Cultura e scienza
L’archeologia sospesa, tra riforme, indipendenza e blockbuster
Viaggio nella trasformazione della disciplina che studia e si prende cura del patrimonio artistico e culturale. Tra risorse limitate, effetti dello “Sblocca-Italia” e precariato
Nel sottosuolo di Napoli ci sono tantissime città, che se non fosse stata scavata la metropolitana sarebbero rimaste nascoste. Allora, sapremmo molto meno “della vita della città da epoca greco romana ad età medievale e moderna”, e non avremmo colmato lacune nella “conoscenza per tutti i periodi storici del settore urbano costiero di Napoli, ancora non sufficientemente noto dal punto di vista archeologico”.
Daniela Giampaola, archeologa e responsabile dell’Ufficio scavi Napoli, racconta che “i rinvenimenti più importanti si sono avuti nella stazione Duomo e nella stazione Municipio”, e che oggi “nei mezzanini della stazione Toledo e della stazione Municipio di linea 1 sono esposte le fortificazioni di età aragonese e vicereale”, mentre “il tempio, la banchina portuale e gli edifici angioini” trovano posto nella stazione Municipio di linea 6.
Facciamo un passo indietro: l’archeologia italiana oggi non è rappresentata da Pompei e dal Colosseo, i due blockbuster che guidano la classifica dei monumenti italiani più visitati (la potete consultare sul sito del ministero, digitando “2015. Tutti i numeri dei #museitaliani”), con 9,48 milioni di turisti su un totale di circa 43 milioni che hanno pagato per entrare in un museo dello Stato. In Italia il “90 per cento degli scavi è legata ad operazioni che non sono determinate da un progetto di ricerca, ma l’effetto collaterale di azioni sul territorio che hanno altro scopo, come l’edilizia o la realizzazione di infrastrutture” spiega Maria Pia Guermandi, archeologa all’Istituto dei beni culturali della Regione Emilia-Romagna. Tecnicamente, questi processi sono definiti “archeologia preventiva”. In pratica, l’archeologo viene chiamato a verificare che la realizzazione di un’opera pubblica non danneggi il patrimonio.
Ed è proprio dall’archeologia preventiva che dipedono le opportunità di lavoro per buona parte dei 3.500 archeologi che in Italia lavorano come liberi professionisti o associati in cooperative o come dipendenti di piccole imprese, secondo le stime della Confederazione italiana archeologi.
Per questo, Guermandi denuncia il ritardo nell’attuazione di un decreto attuativo dello Sblocca-Italia, che avrebbe dovuto essere in vigore entro il 31 dicembre del 2014: “Lo dovrebbero emanare congiuntamente ministero dei Beni culturali e quello delle Infrastrutture. Però da parte del ministero che si occupa di ‘grandi opere’ rappresenterebbe un riconoscimento delle istanze di tutela promosse dal primo” racconta Guermandi. Del resto, l’archeologia preventiva nasce con le grandi opere: il documento di riferimento è la “Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico”, firmata a Malta nel gennaio del 1992. “Peccato che l’Italia l’abbia ratificata solo nel giugno del 2015, con 23 anni di ritardo. A suo tempo, la ‘Convenzione di Malta’ fu un documento innovativo, perché negli anni Novanta stavano partendo i progetti dei grandi corridoi infrastrutturali continentali, e il Consiglio d’Europa indicava ai Paesi membri dell’Unione modalità d’intervento all’interno delle legislazioni nazionali per favorire la protezione del patrimonio”. La Convenzione in Italia è in vigore dal 31 dicembre 2015 -in Francia dal 1996, in Gran Bretagna dal 2001, in Germania dal 2003-, anche se -suggerisce Guermandi- la “ratifica è puramente formale, tanto che le uniche regole che attengono a questo tipo di operazioni non fanno parte di una legge specifica oppure del Codice dei beni culturali, ma sono due articoli del Codice degli appalti”. Che è un atto legislativo dell’aprile del 2006: i tempi d’attesa di “specifiche” in materia di archeologia preventiva, in Italia, sono cioè di oltre 10 anni.
