Esteri / Intervista
Le inchieste indipendenti di +972 rompono la propaganda su Gaza
Il direttore della testata israeliana Haggai Matar racconta lo stretto legame tra il giornalismo e la retorica nazionalista. Il suo team, composto anche da reporter palestinesi attivi pure in Cisgiordania, è una voce unica e rara nel Paese
Haggai Matar è il direttore del magazine indipendente israeliano +972 -come il prefisso internazionale che vale sia per i telefoni israeliani sia per quelli palestinesi- che si è fatto notare ancora di più dopo il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha attaccato il Sud di Israele e in risposta è scattata la più violenta delle operazioni contro la Striscia di Gaza.
Matar e il suo team, composto da israeliani e palestinesi che operano sul campo, anche a Gaza, hanno realizzato scoop e inchieste decisive, come quella che ha fatto il giro del mondo sul sistema di intelligenza artificiale Lavender, usato dall’esercito israeliano per individuare e bombardare i propri obiettivi, con una scarsa supervisione umana. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, sono civili e abitazioni colpiti in massa, in violazione di tutte le convenzioni del diritto internazionale, con le vittime palestinesi che sono ormai più di 33mila a metà aprile 2024. Abbiamo incontrato Matar in occasione dell’evento “La guerra di Gaza: i fatti e le narrazioni”, organizzato dalla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) a Roma il 19 marzo.
Matar, che cosa vedono gli israeliani di quello che succede nella Striscia di Gaza, o in Cisgiordania, per esempio, rispetto agli attacchi dei coloni? Il cittadino medio è informato e quanto è interessato alla sorte dei palestinesi?
HM Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e capire che il nazionalismo e il giornalismo israeliano sono strettamente interconnessi. Questo è un assunto un po’ di base che è stato preso come un dato di fatto dal mondo dell’informazione negli ultimi decenni ed è ancora vero oggi, dopo il 7 ottobre. Quindi, la maggior parte dei media in lingua ebraica si concentra soprattutto sulla vita degli israeliani ebrei mentre si parla veramente molto poco dei palestinesi. Vengono visti quasi esclusivamente come gli autori dei massacri contro gli israeliani, non come esseri umani: nella narrazione giornalistica non vengono trattati come persone che conducono una loro vita, che hanno una cultura, un lavoro, e così via.
Il 7 ottobre ha generato comprensibilmente uno shock, un vero e proprio trauma per tutti noi e questo ha portato al contesto attuale, per cui è impossibile capire le ragioni e le motivazioni degli attacchi. Io questo lo considero un fallimento per il giornalismo israeliano. Siccome non è mai stato raccontato per bene il contesto, oggi nel Paese non si sa il motivo reale del perché i palestinesi fanno resistenza, non si sa come avviene e il fatto che ci sono anche dei sentimenti di ostilità nei loro confronti, nei nostri confronti. Questo ovviamente non giustifica quello che ha fatto Hamas, ma la situazione attuale è una mancanza di strumenti da parte degli israeliani per capire la situazione e ciò li ha portati ad autopercepirsi unicamente come vittime: chi supporta il cessate il fuoco o chi esprime preoccupazioni per quello che sta succedendo a Gaza viene immediatamente tacciato di antisemitismo e di tradimento nei confronti di Israele.
E questo concetto viene riaffermato ogni giorno nella modalità con cui i giornalisti coprono il conflitto: le immagini di morte, di distruzione e di fame non raggiungono davvero il pubblico israeliano, non vengono trasmesse sui media mainstream e così giungono soltanto in maniera indiretta e sempre come una sorta di rimprovero. Ci viene detto che la comunità internazionale sta perdendo la pazienza con noi, perché c’è questo “problema” dei profughi palestinesi. Quindi è veramente scarsissima la conoscenza diretta di quello che sta succedendo ai palestinesi, della loro resistenza che non viene assolutamente coperta, così come le alternative alla guerra. E questo è fatto appositamente, per farci vedere il conflitto come l’unica strada possibile.
“Il giornalismo in Israele ha fallito: oggi i cittadini israeliani si autopercepiscono unicamente come vittime perché l’informazione ripropone la narrazione governativa”
+972 ha realizzato scoop molto importanti dal 7 ottobre, come rivelare che l’esercito israeliano ha usato l’intelligenza artificiale per scegliere gli obiettivi da colpire, ovvero senza quasi nessuna precauzione per i civili, e ciò spiegherebbe l’alto numero di vittime. Come lavora il vostro team? Quanto è facile fare informazione indipendente in Israele e come hanno reagito gli israeliani alle vostre inchieste?
HM +972 è un collettivo di giornalisti israeliani e palestinesi che collaborano da 11 anni, le notizie vengono pubblicate anche in inglese e abbiamo una sezione web, che si chiama Local Call, in ebraico. Abbiamo deciso di mettere a disposizione anche questa fonte, proprio per dare accesso agli israeliani a un’informazione indipendente.
I nostri reporter sono sul campo, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e siamo l’unico sito web che copre regolarmente dall’interno quello che avviene nei Territori occupati, dove i giornalisti palestinesi lavorano soltanto per noi. È una sfida molto grande: vogliamo offrire queste fonti sia al pubblico internazionale sia a quello israeliano, ma è molto difficile oggi lavorare in questo modo. Se +972 viene seguito da diverse testate in tutto il mondo e i nostri articoli sono stati tradotti in tantissime lingue, quello che è sul sito in ebraico non viene ripreso dai media mainstream interni.
