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Opinioni

Le banche, lo Stato e le regole

Era il 1874 quando il varo della prima legge bancaria italiana fu determinato dalla necessità di procedere a vari salvataggi. La disponibilità della politica di cambiare le regole per trovare le risorse necessarie a evitare bancarotte, nel nome dell’interesse generale, è parte della storia degli istituti di credito del nostro Paese. Un meccanismo oggi acuito dagli "azzardi" frutto dell’affermarsi della “turbofinanza”. Un commento di Alessandro Volpi 

I rapporti tra banche, politica ed economia sono sempre stati molto complessi nel nostro Paese. Hanno pesato, storicamente, tre aspetti che in altre realtà europee sono risultati assai meno determinanti. Il primo, il più noto ed evidente, è costituito, fin dalla nascita del Regno d’Italia, dalla forte dipendenza degli istituti di credito dalla politica. 
Solo per citare un esempio fra gli innumerevoli possibili, il ministro delle Finanze nel primo gabinetto Cavour, nel marzo 1861, il livornese Pietro Bastogi, era il principale azionista di uno dei cinque istituti di emissione italiani, che venne coinvolto nel grande affare del finanziamento delle Strade ferrate Meridionali. 


Il secondo aspetto, connesso al primo, è stato rappresentato dallo stretto legame fra interventi normativi di riforma del sistema bancario e l’esplosione di scandali o di profonde difficoltà del sistema stesso, quasi che non fosse stato possibile pensare una riforma senza una grave crisi. Anche in questo caso gli esempi sono molteplici a partire da quanto avvenuto nel 1866-1867, quando i dissesti di alcune banche costrinsero il governo ad adottare la non convertibilità della moneta, con l’introduzione del corso forzoso della lira che, se tenne in piedi il sistema bancario e favorì il collocamento del già significativo debito pubblico, danneggiò molto l’ancora fragile economia nazionale.  


Nel 1874, poi il varo della prima legge bancaria italiana fu determinato, di nuovo, dalla necessità di procedere a vari salvataggi. Ma il legame tra politica e pronto soccorso alle banche divenne palmare negli anni seguenti con i grandi scandali di fine secolo. La Banca d’Italia, nata nel 1893, fu pensata da Giovanni Giolitti, per contenere i danni causati dal fallimento della Banca Romana in cui era personalmente coinvolto, avviando l’unificazione dei diversi istituti di emissione non in base ad una visione generale -come era avvenuto in altri Paesi europei- ma, al contrario, per far fronte a una situazione e ad interessi molto particolari. In parallelo, le prime grandi banche, destinate al credito ordinario, la Banca Commerciale e il Credito Italiano, presero corpo assorbendo negli stessi anni numerose banche in fallimento. Dal periodo giolittiano all’immediato dopoguerra, e fino al fascismo, l’intervento dello Stato e della politica continuò ad essere decisivo. Così accadde nel 1907, con la prima crisi borsistica del nostro Paese, causata, non a caso, dalle banche, nel 1920-21, quando le banche “miste”, che avevano finanziato lo sforzo bellico, si trovarono in piena bagarre per le criticità del settore siderurgico e meccanico, e soprattutto negli anni trenta, con la nascita dell’Imi e la trasformazione della Commerciale e del Credito italiano “in banche pubbliche”. 
Nel 1936, infine, la Banca d’Italia veniva dotata, in sede normativa, di tutti gli strumenti per procedere a nuovi, ingenti, salvataggi e al pieno sostentamento del debito italiano attraverso la produzione di carta moneta, con un governatore nominato direttamente dal duce.

Per quasi ottanta anni, dunque, si era consolidata l’idea che, di fronte ad ogni crisi bancaria, si sarebbe proceduto ricorrendo alla capacità e, in particolare, alla disponibilità della politica di cambiare le regole per porre in essere le risorse necessarie ai salvataggi, invocati in nome dell’interesse generale. 
Nel secondo dopoguerra furono ancora una volta il peso dello Stato e della politica a operare per tenere sotto controllo forse l’unico sistema bancario nazionale interamente pubblico che pur agiva, a differenza di quelli dei Paesi del blocco sovietico, nei mercati finanziari internazionali. 
Era evidente in simili condizioni che la capacità delle banche italiane di essere competitive non dipendeva dai loro bilanci ma da solidi legami con lo Stato-banchiere. Questa relazione entrò in crisi negli anni settanta, quando la Banca d’Italia, insieme ad una parte, più avveduta, della politica, comprese la necessità di tagliare il pericoloso cordone ombelicale tra la banca centrale, gli istituti di credito e il debito pubblico, per cui in nome del collocamento dei Buoni del Tesoro era stato giustificabile ogni salvataggio, anche il più indigesto.

Fu quella la triste stagione dell’arresto del vicedirettore di Bankitalia, Mario Sarcinelli, e dei clamorosi scandali di Italcasse, coinvolta nel finanziamento illecito ai partiti, della Banca privata italiana di Michele Sindona e del crack del Banco Ambrosiano: il legame tra politica e banche aveva generato una serie di mostruosità finanziarie che finirono per travolgere parti importanti dell’economia italiana. Un sistema cosi drogato dall’aiuto pubblico ha fatto fatica a confrontarsi con il mercato e ha cercato quindi spesso di conquistarlo in maniera alquanto “azzardata”. 
E questo è il terzo aspetto, emerso proprio dopo l’affermarsi della “turbofinanza” del nuovo millennio, che ha spinto diverse banche italiane, ormai senza la rete pubblica, a una vera e propria condotta spregiudicata, spesso a danno dei propri clienti, nella ricerca di una capacità di reggere i bilanci in un panorama internazionale corrotto dai “mutui subprime” e da analoghe sostanze tossiche. 
È iniziata da allora una sequenza di disastri che hanno tolto il sonno ai risparmiatori italiani, dalla scalata di Antonveneta ad opera della Banca Popolare di Lodi, alle traversie di Carige, di Tercas, della Popolare di Vicenza, di Veneto Banca, della Popolare di Spoleto fino alle ultime quattro banche oggetto del discusso decreto di fine novembre. Una sequenza, purtroppo, che proprio per queste non edificanti radici storiche non lascia affatto tranquilli. 


* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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