di sostituire così i combustibili fossili? C’è abbastanza terra, o alla già nota competizione “food-feed” (cibo per umani contro foraggi per animali) si aggiungerà la competizione feed-fuel (cibo per umani contro cibo per le automobili)?

A cura di Marinella Correggia

Non c’è il rischio che l’obiettivo europeo di aumentare il ricorso ai biocarburanti significherà importarli in gran parte da paesi impoveriti, con gran danno per le altrui foreste e la sicurezza alimentare mondiale? Non sarà che le uniche colture energetiche sostenibili sono quelle, arboree, effettuate su terreni inquinati, zuppi di acqua, marginali, e quelle che permettono di alleggerire la pressione sui boschi naturali?

Domande e dubbi a cui hanno cercato di rispondere i numerosissimi relatori al convegno “COLTURE A SCOPO ENERGETICO E AMBIENTE. Sostenibilità, diversità e conservazione del territorio”, organizzato dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici) e tenutosi a Roma il 5 ottobre 2006. Il bilancio finale, grazie soprattutto ai dubbi espressi da studiosi dell’Università della Tuscia, dalle associazioni ambientaliste e dal Ministero dell’Ambiente, è di estrema cautela: niente facili entusiasmi, anzi…

Ecco qui di seguito un percorso ragionato che però riassume i pareri dei relatori; questo è utile per rendersi conto del posizionamento dei vari attori nella partita.

Punto di partenza: la principale ragion d’essere delle colture energetiche è sostituire combustibili e carburanti fossili che contribuiscono al riscaldamento climatico. L’Italia sta violando il protocollo di Kyoto in materia (era prevista una riduzione del 6,5 per cento delle emissioni di Co2 dal 1990 entro il 2008-2012, invece dal 1990 l’Italia ha aumentato le emissioni del 13 per cento). Eppure lo stesso protocollo è del tutto insufficiente. In questo contesto ci si chiede se le colture energetiche possano essere la soluzione, dare almeno un utile contributo oppure francamente essere negative.

La direttiva europea sull’uso dei biocombustibili prevede un aumento delle quote di mercato degli stessi fino al 5,75 per cento nel 2010, per diminuire l’importazione di combustibili fossili. In Italia potrebbero essere interessate superfici fino a un decimo dell’area agricola, insomma un milione e più di ettari; ed è fondamentale esplorare le conseguenze che ciò avrebbe sulle colture alimentari, sulla conservazione della biodiversità, sul paesaggio, gli impatti su aria, acqua, suolo.

Nota bene: in caso di tempo scarso, leggere prioritariamente gli interventi di: Fabrizio Fabbri (minambiente), Fabio Caporali (università della Tuscia, Viterbo), Lorenzo Ciccarese (Apat), G. Mughini (Ist. sper. nutrizione piante), Anna Benedetti (Ist. sper. nutrizione delle piante), Enrico Parchetti (Crear), Ennio Campiglia (Univ. Tuscia), Alessandro Dessì (Vas- verdi ambiente e società) e Francesco Ciancaleoni (Coldiretti), Vincenzo Ferri (studio pop. Anfibie)
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Fabio Caporali (Dipartimento di produzione vegetale, Università della Tuscia, Viterbo)

La nostra civiltà è ossessionata dalla produzione e dal consumo. Allora, come prima cosa dovremmo forse riflettere su quanto si può risparmiare. L’agricoltura è già soggetta a forti pressioni, e il suo obiettivo principale è produrre cibo, in questo senso fu la maggiore rivoluzione compiuta dagli uomini. Oggi le si chiede di produrre cibo per gli schiavi meccanici dell’uomo, le macchine. Le automobili. L’Italia ha 70 0 auto ogni  mille abitanti, è in testa agli altri europei. Sono veramente necessarie? Bispogna anche considerare che l’agricoltura nutre i microrganismi del suolo, supporta la fertilità del terreno, e bisogna lasciare questo. Il prelievo eccessivo è sconsiderato.



Riccardo Deserti
, capo della Segreteria tecnica del Ministero politiche agricole, alimentari e forestali

C’è il rischio di disperdere risorse per progetti non così viabili. Le filiere delle biomasse forestali e quelle delle colture energetiche annuali. Economicamente parlando, la sostenibilità di queste ultime non c’è: una coltura energetica non può arrivare a essere più sostenibile del mais, e allora occorre aggiungere risorse pubbliche per integrare i redditi. In singole realtà c’è la possibilità di una filiera economicamente sostenibile, ma occorre molta cautela e attenzione. Se quella percentuale fissata dall’Unione europea (il 5,75 per cento dei combustibili dovrà essere di origine agricola nel 2010) dovesse essere coperta per l’Italia da colture tutte italiane, poccorrerebbe destinare oltre un milione di ettari il che probabilmente creerebbe distorsioni quanto alla competizione food-non food. Magari nell’Italia centrale e meridionale ci sarebbero più spazi di competitività. Occore dunque non partire da un obiettivo percentuale indicato per legge ma piuttosto dalle caratteristiche del territorio. C’è probabilmente maggior spazio per le biomasse fortestali e la microgenerazione diffusa.