Quindi la nostra percezione è quella di avere tanti lettori ma poca influenza sulla società israeliana. Anche se a dover affrontare le sfide più grandi sono i nostri reporter che ogni giorno raccontano questo conflitto dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, dove rischiano la loro vita e quella delle loro famiglie. Le difficoltà che proviamo noi sono nulle a confronto.
“La conoscenza di ciò che sta succedendo ai palestinesi è scarsissima. E questo è fatto appositamente per far vedere come unica strada possibile la guerra”
I conflitti sono da sempre anche guerre di propaganda, come funziona quella israeliana, dietro la quale c’è un vero e proprio apparato con teorie consolidate?
HM La propaganda, che noi chiamiamo hasbara, potrebbe essere oggetto di un seminario intero e ci vorrebbero ore per parlarne. Si tratta di un vero e proprio connubio tra i media ufficiali e quelli mainstream, che hanno le proprie narrative, trasmettono i propri messaggi, che spesso sono poco verosimili, per usare un eufemismo. Già nel passato si sono verificati casi in cui hanno raccontato delle vere e proprie menzogne.
Accanto a questo, negli ultimi 20-25 anni è stato molto interessante vedere che si è creata una specie di rete non ufficiale di propaganda, per cui ci sono degli attivisti, delle organizzazioni della società civile, spesso supportate direttamente o indirettamente dal governo, che hanno creato una vera e propria rete globale con l’obiettivo di spingere la narrativa in una determinato direzione.
Il fatto che non siano media ufficiali sembra dare una parvenza di libertà e indipendenza, quasi di maggiore credibilità a queste fonti ma spesso, invece, lavorano per la propaganda ufficiale, sia per quanto riguarda i contenuti, sia a livello di finanziamenti.
Come operano nello specifico a livello internazionale?
HM Per esempio, recentemente, si sta verificando un fenomeno per cui all’interno delle università israeliane vengono create le cosiddette world rooms, “stanze internazionali”, dove gli studenti israeliani parlano ad altri studenti che provengono da Paesi stranieri, per far sì che questi veicolino delle informazioni sui loro social media in diverse lingue, cercando di diffondere determinati messaggi. Di solito sono collegate a organizzazioni di stampo sionista attive in tutto il mondo, che mettono in circolazione una narrazione sempre riconducibile a quella ufficiale del governo israeliano.
“Ci sono Ong e attivisti supportati dal governo che hanno creato una rete globale per diffondere informazioni verosimili o false
che alimentano la propaganda”
Come si conciliano le immagini sui social network, girate spesso dagli stessi soldati israeliani, che si filmano magari nelle case palestinesi attuando comportamenti che sembrano essere in qualche modo contrarie alla narrativa ufficiale governativa?
HM Penso che il tema condiviso di entrambi questi fenomeni sia la disumanizzazione. Da una parte ci sono i media mainstream, che demonizzano i palestinesi semplicemente ignorandoli, dall’altra ci sono questi video con i soldati che rubano oggetti dalle case oppure fanno vedere la biancheria che trovano all’interno delle abitazioni.
Il punto di intersezione sono i media ufficiali, che mostrano invece i soldati mentre entrano nelle città sui carri armati: non è che gli israeliani non vedono le immagini del conflitto, ma hanno una visione di Gaza completamente deumanizzata.
La osservano, tanto quanto i carri armati che distruggono le case e le macerie, ma non vedono le persone che lì ci abitano. Anche le immagini dei soldati sono una modalità di deumanizzazione perché se non faccio vedere il volto di chi muore, diventa più facile raccontarvi che sono terroristi. E questo è il fine ultimo di questo gioco: mostrare e nascondere, mostrare e nascondere.
“Il giornalismo svolge un ruolo fondamentale per raccontare le ingiustizie e pretendere che Israele si assuma le sue responsabilità, anche in sede giudiziaria”
Dove trovate il coraggio per fare un lavoro così pericoloso, che implica non solo il rischio della vita, ma anche, specie per i giornalisti israeliani, un rischio di attacco e isolamento sociale?
HM Non posso agire diversamente, specialmente dal mio punto di vista, che è un po’ quello dell’oppressore. Io penso che da questa posizione non riuscirei neppure a vivere, a guardarmi allo specchio ogni mattina, senza esercitare questo tipo di resistenza, che per me è il giornalismo. Ma oltre all’aspetto negativo del non avere scelta, ce n’è anche uno positivo: so che Israele sembra un posto che vive in un splendido isolamento dal mondo.
Ma ci sono state manifestazioni contro questa profonda ingiustizia, ci sono sempre più movimenti in tutto il Pianeta che chiedono al governo di prendersi le proprie responsabilità, anche in sede giudiziaria e secondo le regole del diritto internazionale. E il giornalismo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale in questo. In più, per quanto mi riguarda, il tutto viene legittimato dal fatto che ci basiamo sulle voci sia di giornalisti israeliani sia palestinesi, che operano sul campo. Insomma, non è solo una questione di non avere altra scelta: c’è tanto da guadagnare nel fare giornalismo in questo modo e in questo momento.
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