Esteri / Varie
L’agricoltura urbana negli slum
Viaggio a Mumbai, megalopoli da 20 milioni di abitanti, tra orti (inquinati) lungo la ferrovia ed economia informale: "L’insalata di bulloni cresce in lotti rettangolari e precisi che lambiscono la strada ferrata. È una distesa di ciuffi verdi accanto alle traversine" scrive Emiliano Bos. I vegetali sono fortemente tossici, eppure vengono venduti al mercato, e quindi mangiati
MUMBAI – L’insalata di bulloni cresce in lotti rettangolari e precisi che lambiscono la strada ferrata. È una distesa di ciuffi verdi accanto alle traversine. Li vede chiunque passi in treno, accanto a questo slum di Mumbai -il nome imposto alla città di Bombay nel 1995, dai nazionalisti hindu-.
Non trovando altro accesso, per raggiungere gli orti “ferroviari” dobbiamo calarci dal ponte pedonale. Un signore di nome Ramesh è accucciato a tagliare i ciuffi più freschi, con l’aiuto di tre donne. Il convoglio della “Western Railway” -la linea ferroviaria occidentale, una delle tre che attraversano le megalopoli indiana- scuote i vegetali cresciuti quasi sui binari. L’uomo riempie un sacco. Paga per il lavoro compiuto le tre donne, che si fermano in accampamento di fortuna a ridosso dei binari. È una grande tenda di plastica. Dentro ci vivono figli, due cani, qualche gallina. Né slum né baracca. Questa non è nemmeno una casa. “Ora vado al mercato a vendere l’insalata” ci spiega Ramesh. Lui non vive in questo tugurio di plastica, ma in un altro quartiere. Le donne che lavorano per lui vigilano 24 ore al giorno sul suo prezioso rettangolo verde, dove la verdura cresce sotto lo sguardo di milioni di passeggeri in transito ogni giorno.
Le analisi chimiche dimostrano che questi vegetali sono fortemente tossici. “Alcuni contengono livelli elevati di piombo, arsenico, mercurio e altri metalli” afferma Visnhu Gavali dell’associazione “Iron Eagle”. Secondo le autorità ferroviarie i prodotti degli orti sarebbero invece nella norma. Il problema è l’acqua inquinata usata per irrigare, spesso ricavata da scarichi fognari. L’ambientalista insiste: il radicchio analizzato conteneva più del doppio di zinco consentito.
Ramesh però non sembra affatto preoccupato. Si carica il sacco sulla testa e s’incammina a piedi verso la stazione di Mahim Junction. Nessuno verificherà l’adeguatezza agli standard della sua insalata. Andrà a venderla al mercato. Ovviamente prendendo un treno.
Lezioni di urbanistica applicata. Accanto alla stazione di Mahim Junction non servono trattati di urbanistica per capire l’inarrestabile trasformazione. Lo spazio è semplicemente finito. Una fila di casette basse con tetti di lamiera si dipana a ridosso dei binari. Anuja, sulla sessantina, siede con le gambe incrociate. Infila a mano ghirlande di piccoli fiori arancio destinate a qualche tempio hindu. Riceve trenta rupie per ogni corona di fiori, meno di mezzo euro. Il convoglio della “Harbour Line” -la linea urbana diretta verso il porto di Mumbai- la sfiora passando a due metri, ma lei non ci fa caso. “Siamo abituati” sorride Sanita, una ragazza di 16 anni che l’anno prossimo s’iscriverà al college. Ci porta a vedere la sua “casa”, così la chiama. Dai binari ci infiliamo in un vicolo largo letteralmente tre spanne. Quando s’incrocia un’altra persona, si fatica a passare. Sul fondo viscido del viottolo scorre un piccolo canale di scolo. Ecco la casa di Sanita: una dozzina di metri quadrati. Senza finestra, ovviamente. La luce, quella vera, è un lusso per pochi. L’energia elettrica, invece, tiene accesi decine di televisori in questa viuzza altrimenti semi-buia. Sbuchiamo di nuovo sui binari, proprio dove s’intrecciano le tre linee urbane della città. Ne attraversiamo una a passo svelto, ritrovandoci in un nuovo un dedalo di costruzioni basse. Questo slum si chiama “Azad Nagar”, “il luogo della libertà” ci spiega Ram, canotta gialla e infradito. Da 4 anni lavora in una banca a Dubai ma è di passaggio per qualche giorno in famiglia. Sono sempre in movimento, gli indiani di Mumbai.