Intanto, si sta delinenando la “cornice” entro la quale il ministero sarà chiamato ad esercitare le funzioni assegnate dal Codice dei beni culturali, delega e riserva al MIBACT “le ricerche archeologiche e, in genere, le opere per il ritrovamento delle cose in qualunque parte del territorio nazionale”. Dal 2016, infatti, le Soprintendenze archeologiche indipendenti -organi periferici del ministero, con compiti di tutela- non esistono più, e a parte quelle “speciali” -due, dedicate al Colosseo e a Pompei- vengono inglobate nelle 39 nuove Soprintendenze denominate “Archeologia, belle arti e paesaggio”.
Formalmente, la “riorganizzazione del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo” (così la circolare del 18 marzo 2016, che riprende un decreto ministeriale di fine gennaio) è già avvenuta, mentre nella pratica si attende l’esito degli “interpelli” per l’affidamento degli incarichi dirigenziali, tra i funzionari già in organico. Secondo Maria Pia Guermandi, i possibili effetti del processo di riorganizzazione che è conosciutata come “riforma Franceschini”, dal cognome del ministro in carica, Dario, vanno letti in continuità con gli effetti di un altro provvedimento del governo guidato da Matteo Renzi, cioè la “legge Madia” di riforma della pubblica amministrazione, dell’estate 2015. “Devono ancora essere pubblicati i decreti attuativi, ma nelle bozze che ho visto circolare è confermato che siano i prefetti, che guidano gli Uffici territoriali del governo, a rappresentare tutte le istanze in seno alle ‘conferenze dei servizi’”. Tradotto: “Non è dato sapere se i soprintendenti potranno partecipare o meno, e se anche questo avvenisse non è detto che il funzionario prescelto, dopo l’accorpamento, sia un archeologo, o un paesaggista”. In che modo, questo, rischia di interferire con l’archeologia preventiva? “Le esigenze di tutela di un paesaggista non sempre, e necessariamente, coincidono con quelle di un archeologo. Per questo, in precedenza, ogni organo della Soprintendenza era chiamato a partecipare al confronto” spiega Guermandi, che è tra i firmatari del manifesto “Emergenza cultura. Salviamo l’articolo 9”, con il quale è stato convocata a Roma una manifestazione, in programma il 7 maggio 2016 (emergenzacultura.org).
“Con lo ‘Sblocca-Italia’, invece, è stato ridotta la portata delle ‘conferenze dei servizi’, cioè quei tavoli di discussione pubblica in merito alla realizzazione di progetti che riguardano il territorio, riducendone i tempi e limitando gli effetti di pareri contrati e motivati” dice Maria Pia Guermandi.
In che modo la riforma delle Soprintendenze e delle modalità di partecipazione alle Conferenze dei servizi modifica l’archeologia preventiva? “Se il funzionario archeologo non c’è, è possibile che i cantieri vengano avviati senza prima verificare il possibile impatto sul patrimonio rinvenibile, o i costi di un’eventuale scavo”.
C’è da dire, sottolinea Guermandi, che tra gli obiettivi dell’archeologia preventiva c’è anche quello di “non scavare”, di lasciare il patrimonio -salvo e ben conservato- sotto terra.
Perché? Perché il bilancio del ministero dei Beni culturali sarà anche tornato a superare i 2 miliardi di euro nel 2016, ma se uno lo legge vede che al capitolo “Tutela dei beni archeologici” corrisponde una spesa di 119.167.597 euro, e che alla “manutenzione del patrimonio archeologico” corrisponde una dotazione di poco più di 5 milioni di euro. Anche se gli scavi di archeologia preventiva non sono a carico dello Stato, ma del soggetto incaricato di realizzare l’opera pubblica o di pubblico interesse, è il primo che poi deve farsi carico della tutela e della salvaguardia di quanto emerge dagli scavi, e anche della eventuale gestione dei magazzini che -spiega Guermandi- “traboccano”.
Torniamo a Napoli, e agli scavi legati ai cantieri della metropolitana: “Per quanto riguarda alcuni aspetti concreti, basti pensare al recupero dei relitti di imbarcazioni rinvenuti a Piazza Municipio, o alle ceramiche, gli strumenti e gli oggetti rinvenuti sui fondali del porto, che offrono uno spaccato unico della vita quotidiana della città antica e della rete commerciale in cui essa era inserita” racconta Giampaola.