Fabrizio Fabbri
, capo della segreteria tecnica del matt (Ministero dell’ambiente, tutela del territorio e del mare)

Mesi fa ha avuto molta risonanza un dibattito poco scientifico, sul quale ha insistito Sartori sul Corsera. Il punto su cui si insisteva era: “L’olio di colza e simili sono la soluzione, perché continuiamo a importare petrolio?”. Così però si creano aspettative pericolose. La semplificazione innesca una corsa a qualcosa che non trova riscontro. Quello delle colture energetiche è un argomento che sta porendendo piede; anche nella campagna elettorale di Lula in Brasile l’etanolo per l’indipendenza energetica ha avuto un grosso peso. Ma il Brasile non solo è su questa strada (con relative infrastrutture) dagli anni 70, ma anche e soprattutto ha un’ampiezza di territori che in Italia non esiste. Occorre che pensiamo a una via nostra, a filiere chiuse in ambiti territoriali ristretti, con il ricorso alle biomasse legnose che permettono anche un recupero del territorio e di aree marginali. Per il resto, abbiamo un patrimonio agricolo di qualità e non è certo pensabile sostituirlo con con le colture energetiche. La cogenza del protocollo di Kyoto è un fatto certo, anzi Kyoto è quasi uno scherzo rispetto alle necessità di riduzione delle emissioni. Il prossimo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on climate change: l’organismo scientifico della convenzione Onu sui cambiamenti climatici), nel 2007, secondo le anticipazioni sarà ancora più allarmante. E’ certo che occorrerebbe un taglio alle emissioni (rispetto al 1990) del 60 per cento entro il 2050 e del’85 per cento entro il 2100. Dunque non possiamo distrarci con presunte soluzioni che tali non sono.  Si può forse recuperare il settore bieticolo in crisi, ma soprattutto la biomassa legnosa, e la microgenerazione che vi è collegata mostra buone realizzazioni già in Trentino Alto Adige. Ma non bisogna dare l’impressione che le colture energetiche sia un modo per far soldi. Altrimenti verranno costruite centrali per la lavorazione della biomassa da 40 megawatt e il risultato sarà che si importerà la materia prima. C’è un punto di equilibrio da cercare, anche rispetto alle biomasse energetiche, fra la necessità di mantenere una fonte di entrata pubblica con le accise sui biocarburanti oe quella di favorire, riducendo le accise, i biocarburanti per raggiungere gli obiettivi di Kyoto.



Vanna Forconi (Apat)

In Italia avranno grande rilievo soprattutto le colture forestali. Per il resto, va ricordato che l’azienda media italiana ha una dimensione di 6 ettari, mentre le colture energetiche hanno bisogno di ampie superfici, dunque occorrerà pensare a distretti energetici di migliaia di ettari. Inoltre, ci sono le preoccupazioni ambientali, espresse anche dal responsabile ambiente alla Commissione europea, che le considera parte integrante di un ragionamento in materia. I rischi sono una maggiore pressione sul settore agricolo, l’eccessivo consumo di acqua in sao di irrigazione, l’inquinamento idrico collegato, la perdita di biodiversità, l’aumento del rischio di incendi, l’omogeneizzazione del paesaggio costruito in secoli. L’Agenzia europea per l’ambiente invita ogni paese a quantificare la biomassa energetica che può produrre senza danni.



Paolo Ranalli (Centro sperimentale per le colture industriali)

Le biomasse energetiche si possono definirte in vari modi. Una definizione è questa: “Materia biologica da cui derivano combustibili solidi – legno e altro – usati per l’energia elettrica e termica a fini domestici e industriali; materia biologica da cui derivano combustibili liquidi – biodiesel, olio combustibile, etanolo – per riscaldamento e autotrazione;  materia biologica da cui derivano combustibili gassosi – biogas  – per fini industriali e domestici”. Le “colture dedicate2 a questi fini possono essere: erbacee annuali o poliennali; arborre; prpodotti residui di imprese agricole. In Italia la biomassa energetica pone difficiltà perché le rese sono limitate rispetto a quelle che teoricamente si possono ottenere dalla fotosintesi. La produzione di sostanze secca che si ottiene per ettaro non supera in genere 15-20 tonnellate per ettaro. Se ne può ipotizzare un raddoppio o una triplicazione con agrotecniche e miglioramenti varietali. La parola chiave è “filiera”. Fra le colture della filiera ligneo-cellulosica, quanto alle erbacee annuali si annoverano fra le altre il sorgo (che dà buone performance), e quanto alle poliennali il cardo selvatico; ci sono poi le poliennali forestali a corta rotazione. Fra le colture per il biodiesel si annovera il girasole, sperimentato nell’Italia centrale (Perugia, Osimo, Arezzo). Occorre ovviamente concimare le colture (nota della redattrice: a meno che si tratti di coltura biologica di biocarburanti, i concimi sono di sintesi, derivati del petrolio e dunque provocano emissioni di gas serra); si è notato che la concimazione ottimale è di 50-60 quintali per ettaro.



