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Libia, Paese inafferrabile – Ae 41

Numero 41, luglio/agosto 2003Lo “strano” Paese è appena oltre il Mediterraneo. Ed è come se esistesse solo per spiazzare ogni osservatore. Non era la Libia uno “Stato canaglia”, condannato dalla lista nera di George Bush? Chi glielo spiega questo ai…

Tratto da Altreconomia 41 — Luglio/Agosto 2003

Numero 41, luglio/agosto 2003

L
o “strano” Paese è appena oltre il Mediterraneo. Ed è come se esistesse solo per spiazzare ogni osservatore. Non era la Libia uno “Stato canaglia”, condannato dalla lista nera di George Bush? Chi glielo spiega questo ai ragazzi della Tripoli-bene tutti gel e cellulare? Chi avverte la Valtur che progetta (con scarso successo, per la verità, e con mille ambiguità) la costruzione di un megavillaggio turistico a ridosso delle rovine di Leptis Magna? Chi glielo dice agli eserciti di uomini di affari (dai manager Eni agli avventurieri padani) che vanno e vengono fra l'Italia e Tripoli? E cosa penseranno i dodicimila turisti italiani (e ogni anno sono sempre di più) che, la scorsa stagione, si sono affollati fra i deserti e il patrimonio archeologico libico?

In realtà la Libia (o meglio la sua cassaforte finanziaria, la Lafico, la Lybian Arab Foreign Investments Company) viaggia da tempo nei labirinti del capitalismo internazionale: dal gennaio 2002, possiede il 2,004 % della Fiat (pagato 145 milioni di euro, Tripoli è il sesto azionista di Corso Marconi). Già che c'era, nello shopping dello scorso anno, la Lafico si comprò anche il 5,31% della Juventus (altri 23 milioni di euro). La quota è poi salita al 7,5% (secondo azionista del club bianconero dopo la famiglia Agnelli). Non solo: nel portafoglio Lafico ci sono il 15% della Finpart (è il mondo della moda: Frette, Cerruti, Moncler), i filati dell'Olcese (partecipazione del 26%), il 5% di Capitalia e l'1,5% della stessa Eni.

Gli affari sono una delle bussole più concrete nell'inutile tentativo di afferrare la Libia. Ecco alcuni piccoli flash-back raccolti nelle diverse tappe di questa inchiesta. Parole scambiate di un diplomatico della Farnesina in attesa di un aereo Alitalia per Tripoli: “È un volo irreale verso un Paese che è una finzione”. Telefonata con funzionario pubblico italiano a Tripoli: “Non creda a quello che le dico. I telefoni qui sono sotto controllo”. Conversazione con un dirigente di una multinazionale italiana sempre nella capitale libica: “La sua domanda non ha senso. Qui non si chiede mai 'perché'. In Libia è così e basta”.

L'inchiesta potrebbe finire qui: nessuno vuole che il suo nome appaia, ogni colloquio è confidenziale. E i miei interlocutori hanno torto e, allo stesso tempo, ragione: come fai a definire, “una finzione” un Paese dal quale l'Italia importa il 38% del petrolio di cui ha bisogno. E dal 2005 un gasdotto (4 miliardi di dollari di commessa all'Eni) porterà il gas naturale libico (8 miliardi di metri cubi all'anno, il 14% del nostro fabbisogno) dal Sahara fino a Gela.

L'Italia è il primo partner commerciale della Libia: un quarto delle importazioni annue libiche (il 25% di cinque miliardi di dollari) proviene da un pulviscolo di aziende italiane. Presidenti del Consiglio (per primo D'Alema, lo scorso ottobre Berlusconi) hanno atteso ore e ore pur di incontrare il beduino Gheddafi, il più longevo (è al potere dal 1969) fra i capi di Stato africani. Capo di Stato? Chissà se i nostri leader sanno dove sono quando varcano la soglia della sua tenda e chi è Muammar Gheddafi, il qaid, la 'guida' della Libia, Paese ancora sulla lista nera americana degli Stati-canaglia.