La responsabile dell’Ufficio scavi di Napoli fa riferimento all’idea di “stratigrafia”, resti -di epoche diverse- che si sovrappongono, un concetto che torna anche nel discorso di Emmanuele Curti, archeologo che vive e lavora a Matera, ed è stato in lizza nel 2014 per guidare la Soprintendenza di Pompei: “Dietro le ultime scelte del ministero dei Beni culturali non c’è un’elaborazione, né un pensiero intellettuale, ma credo che per rilanciare l’archeologia, e l’insieme delle discipline umanistiche in crisi, dovremmo essere capaci di costruire una relazione tra i beni e il contesto attuale, lo ‘strato’ più superiore che è quello in cui viviamo ed operiamo. Quando negli anni Duemila ho ‘scavato’ a Pompei, vedevo i bambini di Torre Annunziata e di Scafati che venivano a seguire una dotta lezione sulla polis e la città romana, e poi ‘uscire’ nella loro vita reale dove questi spazi pubblici non esistono. Dovremmo ricreare un rapporto di scambio con l’archeologia, e adattare la didattica ai cambiamenti scientifici e neurologici di chi oggi frequenta le scuole dell’obbligo”. Curti fa l’esempio di un progetto immaginato a Metaponto, con l’aiuto di videomaker e persone del teatro, per rivedere il percorso all’interno del museo e del parco archeologico, che ancora oggi sono “raccontati” ai visitatori da pannelli pensati negli anni Settanta. Serve, dice, un approccio “super-disciplinare”, ovvero capace di legare le “grammatiche di varie discipline”.
Lara Comis, archeologa di Parma che si è specializzata in Archeologia sperimentale in Inghilterra, a Exeter, oggi collabora con l’associazione EXARC, un network internazionale tra professionisti e musei archeologici open air. Si occupa di ricerca, divulgazione e valorizzazione del patrimonio, ma questi modelli in Italia non hanno successo: nel nostro Paese non è facile immaginare l’utilizzo di tecniche teatrali, o la rievocazione storica con standard di qualità elevata nella fruizione dei siti. Anche Comis (42 anni) si dedica a questo tipo di attività dopo aver scavato: “Nel 2012 ho chiuso la mia partita Iva”, racconta, dopo un tentativo di corruzione. Secondo gli archeologi va risolto anche il “nodo” della relazione tra colui che paga, e ha interesse a che tutto si svolga rapidamente e la Soprintendenza, che vorrebbe prender tempo per catalogare e studiare, ma non svolge il lavoro direttamente, e si affida ad archeologi che stanno “tra l’incudine e il martello” (Lara Comis), spesso con contratti da 5,62 euro l’ora.
In questi casi, inoltre, “è difficile che chi scava partecipi anche alla fase di sintesi del risultato finale, alla rendicontazione” racconta Cristiano Putzolu, archeologo friulano di 44 anni che lavora come libero professionista. Il tema del corrispettivo andrebbe invece affrontato prevedendo (a livello ministeriale) un “equo compenso”, come lo definisce l’archeologa Anna Scorrano (35 anni, romana), da offrire ai tecnici laureati (quali sono appunto gli archeologi): nelle proposte dell’Associazione nazionale archeologi -una delle più rappresentative della categoria- si fa riferimento ad un corrispettivo minimo di 28 euro l’ora. Piccoli interventi per garantire un futuro possibile anche agli oltre 8mila studenti universitari italiani iscritti a un corso di laurea in Archeologia.
L’ultimo concorso pubblico per poter lavorare, come archeologo, presso il ministero dei Beni culturali si è svolto nel 2008: erano 30 le posizioni aperte. Con la Legge di Stabilità del 2016 dovrebbe avviarsi una procedura di “assunzione straordinaria” di 500 funzionari, che però riguarda anche antropologi, architetti, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, restauratori e storici dell’arte, ovvero tutte le “posizioni” congelate dal blocco del turn-over dei dipendenti pubblici.
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