Lorenzo Ciccarese (Apat)

Per ora il contributo delle bioenergie, molto diversificato a seconda dei continenti, è pari al 15 per cento della produzione globale di energia. Per il protocollo di Kyoto, bruciare biomassa a fini energetici produce zero CO2 perché emette CO2 “fresca”, non fossile e non contribuisce all’accumulo. Secondo i calcoli dell’Enea, il contributo della biomassa alla produzione di energia in Italia è di 4,9 milioni di tonnellate equivalente petrolio (tep), ovvero il 2,5 per cento circa del fabbisogno nazionale vicino a 200 milioni di Tep (nota della redattrice: è stato calcolato dal Contratto mondiale per l’energia e il clima che con una politica di risparmio e riqualificazione i 200 milioni si potrebbero abbattere ad almeno la metà).  La biomassa legnosa raggranella 3,3 milioni di Tep (molto anche da biomassa residua). E’ un rischio aumentare i prelievi dalle foreste esistenti, perché esse sono carbon sinks, pozzi di carbonio. Invece le nuove piantagioni a scopo energetico, piantagioni a ciclo breve e medio, producono energia in sostituzione di combustibili fossili. Ma quanto terreno c’è in Italia a disposizione per questa destinazione? Negli ultimi 15 anni la superficie agricola utilizzata (Sau) ha perso 1,7 milioni di ettari; ulteriori aree saranno disponibili in seguito alla riduzione delle produzioni agricole provocata dalla nuova Pac. Bisogna però calibrare questa potenziale disponibilità di terreni “in disuso” con gli eventuali effetti negativi delle colture energetiche. Occorre definire linee guida ambientali, l’Unione europea chiede ai paesi di definire anche un piano europeo per le biomasse.





Ciro Pignatelli (Enea)

Si parla tanto di filiere bioenergetiche ma sono, in Italia, lontane. Le biomasse residuali, il cui uso è preponderante, non sono facilmente utilizzabili. Così, finisce che gran parte della crescita della bioenergia in Italia è guidata dall’importazione. E’ allora difficile parlare di sostenibilità visto l’onere ambientale dei trasporti.



Mughini
(Cra, Unità di ricerca forestale)

La biomassa energetica rappresentata dalla legna per uso combustibile comprende: legna da ardere, cippato (legni di piccola dimensione), pellet (segatura pressata). C’è almeno per la legna da ardere un aumento della produzione sostenuto da un aumento della richiesta e viceversa. La maggior parte della legna da ardere usata in Italia viene da boschi cedui naturali. C’è qui un aspetto positivo: le biomasse cellulosiche usate in alternativa a combustibili produttori di Co2, gas serra; ma al tempo stesso tagliare il bosco ceduo significa impedirgli di trasformarsi in fustaglia,  cioè copertura arborea continua, che è un sink, un pozzo di carbonio,  e inoltre combatte l’erosione dei suoli (importante perché i nostri boschi naturali sono quasi solo in colloina e montagna dove “tenere” il suolo è essenziale).

Invece in un bosco naturale governato a ceduo, subito dopo il taglio (ogni 10-15-20 anni) la copertura arborea è discontinua, il suolo è scoperto; e il sequestro di carbonio della parte epigea è discontinuo. Allora, la sfida è: come ottenere biomassa e al tempo stesso consentire al ceduo di diventare preziosa fustaglia? Una soluzione è la “short rotation forestry” (forestazione a corta rotazione) o “ceduo a corta rotazione”, o “arboricoltura da legno a breve o brevissimo ciclo”. Si considera tale la “coltivazione con metodi agronomici per la produzione di legname su terreni agricoli eccedentari allo scopo di massimizzare la produzione di legno in modo sostenibile”. Dunque è agricoltura, non forestazione. Non si tratta di boschi. Quali benefici? Con una piantagione del pur famigerato eucalipto in una zona tropicale si ottengono 58 metri cubi di legno per ettaro all’anno; per avere la stessa quantità occorrerebbe radere 58 ettari di foreste tropicali naturali; e comunque anche una foresta tropicale gestita produce solo 6 metri cubi di legno per ettarfo; sono inoltre pochissime le foreste tropicali gestite. E’ più sensato ridurre il prelievo sulle foreste naturali e preferire legno ricavato da piantagioni di eucalipto e pino. Ma anche ibridi (non gm) di pioppo, salice, robinia , latifoglie a rapida crescita rispondono bene alla ceduazione (taglio), all’irrigazione e alla concimazione e con incroci interspefici si può arrivare al miglioramento varietale. Il salice raggiunge una densità di 10.000 piante all’ettaro; al primo taglio, dopo due anni, si ottengono per ettaro 11-13 tonnellate di sostanza secca. L’eucalipto permette una densità di 5.500 piante a ettaro; al primo taglio, dopo due anni, si pu.ò arrivare fino  23 tonnellate di sostanza secca. Dopo il primo taglio il potenziale produttivo aumenta perché le piante hanno l’apparato radicale già formato.

