Esteri / Approfondimento
La testimonianza dei libici in fuga, stremati dalle guerre tra bande
Un medico trentaduenne costretto a lasciare la Libia dilaniata dalle lotte per il potere. “Dublinato”, deve restare in Italia: la terra che ha toccato per prima. Oggi è in accoglienza vicino a Napoli, con la speranza di un ritorno a casa
Ibrahim ha 32 anni ed è nato a Daraj, in Libia, 500 chilometri a sud ovest di Tripoli. “Ho vissuto una vita tranquilla”, ricorda, con la sua famiglia “normale” e i suoi 13 fratelli. Li sente quotidianamente ancora oggi, anche se si è ritrovato a vivere in Italia. È in un centro di accoglienza del Sud, dopo aver attraversato il mare, essere sbarcato a Palermo e aver provato a stabilirsi in Germania. Le autorità di Berlino l’hanno fatto rientrare con un volo notturno. In mano, un verbale stampigliato che ne segna la nuova biografia: quella di “Dublinato”. Ma la sua storia ha più di nove lettere.
A 19 anni, terminata la “high school”, inizia a frequentare l’università di Medicina a Zawia, a 40 chilometri dalla capitale libica. È un chirurgo. Lavora in ospedale, in farmacia e in una clinica, spostandosi da Zuwarah a Zintan e poi ad Alshgiga. Più avanti, però, il suo Paese esplode e la sua vita smette di essere “tranquilla”. Si è scelto un mestiere pericoloso. Le milizie armate in conflitto che imperversano in Libia assaltano i centri medici che garantiscono cure alle fazioni nemiche, e viceversa. Quindi dev’essere lui a salvarsi. “Mi hanno sparato alla macchina, minacciato dentro e fuori il luogo di lavoro”, ricorda Ibrahim. Come ogni cittadino di uno Stato divenuto “instabile”, lui e chi gli sta vicino subiscono ogni sorta di abusi: sequestri, estorsioni, omicidi. In un solo anno, nel 2017, i nuovi “sfollati interni” (gli internal displaced) della Libia espulsi da casa saranno 29mila, per uno stock complessivo di 197mila. La ragione principale è il conflitto permanente tra bande. Perché “tutti lottano per il potere”. Ed è così che Ibrahim decide di andarsene, senz’aver chiaro in testa dove. Non è abituato alla prigione, che sia a cielo aperto o meno. Gli è capitato solo una volta di finire “dentro”, per un giorno, a Daraj, accusato di “non aver rispettato l’esercito”.
“Ero in contatto con diversi trafficanti, molti dei quali utilizzavano nomi falsi”, ricostruisce. Il biglietto di sola andata per l’Europa via Mediterraneo gli viene a costare 800 euro. Parte all’inizio di ottobre del 2017 e affronta il mare in barca insieme ad altre 25 persone, due famiglie, tre bambini, una donna incinta. “Noi libici eravamo la maggioranza”. Alla fine dello scorso anno gli “ingressi irregolari” di cittadini della Libia attraverso le frontiere dell’Europa -monitorati dall’agenzia Frontex– sono stati 1.400 circa, nel 2009 furono meno di 30. Li salva un’organizzazione tedesca di cui non ricorda il nome. In nave, dà una mano all’équipe di “Save the Children”. Poi giunge in Italia, a Palermo. Gli vengono raccolte le impronte e indicato un nuovo approdo: Verona.
“Sono rimasto due giorni lì, poi ho preso il treno con quattro amici e sono andato in Francia e da lì in Germania”. Su internet ha preso nota di alcune dritte: “Appena entrato, vai in un centro di polizia”. Così fa. Le autorità tedesche gli mettono in mano un foglio e lo rinviano a un centro di accoglienza e poi a un altro ancora. Gli prendono di nuovo le impronte e sottopongono a un check medico. Chiede asilo, come altri 4.700 suoi connazionali hanno fatto nel 2017 in tutta l’Unione europea (nei primi otto mesi del 2018 sono stati 3.040, di cui 210 in Italia, dati dell’European asylum support office). “Quando ho fatto la richiesta -racconta Ibrahim- la persona che mi intervistava ha detto che il mio fotosegnalamento era stato effettuato in Italia. E che in accordo al Regolamento di Dublino avrei dovuto avanzarla lì, perché è la terra che ho toccato per prima”. Nel limbo di una risposta, finisce in una “piccola città” tedesca che all’inizio trova gradevole. Ma è un’illusione.
Poche settimane e inizia a conoscere il razzismo intorno a sé. Lo colpiscono le scritte sui muri: “No asilo”. La sua domanda, nel frattempo, viene rigettata: “Dublin case”. Fa appello e lo perde. Il suo tutore legale gli propone due strade: un nuovo ricorso o il ritorno in Italia. Lui non appella e resta dov’è. Ma in una notte di fine agosto 2018 succede qualcosa. “È arrivata la polizia e mi ha chiesto di mettere insieme i miei vestiti e ciò di cui avevo bisogno”. Campo, commissariato, aeroporto. Alle 11 della stessa mattina si ritrova a Napoli Capodichino.
Il comitato d’accoglienza in divisa lo trattiene per una ventina di minuti e poi gli mette in mano un documento che gli intima di recarsi in questura entro una settimana per “regolarizzare la propria posizione sul territorio nazionale”. Se così non fosse, incapperebbe nell’“inosservanza degli ordini dell’autorità di pubblica sicurezza”. “Il contenuto del presente verbale -recita l’atto di Napoli- è stato esposto all’interessato in lingua italiana, dallo stesso conosciuta e parlata”. Ibrahim conosce a malapena qualche parola. Va in questura ma lo rimbalzano: “Torna domani”. È così che si ritrova in stazione, da solo, con il suo bagaglio, un verbale di polizia e dei numeri di telefono. “Ho provato a contattare qualche persona che potesse aiutarmi” e cioè chi su quella nave tedesca lo aveva già salvato dal mare. Recupera qualcosa, trova un avvocato e fa domanda di protezione: ora è in accoglienza fuori Napoli.
Quando le acque di Tripoli si saranno calmate davvero, allora potrebbe tornare. Ma la realtà lo allontana. Le stime dei new displaced nei primi dieci mesi del 2018 -fornite ad Ae dall’Internal Displacement Monitoring Centre– parlano di oltre 69mila persone sfollate (40mila in più dello scorso anno). Non sono i migranti (quasi 700mila nel Paese), ma libici. 5.300 sfollati a Sabha, 3.700 a Misurata, quasi 24mila a Derna. Solo tra agosto e settembre di quest’anno, in oltre 32mila hanno lasciato la propria casa a Sud di Tripoli a causa degli scontri tra le milizie. “Tanti amici mi hanno scritto che vogliono andarsene”. Ibrahim sta imparando l’italiano: “Buonsera”, saluta.
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