L’altra Africa di Aminata Traorè
“Abbiamo bisogno di un’Africa che, attraverso il suo secolare bacino di conoscenze, risvegli una coscienza politica critica con cui pensare il futuro e dargli senso”.
Con quest’utopia a fargli da direzione la scrittrice Aminata Traorè ha vestito panni diversi nel suo percorso: funzionaria del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) in Costa d’Avorio, ministro della Cultura in Mali (suo Paese d’origine), fondatrice del Forum sociale africano. L'abbiamo incontrata.
di Adriano Marzi
E' divenuta una tra le voci africane più conosciute della critica al sistema economico, soprattutto grazie al suo primo libro L’Etau (uscito in italiano come “La Morsa”, Ibisedizioni 2004), l’abbiamo incontrata a Milano per Ae.
Madame Traorè da dove si comincia a costruire “l’altra Africa”?
Quando parliamo di Africa la questione centrale rimane, ancora oggi, la sudditanza delle nostre leadership ai dettami dell’Occidente: per un dirigente africano non è sufficiente essere in gamba, deve piacere a Washington e Bruxelles.
E lo stesso accade con le nostre economie che, grazie alle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle grandi istituzioni internazionali, sono concepite in funzione della domanda estera senza rispondere alle reali esigenze della popolazione: ci si congratula con il Kenya che produce frutta e fiori che non mangia o con paesi divenuti grandi produttori di tè dove però gran parte della popolazione non ha accesso all’acqua!
Lo stesso accade nel mio Paese (Mali) dove, seguendo il credo importato “Non c’è futuro senza commercio”, produciamo sulle terre più fertili cotone di qualità per il mercato estero mentre ci vestiamo con gli stracci che arrivano dall’Europa.
Cosa si aspetta dal “Piano per l’Africa” annunciato da Blair per il prossimo G8 di luglio?
Sono diffidente in quanto l’iniziativa proviene da chi, dopo le forti contestazioni ricevute per la convinta partecipazione alla campagna irachena, ha bisogno di farsi pubblicità proponendo soluzioni miracolose che non hanno un reale fondamento di base: il “Piano per l’Africa” ha dunque l’aspetto dell’ennesima operazione d’immagine. La conferma arriva anche dalle recenti dichiarazioni di Bush che, rendendo nota la posizione americana per il prossimo G8, si è limitato a promettere uno stanziamento di 674 mln. di dollari per le emergenze umanitarie nel Corno d’Africa, in Etiopia e in Eritrea, sottolineando come “gli Usa fanno già abbastanza per il continente nero”.
Fin quando l’atteggiamento verso certe questioni sarà quello delle “briciole di carità” la situazione non cambierà: la cancellazione del debito deve essere completa e senza alcun condizionamento.
Da dove può arrivare dunque il “vento del cambiamento”?
Noi africani continuiamo a guardare voi occidentali, vi seguiamo perché non siamo in grado di dire no: siamo Stati “mendicanti”. Come dimostra la crisi sociale ed economica che attraversa l’occidente però, il vostro non è un modello valido come riferimento. In Africa dobbiamo dunque riuscire a ricostruire un’opinione pubblica cosciente e informata in grado di interrogarsi sul modo di produrre, distribuire e consumare. Il movimento sociale africano è un “soffio” in questa direzione: la gente si batte se c’è un ideale da condividere.
Che ruolo può giocare l’Occidente per favorire questa inversione di tendenza?
La questione africana deve essere inserita in modo serio nell’agenda dei Paesi ricchi: le forze sindacali e politiche devono rendersi conto delle analogie che legano la situazione africana con quella europea ad esempio e proporre strategie di alleanza. Se volete rendere un servizio all’Africa dunque, dovete combattere la vostra battaglia qui al Nord: il vostro coraggio sarà per noi d’esempio.