C’è però da considerare il problema del trasporto della legna, che è molto pesante. E poi la presenza di acqua. Sarebbe assurdo irrigare simili colture: il costo sarebbe troppo elevato e inoltre entrerebbe in conflitto con le colture alimentari. Allora diventa essenziale sapere su quali terreni si coltivano gli alberi a scopo energetico. L’eucalipto e il pioppo sono in grado di crescere su terreni inquinati, e di assorbire metalli pesanrti metabolizzandoli. Trattandosi di colture non alimentari, potrebbero anche essere irrigati con acque reflue domestiche e indusgtriali pretrattate da impianti di depurazione e da liquami zootecnici, ottenendo così un certo smaltimento di sostanze inquinanti. Si potrebbero disinquinare siti inquinati per fitodegradazione e fitostabilizzazione. In Egitto ci sono esperienze interessanti con ottimi risultati: eeflui domestici decantati, osigenati e filtrati che poi, carichi di nutrienti, con il sistema goccia a goccia fertirrigano piantagioni di eucaliptus nel deserto. Dunque, la arboricoltura da legno a turni brevi con latifoglie su terreni residui può pridurre biomassa in modo sostenibile. E permettere di lasciare in piedi i boschi cedui affinché si trasformino in fustaia.

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Costi, Forconi (Apat)

La Convenzione di Rio sulla biodiversità, del 1992, pone il problema delle specie invasive, considerate il secondo pericolo per la biodiversità secondo solo alla distruzione degli habitat. Occorre valutare il rischio di utilizzare a scopo di produzione energetica delle specie vegetali aliene invasive, i cui semi sono capaci di resistere nel suolo fino a 50 anni e di creare turbative nell’ecosistema. In Italia si sono contate oltre 200 specie aliene invasive (non tutte le aliene lo sono; si contano 800 specie aliene naturalizzate). Occorre valutare il rischio che una specie coltivata si disperda al di fuori del sito dove è  stata piantata.  Fra le più invasive l’eliotropo e l’amarantus, il sorgo, il panicum miliaceum. Nel caso delle colture a scopo energeticdo il rischio è maggiore perché esse devono essere effettuate su grandi estensioni e in modo intensivo.



Anna Benedetti


Fra le 15 emergenze planetarie si annovera la perdita di suolo per uso agricolo (un altro e parallelo problema è la competizione per l’uso dei suoli; es. agricolo, o industriale, o edilizio). Moltissime sono le aree degradate per fattori antropici. Il 70 per cento dei suoli è a rischio erosione, e una volta degradati ci vogliono decenni per ripristinarli. E’ importante tenere in considerazione il concetto chiave della qualità del suolo, la sua capacità di interagire con gli ecosistemi per la promozione della salute vegetale e animale. Si sta lavorando dunque a piante che possano recuperare suoli inquinati in modo pesante. Per ripristinarne la qualità. Ad esempio specie che possono “prosperare” sull’arsenico estraendolo dal suolo. Il biorecupero è costoso, ma è un valore aggiunto. E’ importante ripristinare la qualità del suolo anche per l’abbattimento della CO2: infatti una gestione equilibrata delle pratiche agricole fa sì che il suolo fissi moltissimo carbonio.   Così l’agricoltura può dare un contributo alla riduzione delle emissioni. Ma in sé l’agricoltura, lavorando il suolo, con l’ossidazione produce CO2. ). L’agricoltura comunque inquina, occorre valutare l’inquinamento “ottimale” cioè minimo.

In sostanza, perché le colture energetiche abbiano un valore aggiunto, occorre insistere sul fatto che siano: a) su terre eccedentarie alle produzioni agricole; b) marginali, c) inquinate; d) palustri (con abbandonza di acqua. Nel caso delle colture a scopo energetico, se usiamo zone dove non si fa agricoltura, e se, visto che non sono colture destinate a cibo, si utilizzano per rimettere in sesto un territorio inquinato, riforestarlo ecc.



Filippi (Centro ricerche Ispra, Ufficio europeo del suolo)

Parlando di suolo, non bisogna fare di ogni suolo un fascio,  e bisogna considerare invece l’ambiente e il contesto socioeconomico. Ogni regione italiana registra centinaia di tipi di suolo diversi. “Produrre cereali e paglia per la biomassa energetica”: possiamo e dobbiamo confrontare questa idea di uso del suolo, a titolo di esempio, con le informazioni su quel tipo di terreno, per vedere se ciò ha senso. Ad esempio in terre palustri in genere bonificate per scolo meccanico (pompe a energia fossile) questo si può ridurre sequestrando le acque, eutrofiche, in piante usate per la produzione di biomassa energetica.

Importare è partire dal livello lcoale, dalle basi di informazioni sui suoli disponobili a livello delle regioni.



Pedrielli (Fisico, Univ. Ferrara)

La provincia di Ferrara è da tempo interessata al settore agroindustriale, zuccheri, progetto erba medica, bioetanolo, biodiesel. Colture apposta destinate a produzione di energia oppure usate in parte a fini tradizionali (alimentari) e in pare energetici recuperando gli scarti. Non si tratta di petrolificare l’Italia con girasoli e mais ma di salvaguardare il valore alimentare delle colture per il consumo umano e animale. Bruciare come combustibile delle proteine è una bestialità. Occorre dunque un approccio misto alimentare-carburante da biomasse. Evitandole monocolture, mantenendo la biodiversità, coinvolgendo la componente agricola nella produzione. Ed ‘ ovviamente importante il bilancio energetico: quanta energia entra nel processo colturale e quanta ne esce. Il professor Pimentel sosteneva che alla fin fine, tutto considerato, occorrano 1,7 litri di petrolio per ottenere (con incentivi vari) un litro di etanolo. Non è così: ora siamo al 55 per cento ovvero con mezzo litro o poco più di petrolio nel processo di produzione si ottiene un litro di etanolo. (Nota della redattrice: si veda però la replica di Campiglia, più oltre). …ci restava o di annegare nell’alcol o di distillarlo.