Una sorta di “tangenziale umana” verso la stazione. Contiamo 400 persone al minuto, cioè 24.000 all’ora nelle fasce di punta. Sotto i piedi si sente ondeggiare la passerella pedonale d’acciaio tra i binari, sovraccarica di pendolari. Allungano il passo svelti, tra gli svolazzi multicolori dei sari, il grigiore in tinta pastello di impiegati con mocassini lucidi e smartphone, le scure silhouette femminili velate sotto il niqab. E ancora, ceste di vimini poggiate sulle teste di portatori già sudati, pesanti bisacce di venditori diretti al mercato delle verdure. Qui accelerano tutti. Sul binario 5 sta invece rallentando l’accelerato delle 8.12 diretto al capolinea di Churchgate. Dalle porte aperte del treno penzolano passeggeri avvinghiati precariamente.
Il pigia-pigia sulla banchina diventa lotta tenace per un varco dentro lo scompartimento-alveare di seconda classe, le donne sulle carrozze loro riservate. Nessuno litiga. Si spinge e si strattona senza alzare la voce. Il treno riparte. Altro convoglio, stessa scena. Torme di nuovi passeggeri già sciamano sulla banchina della stazione ferroviaria di Bandra.
Sembra un meccanismo infernale. In realtà è un meccanismo perfetto, o quasi. La rete ferroviaria urbana di Mumbai trasporta oltre 4 milioni di persone al giorno. Come se tutti gli abitanti dell’Emilia-Romagna salissero su un treno, diretti verso il centro della megalopoli. Che non è affatto il suo centro, ma l’estensione meridionale di questo lembo di terra allungato, un tempo formato da sette isole. I colonizzatori portoghesi la chiamarono “Bom Baia” (Buona Baia), da cui “Bombay”. Santoosh, 37 anni e un fisico mingherlino, lavora proprio di fronte al “Gateway of India”, il monumento-simbolo del porto da dove un tempo partivano bastimenti carichi di spezie d’ogni sorta. È un usciere dell’hotel “Taj Mahal”, il più lussuoso e celebre dell’India. Per raggiungerlo, da casa impiega quasi 3 ore. Altrettante per il ritorno.
La mobilità, una forma di migrazione. La “mobilità”, da queste parti, si misura nella possibilità di avere un impiego. “Non c’è modo di colmare la distanza abissale casa-lavoro” ci spiega S. Chandrasekhar, professore associato all’Indira Ghandi Institute. Negli ultimi anni -osserva- il pendolarismo “è la nuova forma di immigrazione, diventando condizione indispensabile per la sopravvivenza”.
In India vivono 1 miliardo e 300 milioni di persone. Che si muovono e si spostano. Con quasi 20 milioni di abitanti, la “Grande Mumbai” è uno dei primi agglomerati urbani del pianeta. E non smette mai di attirarne di nuovi. I ricchi -dice il professore- vivono in centro (i quartieri a Sud), la classe media in periferia. E poi ci sono i service people, i lavoratori “di servizio”. Sono l’ingranaggio essenziale della città: guardiani, tassisti, lavoratrici domestiche fisse, ciabattini, giardinieri, camerieri, autisti, venditori di succo di cocco da bere in cannuccia dentro la noce verde. Sono ovunque. E abitano ovunque. Soprattutto negli slum: almeno il 60% dei “mumbaiti” è stipato negli slum. Le baracche però occupano soltanto uno spicchio di terra: il 6% della superficie urbana.