Il leader libico è il protagonista della “grande finzione”: nel 1979, anni duri della sua “Rivoluzione”, Gheddafi si dimise da ogni carica pubblica. Da allora è un semplice cittadino. Ma niente sembra muoversi in Libia senza il consenso del colonnello. Si dice che perfino l'ora legale o il piacere di fumare o meno il narghilè all'aperto nei bar di Tripoli siano decisi dai voleri di Gheddafi. Più seriamente, l'ultimo bilancio pubblico non è nemmeno approdato al Congresso Generale del Popolo. Era stato respinto dal qaid che si ostina a ripetere che bisogna pensare a una Libia meno petrolio-dipendente. È saggio Gheddafi, ma sganciare il Paese dalla ricchezza dei suoi sottosuoli è più facile a dirsi che a farsi: il 95% degli introiti da esportazione viene dagli immensi giacimenti sepolti sotto sabbia e mare. Da solo il petrolio è un terzo del prodotto interno lordo libico (l'agricoltura è al 10%). Tutto qui viene importato: una mattina, in un'oasi remota, mi hanno offerto una splendida colazione. Ho contato 27 prodotti (marmellate, formaggi, thè, dolcetti, tazzine, cucchiaini) e nessuno era libico. !!pagebreak!!

Prima regola della Libia: non ci sono regole e non bisogna fidarsi delle apparenze. Gheddafi, senza ruoli pubblici, controlla economia ed esercito. Ma questa non era la Jamahiriya, lo “Stato delle masse”?

Anche questo non è del tutto falso: la primavera appena passata è stata anche la stagione annuale dei Congressi del Popolo. Per assistervi non occorre fare molta fatica: il vecchio cinema Politeama, piccolo gioiello decò nel cuore della città vecchia di Tripoli, è, oggi, la sede delle “assemblee” degli abitanti di questo antico quartiere della capitale. Quando ci sono i Congressi, tutti i negozi abbassano le loro serrande verdi e, controvoglia, ogni business si ferma. La platea del Politeama è affollata, pochissime (quasi nessuna) le donne, caos alle stelle. Applausi, grida, slogan, strepiti. Il Congresso andrà avanti per tre pomeriggi. Deve decidere la soluzione di guai locali (case, fogne, pulizia delle strade) e discutere di problemi più generali. Eleggerà rappresentanti per i Congressi a livello di città e poi di Regione. Fino ad arrivare al Congresso Generale. Che si riunisce una o due volte l'anno a Sirte, la città dei ministeri (altro gioco libico: nessuno sa per davvero qual è ufficialmente la capitale dello Stato. Cambia almeno una volta ogni due anni). I Congressi possono discutere di tutto: dal bilancio dello Stato alla legittimità della pena di morte (“Io sono contrario, ma il popolo la vuole”, ha detto una volta Gheddafi), dalla possibilità di consumare alcolici (oggi proibiti in Libia) negli alberghi “per turisti” al licenziamento del primo ministro.

Adesso, parola di Gheddafi, ci si è inventati anche “l'economia privata collettiva”. Cosa sia non lo sa ancora davvero nessuno, solo che il colonnello, poche settimane fa, ha annunciato proprio la fine del “modello pubblico” (“Ha provocato perdite per miliardi di dollari”) e la nascita del “capitalismo del popolo”. “Petrolio, banche e servizi pubblici devono diventare proprietà di tutti -ha spiegato Gheddafi davanti al Congresso del Popolo-. Dovranno essere diretti da società che non saranno dello Stato, ma dei libici”. Il Sole-24 Ore non ha esitato a titolare: “Gheddafi: privatizziamo il petrolio”. Analisi un po' troppo sbrigativa.

La struttura dello Stato libico è costruita (era? Dopo le ultime parole del colonnello niente è più sicuro), come una piramide, sulla base della Terza Teoria Universale, via di mezzo fra socialismo e capitalismo, annunciata al mondo da Gheddafi nel lontano 1973 e codificata nel suo celebre Libro Verde. Per realizzarla, il qaid, deluso da corruzioni e burocrazie, solo tre anni fa, con un ennesimo colpo di reni, abolì 14 ministeri su 19. A livello nazionale rimanevano solo Esteri, Giustizia, Informazione, Sicurezza nazionale, Cultura e turismo e, new entry, il ministero dell'Unità Africana, nuovo orizzonte politico di Gheddafi.

Così, alla fine, in Libia comandano i fedeli. Fedeli a Gheddafi, alla sua famiglia, alla sua tribù. Poi ci sono i fedeli per interesse personale. Infine i fedeli che non hanno alternative. Alla fine il meccanismo è perfetto: coinvolge la maggioranza della popolazione. Ci sono soldi per soddisfare tutti. Chi più, chi meno.