Enrico Palchetti
(Crear- Centro ricerche sulle energie alternative e rinnovabili)

Vediamo le criticità legate alle colture energetiche. Queste ecologicamente parlando sono più adatte a terreni marginali che però sono frammentati e difficilmente accessibili; insomma, i marginali non sono economicamente interessanti. Ci vogliono terreni fertili e ad alte rese; ma quelli sono già usati per altro (ad esempio a mais per zootecnia, di maggior valore economico, o addirittura da colture di pregio); risulta così che le superfici che produrrebbero di più e più vocate sono già occupate. Un altro problema viene dalle filiere delle biomasse energetiche, che possono essere più o meno pesanti: ci sono quelle lunghe, con grossi impianti (ad esempio per la produzione di biodiesel con trasnesterizzazione); poi ci sono quelle corte, con impianti anche acquistabili da singoli consorzi (ad esempio per produrre olio vetetale puro per uso diretto come carburante, o cippato per il riscaldamento domestico); la Germania ha molti centri di spremitura consortile per oleaginose. Parlando di sostenibilità delle colture energetiche, bisogna considerare la quantità di input chimichi e tecnici, e ad esempio la quantitò di biomassa prelevata e dunque allontanata dal suolo, a scapito della fertilità. La fertilizzazione e l’uso dell’acqua possono far entrare queste colture in collisione con quelle agroalimentari.

E’ problematica la possibile produzione in regime biologico di biocarburanti. A livello aziendale, ciò comporterebbe una rimozione della biodiversità  che nel biologico è protetta da rotazioni e siepi (biodiversità pianificata che lavora in associazione con quella naturale). Una coltura energetica ha necessità di più spazi  ed è meno adatta a rotazioni. Per non dire del rischio di inserire colture aliene.

Diverso è il caso della short rotation forestry, ben eseguita in Danimarca con l0olmo a destinazione cippato, con aumento della sostanza organica nel suolo, contenimento delle emissioni di CO2; insomma il 5 per cento della superficie aziendale destinato  a questa short rotation aiuta la biodiversità in azienda.

Un aspetto importante nellavalutazione della sostenibilità è l’impatto del trasporto. Esso, nel caso della biomassa legnosa, è sostenbiile solo se l’impianto è nel raggio di 50 chilometri dalla coltivazione (ad esempio per impianti di cogenerazione). I biocarburanti sono meglio movimentabili e quindi i comprensori energetici possono essere più vasti; l’estremizzazione della filiera corta è però l’uso diretto di olio come combustibile.

E’ partito il primo ottobre 2006 un progetto europeo di studio della valutazione (su tre anni) della sostenibilità delle colture, con prove sperimentali in aziende bio e convenzionali. Il progetto sarà presentato ufficialmente a Firenzxe nell’aula magna del rettorato il 16 novembre prossimo.



Ennio Campiglia (Univ. Della Tuscia, Viterbo)

Insomma sono sostenbiili le colture energetiche? Chiariamo cos’è l’ecosostenibilità. La definizione migliore è che l’ambiente deve poter ripristinare l’equilibrio dopo una data attività. Ad esempio deve ridare sostanza organica al terreno  nella coltivazione, e non c’è sostenibilità se alla fine del processo c’è meno sostanza roganica. Quel che è da verificare nelle colture energetiche è la sostenkibilità totale. L’industria, la fase industriale deve far parte della valutazione. Perché qui, a questo convegno, non c’è l’industria? Occorre applicare sul serio il consolidato Lca-life-cycle assessment (valutazione del ciclo di vita, “dalla culla alla tomba”). L’Lca oltretutto è già regolamentato da standard internazionali: 14040 e 14044. Occorre insomma un approccio olistico; niente di nuovo, solo che non avviene. Il bilancio delle colture energetiche va fatto in riferimento a due punti centrali che sono la produzione di energia (lo scopo evidente delle colture energetiche) e la riduzione delle emissioni di CO2, obbligatoriamente collegate al consumo di combustibili fossili. Ma per poter valutare la sostenibilità ecologica, sociale, economica va considerato tutto il ciclo: dalla coltivazione (e allora semi, fertilizzazione, pesticidi, macchinari, biodiversità, valore del paesaggio, emissioni di CO2 legate alla coltivazione e rifiuti, a ogni stadio) alla trasformazione (comprensiva di trasporto e  stoccaggio), fino al consumo finale. Il bilancio energetico di una coltura energetica deve  evidentemente produrre più energia di quanta sia servita tutto compreso nel processo, e non è scontato. E il bilancio input su output per la Co2 deve rispondere alle stesso criterio. Durante una sua recente visita in Italia, il professor Pimentel, autorità riconosciuta in materia, ha sottolinreatoche negli usa puntanpo molto sul bioetanolo (che l’Usda – Dipartimento per l’agricoltura – sovvenziona), ma se si valuta l’intero ciclo, è più l’energia che si immette di quella che si ottiene. E questo, con le tecniche attuali.

A volte si leggono notizie come: “nei prossimi anni nella regione Lazio si coltiveranno 100.000 ettari di girasole, a scopo energetico.”. bene, chi li ha pianificati? Su quali basi? La sostenibilità ecologica delle biomasse energetiche dovrebbe essere valutata prima di fare scelte strategiche! E questa sostenibilità non va valutata confrontando con una coltura alternativa a scopo alimentare: il primario scopo dell’agricoltura è dare cibo e per questo vanno pagati dei prezzi.  Invece le colture energetiche hanno ragion d’essere solo se sono energeticamente sostenibili.



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Coldiretti

Francesco Ciancaleoni


Gli attuali ritmi di consumo energetico evidenziano preoccupanti scenari per il futuro circa la possibilità che le risorse naturali siano sufficienti a sostenere ed affrontare la crescita demografica ed economica. Le preoccupazioni dei cittadini partono dall’osservazione quotidiana degli effetti dell’inquinamento atmosferico, dal caro petrolio e dei cambiamenti climatici, sempre più all’attenzione dell’opinione pubblica e dei media.

Se consideriamo primaria la soluzione dei problemi collegati all’inquinamento atmosferico e alla dipendenza energetica dalle fonti fossili, le azioni più urgenti sono quelle in direzione della riduzione delle emissioni inquinanti attraverso tutte le forme possibili di risparmio e di efficienza energetica, oltre alla promozione delle cosiddette fonti rinnovabili, la cui quota percentuale di incidenza nella copertura del fabbisogno energetico nazionale dovrebbe essere incentivata molto di più di quanto si stia facendo.

Anche la ricerca in questo campo dovrebbe essere intensificata, ma, soprattutto, appare urgente la creazione di condizioni di mercato stabili, soprattutto dal punto di vista normativo, in grado di fornire le necessarie garanzie agli investitori in questo campo.

Per quanto riguarda il ruolo dell’agricoltura, se l’area fondamentale di occupazione e di reddito per l’imprenditore agricolo resta, naturalmente, la produzione di alimenti e la valorizzazione delle qualità attraverso il riconoscimento dei bisogni dei consumatori, oltre al consolidamento della fornitura di servizi agrituristici ed ambientali per i quali si va strutturando, nell’ambito dei sistemi locali, una domanda dinamica ed articolata; il disegno della multifunzionalità individua un’altra area di investimento nella produzione e nella collocazione sul mercato di bioenergie. Anche il percorso di riforma della politica agricola comune, attraverso la liberalizzazione dei mercati ed il rafforzamento di interventi di sviluppo, equilibrati e sostenibili, sul territorio, favorisce, del resto, una maggiore concentrazione di risorse sull’obiettivo di valorizzazione delle colture energetiche. Dal punto di vista normativo, la possibilità, da parte delle imprese agricole, di produrre e vendere energia, è legata alla recente modifica dell’art. 2135 del Codice Civile, che estende la qualifica agricola per connessione anche alle attività di produzione e vendita di energia termica ed elettrica, anche di origine fotovoltaica. Le potenzialità dell’agricoltura in questo campo risiedono nella diffusione di colture dedicate e nella raccolta dei residui delle attività agroforestali e di quelle zootecniche e del loro sfruttamento attraverso impianti e sistemi tecnologici di piccole e medie dimensioni, idonei per un impiego diffuso e distribuito con impatti ambientali ridotti. In base alle stime potenziali, si può ipotizzare un contributo del settore agricolo del 6,4% al fabbisogno energetico nazionale entro il 2010 che, in aggiunta all’aliquota già prodotta (altro 6,5%) porterebbe ad un contributo complessivo delle fonti rinnovabili del 13%. Per quanto riguarda la riduzione complessiva delle emissioni, questa potrebbe essere stimata in 12 mt CO2 eq./anno (rispetto alle 77,9 che mancano per il raggiungimento degli obiettivi di kyoto).La difficoltà di fare delle stime in questo campo risiede, comunque, nella complessità delle filiere e dei numerosi passi che occorre fare per attivarle. Eppure, non bisognerebbe tralasciare i numerosi vantaggi per la società legati alla diffusione delle filiere agroenergetiche, connessi al ruolo di conservazione e valorizzazione del territorio da parte del settore agricolo:

· contributo alla riduzione delle emissioni di CO2

· tutela dell’ambiente e del paesaggio (tra l’altro il modello di pianificazione energetica da preferire è caratterizzato dalla costruzione di piccoli e medi impianti diffusi sul territorio rispetto al ricorso alle megacentrali)

· conservazione e valorizzazione delle aree marginali;

· controllo dei fenomeni di degrado ambientale e dissesto idrogeologico;

· creazione di attività utili attraverso le opere di manutenzione;

· risparmio costi depurazione e smaltimento residui;

· Il risparmio energetico

· Lotta al caro petrolio



Alla luce di quanto detto, appare chiara la necessità di un nuovo approccio culturale alla pianificazione energetica, ed oltre ai necessari approfondimenti da parte della ricerca sugli aspetti tecnologici, il problema della diffusione delle rinnovabili rimane collegato alla necessità di disporre di un mercato stabile, situazione che non corrisponde all’attualità a causa di carenze sul piano delle certezze normative.