La “democrazia” libica è tribale e l'obiettivo è “arricchirsi”. E che di ricchezza ve ne sia è sotto gli occhi di tutti coloro che sbarcano a Tripoli: grandi auto, gadget elettronici, paraboliche ovunque e boom di cellulari. Non male in un Paese con una disoccupazione, soprattutto giovanile, al 30 per cento. Altra finzione? Sono più di un milione -forse due- gli immigrati della povertà (egiziani, marocchini, palestinesi, neri del Ciad, del Sudan o del Niger, donne filippine, adesso stanno arrivando gli ucraini) che cercano fortuna in Libia. I giovani libici non ne vogliono sapere di lavori faticosi. Il 70% dei libici (in tutto sono poco più di cinque milioni) ha un impiego pubblico. In genere sottopagato: 130-180 dinari, qualcosa come 100-120 euro al mese. Ma c'è il tempo per arrangiarsi in altri mille “lavori”. Nella “finzione” libica nessuno soffre la fame: i generi di prima necessità (farina, zucchero, thè, caffè, pomodori, olio di semi, riso, detersivo, sapone) sono, di fatto, quasi gratuiti e venduti in magazzini di stato. Il Libro Verde non vuole “padroni” nella società libica. Nemmeno “padroni di casa”, gli affitti sono vietati fra cittadini libici. La casa è un diritto. Chi ne ha davvero bisogno, può chiederne la disponibilità al Congresso del Popolo del suo quartiere.

Ovviamente le case si affittano anche a Tripoli. Purché la finzione non venga svelata. Ha ragione quel funzionario che spiegava: “Non chiedere mai 'perché' in questo Paese. In Libia è così e basta”. Regola facile da capire. !!pagebreak!!

Il pazzo di Tripoli che è diventato il vecchio saggio
Metamorfosi straordinaria per Muammar Gheddafi. Nel 1986, il presidente Usa Ronald Reagan tentò di ucciderlo bombardando Tripoli. Morì Hanna, due anni, la figlia adottiva. Persero la vita 37 persone. Ma, lui, il qaid uscì illeso. Per gli Usa, Gheddafi era 'un barbaro, un pazzoide, un cancro'. Il Saddam Hussein degli anni '80. Ma il colonnello aveva più di una vita. E la capacità di sorprendere: la sua 'strana' Libia è sopravvissuta a nove anni di sanzioni internazionali e di embargo aereo. Con lentezza mediterranea, il qaid salda i suoi conti: ha consegnato alla giustizia sovranazionale i due cittadini libici accusati dell'attentato di Lockerbie (un jumbo della Pan Am fatto saltare, nel 1988, nei cieli scozzesi: 270 vittime), ha risarcito le famiglie di chi ha perso la vita in un altro attentato (1989) contro un Dc 10 della compagnia francese Uta. E in dieci anni, 'il pazzo di Tripoli' è diventato il vecchio saggio ( anche se è giovane: ha 61 anni, è al potere da 34) del nuovo millennio. Era lo sponsor del terrore anni '80, si è trasformato in un tassello della stabilità del Mediterraneo. Si è schierato con gli Usa dopo l'11 settembre, ha perfino annacquato la sua radicalità anti-israeliana. Si dichiara a favore della road map mediorientale. Sogna un'irrealizzabile Unione Africana Una sola certezza: Gheddafi, con buona pace degli Usa, continuerà a stupire il mondo.

Affari e estorsioni: semplice, chiarissimo e complicato
Il Libia è una sirena piena di insidie. Alla Sace, assicuratori dei crediti italiani all'estero, non hanno dubbi: categoria di rischio 7 (la peggiore. La Tunisia è nella 3), classe B (forti le restrizioni). Ancora aperto il conto di 877 milioni di euro di crediti (più o meno a ragione) vantati da imprese italiane. Non solo: chi fa affari in Libia dovrà anche contribuire a un Fondo di indennizzo per i danni di guerra provocati dall'Italia in trent'anni di occupazione coloniale. Solo così, nel 1998, fu possibile 'normalizzare' i rapporti fra Italia e Libia.

Il ministro degli esteri Dini firmò, allora, con Tripoli un accordo che creava l'Ali, l'Associazione Libico-Italiana. Ogni società deve versare una percentuale (1-2%, ma alcuni imprenditori rivelano di aver pagato fino al 7%) sull'entità degli affari conclusi. 'È' una semplice estorsione -dice un costruttore edile- utile solo alle tasche di chi ha trovato un finto lavoro negli uffici di questa associazione'.

'Ogni impresa che viene in Libia deve solo trovare uno sponsor', avverte un piccolo imprenditore. Sponsor? 'Sì, un amico potente, membro delle tribù del potere'. Semplice, chiarissimo e complicato. I voli fra l'Italia e la Libia sono sempre pieni di uomini d'affari. Chi glielo fa fare di infilarsi in un paese che assomiglia a una trappola? Spiega un venditore di mobili: 'Si rischia molto in Libia. Ma i soldi ci sono. Basta avere fegato e capire come si sta al mondo'. Sempre più chiaro.

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