In generale, comunque, la promozione delle fonti energetiche rinnovabili rappresenta un elemento strategico della politica energetica europea e nazionale, e lo stretto legame tra risorse energetiche rinnovabili e territorio chiamano in causa il settore agricolo come principale protagonista di una nuova pianificazione energetica nazionale che incentivi lo sviluppo di piccoli impianti di cogenerazione che soddisfino il fabbisogno energetico territoriale, prediligendo il modello della generazione diffusa rispetto a quello basato sui grandi impianti

In questa ottica Coldiretti, da sempre profondamente impegnata nelle iniziative che vanno nella direzione di garantire il pieno raggiungimento degli obiettivi fissati nel Protocollo di Kyoto e credendo fermamente nelle possibilità di sviluppo di un settore indispensabile per la tutela dell’ambiente e della salute, per il contenimento delle emissioni inquinanti e per la prevenzione dei rischi conseguenti ai cambiamenti climatici, ha presentato una proposta di legge popolare finalizzata a garantire la promozione e l’impiego di biocarburanti di origine agricola, con la consapevolezza che uno sviluppo rurale sostenibile rappresenti un determinante ed irrinunciabile strumento per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Un primo risultato di questa azione di sensibilizzazione è stato la pubblicazione della legge n. 81/2006, a cui però dovranno seguire ulteriori interventi normativi. Lo scenario delineato dalla legge finanziaria 2006 e dalla legge 11 marzo 2006, n. 81, infatti, pur presentando una serie di nuove opportunità per lo sviluppo delle attività agricole nel settore delle energie rinnovabili, corre, tuttavia, il rischio di essere compromesso da una serie di ostacoli di carattere tecnico, procedurale ed interpretativo.



CIA (confederazione Italiana agricoltori)



Le proposte principali della Cia:

§ Definire in tempi ragionevoli un Piano agrienergetico nazionale (P.A.N.), collegato al Piano energetico nazionale, nell’ambito del quale disciplinare ed organizzare strumenti di sviluppo delle filiere (Contratti di programma agrienergetici, Distretti Agrienergetici), criteri di qualificazione delle colture energetiche, della loro tracciabilità per valorizzare le produzioni nazionali e della sostenibilità ambientale. Oltre a criteri e norme il piano dovrebbe prevedere specifiche risorse per lo sviluppo del settore. A tal fine potrebbero essere destinate una parte delle risorse previste per l’attuazione degli obiettivi del protocollo di Kyoto. Il Piano agrienergetico potrebbe avere articolazioni regionali e potrebbe rappresentare il recepimento del piano d’azione per le Biomasse recentemente presentato dalla Commissione Europea.

§ Istituire un certificato verde agricolo che riconosca un plus per le aziende agricole e forestali che producono energia elettrica e termica utilizzando prevalentemente i propri prodotti aziendali.

§ Promuovere le intese di filiera nel campo dei biocarburanti che prevedono la valorizzazione delle materie prime nazionali e una oggettiva convenienza per le imprese agricole circa il prezzo della materia prima. Le politiche di defiscalizzazione devono essere riequilibrate a favore di misure che rendano obbligatoria l’immissione sul mercato di percentuali crescenti di biocarburanti per il trasporto , attraverso contratti di coltivazione o intese di filiera.



§ Snellire le norme attuative ed autorizzative per le imprese agrienergetiche nella fase di realizzazione degli impianti.

§ Attivare una aliquota IVA agevolata sull’acquisto degli impianti e attrezzature per la produzione di energia termica ed elettrica da parte delle imprese agrienergetiche.

§ Concentrare attenzione e pressione politica a livello comunitario per ottenere l’innalzamento dell’aiuto ettaro per le colture a fini energetici, in modo da renderlo economicamente appetibile e sollevare l’opportunità di una nuova OCM agroenergetica.





VAS (Verdi Ambiente e Società)

Simona Capogna, Alessandro Dessì



La crisi energetica del nostro secolo e le conseguenze sociali, ambientali e politiche legate all’utilizzo dei combustibili fossili, ha consentito di spostare l’attenzione sulle biomasse come fonti rinnovabili di energia (bioenergia) per il trasporto, l’elettricità e il riscaldamento. La crescente richiesta di biocombustibili e l’impegno politico dei paesi industrializzati a finanziarne la produzione hanno alimentato le speranze degli ambientalisti, che sognano da tempo di sostituire il petrolio con fonti alternative, e degli agricoltori, che vedono un nuovo sbocco commerciale per le commodities meno valorizzate sul mercato mondiale.

L’impatto ambientale di questa rivoluzione energetica non è, però, scontato come potrebbe sembrare: tutto dipenderà dal tipo di approccio che si sceglierà di adottare nella produzione e nell’uso delle sostanze organiche. Se non saranno stabilite regole precise che impediscono ad esempio l’utilizzo di fertilizzanti (derivati da fonti fossili) si contribuirà a ridurre la biodiversità e il traguardo stabilito con il Protocollo di Kyoto diventerà ancora più lontano perché non diminuiranno le emissioni di gas serra. Alcune multinazionali del settore agrochimico e biotecnologico hanno già annusato la possibilità di sfruttare l’occasione introducendo sul mercato varietà di Ogm più efficienti rispetto alla produzione di energia. L’annuncio della Syngenta di voler chiedere un’autorizzazione per uso animale e umano di una sua varietà di mais transgenico “biocombustibile” (a cui è stata conferita la capacità di produrre l’enzima amilasi), fa immaginare un impatto ambientale e sanitario delle agrobiotecnologie destinate al settore energetico addirittura superiore rispetto a quello provocato dagli Ogm di prima e seconda generazione.

In Italia, oltre ai pericoli legati ad una produzione insostenibile delle biomasse (per uso di fertilizzanti e di Ogm) bisognerà considerare quelli derivati da una gestione poco attenta alle esigenze del territorio. L’occasione offerta dai finanziamenti per le colture energetiche, insieme alla riduzione dei fondi della PAC, potrebbe condizionare le scelte degli agricoltori portandoli a convertire completamente anche territori poco adatti al cambiamento, sottraendo spazio ad una produzione che fornisce cibo di qualità e che tutela il territorio. La mancanza di una pianificazione condivisa e di regole definite, inoltre, potrebbe consentire una speculazione finanziaria e industriale attraverso megaimpianti di produzione energetica che vanificherebbero gli sforzi per ottenere un bilancio positivo di CO2. Infatti, l’offerta locale di biomassa sarebbe sostituita da importazioni dall’estero con conseguente abbandono dei territori convertiti precedentemente alla produzione di biomassa.





D.A.P.T.F.-IUCN (Decline Amphibians Population Task Force)

Vincenzo Ferri



L’elevata necessità di acqua per uso irriguo in un’evoluzione climatica

sempre più critica per quanto riguarda le precipitazioni, fa ritenere le colture a scopo energetico di sicuro impatto negativo sulle popolazioni di Anfibi italiane. La richiesta d’acqua necessaria per sostenere specie idrovore come mais, pioppi e canne, porterebbe infatti alla scomparsa delle piccole e medie zone umide, habitat riproduttivo fondamentale per questi minacciati vertebrati e per tutta la piccola fauna dulciacquicola.

Si presentano i risultati di dieci anni di censimento delle popolazioni di

Anfibi della zona golenale del Po e dell’Adda in territorio cremonese dove le colture intensive ed estensive di mais, di soia e di pomodoro hanno stravolto irreversibilmente le comunità erpetologiche perifluviali.



CNR-Istituto per lo Studio degli Ecosistemi

A. Ena, C.Pintucci, A. Lammirato.

Sezione di Firenze



L’idrogeno è uno dei costituenti essenziali della materia vivente. Inoltre rappresenta il combustibile dal quale è possibile ottenere la più alta quantità di energia per unità di peso e il suo uso non causa inquinamento atmosferico. Per questi motivi, costituisce un ideale vettore di energia alternativa al petrolio o al gas naturale. I poli-idrossi-alcanoati (PHA) sono una classe di poliesteri prodotti da molte specie di microrganismi, con proprietà simili a quelle dei materiali plastici sintetici dai quali si differenziano per la biodegradabilità. La loro produzione biologica può quindi rappresentare una valida alternativa alla sintesi chimica. Dallo sfruttamento biotecnologico dei batteri rossi non sulfurei si possono quindi ottenere prodotti di elevato interesse applicativo. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di ottenere un recupero energetico da un materiale di scarto: depurando una delle matrici a più alto tasso inquinante del settore agroalimentare e inoculando il refluo così ottenuto con R. palustris sono stati prodotti composti ad alto valore aggiunto senza alcuna inibizione della crescita. A tal fine queste acque sono state private dell’80% della componente organica e del 99.5% di quella polifenolica. I reflui così trattati, tal quali e diluiti, si sono dimostrati ottimi substrati per l’accumulo in sequenza, con buone rese, di H2 e PHA. I risultati ottenuti mostrano, per quanto riguarda l’idrogeno, tassi di produzione di circa 2,5 L di biogas g-1di batterioclorofilla h-1, significativamente superiori a quelli ottenuti utilizzando mezzi sintetici organici.



Nota della redattrice: è particolarmente evidente la fuel-food competition (competizione fra combustibile e cibo) che si affianca alla già consolidata food-feed competition (competizione fra cibo e mangime per animali allevati), e potrebbe sfociare in fuel-feed competition (competizione fra combustibili e mangimi). Per esempio il girasole, una  proteaginosa (che contiene proteine e grassi vegetali) si presta a tre diversi usi: consumo umano dei semi decorticati (molto nutrienti; in Italia sono in gran parte importati dagli Usa) e dell’olio spremuto a freddo (ricco di vitamine); oppure consumo animale (panelli oleosi per allevamenti) e olio per consumo umano ma ricavato a caldo (assai meno vitaminico); biodiesel. Non v’è dubbio che la destinazione diretta per il consumo umano sia la più valida dal punto di vista economico (basta informarsi sui prezzi dei semi di girasole),  ecologico e della sicurezza alimentare. Lo steso vale, mutatis mutandis, per la soia e il sorgo, ad esempio. Come a dire: ne vedremo delle belle.





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