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Opinioni

La sfida della complessità

Chi opera nel mondo dell’informazione dovrebbe saper discernere tra visibilità ed evidenza, perché non si possono leggere la realtà, i rapporti sociali e quelli di potere, attraverso schemi preconcetti o, peggio, strumentali. Il corsivo di Pietro Raitano

Tratto da Altreconomia 162 — Luglio/Agosto 2014

“Chiama le cose come le vedi, e al diavolo tutto il resto” (Ernest Hemingway). Che cosa succede se nel misurare il valore di qualcosa prevale la visibilità, al posto dell’evidenza? Tolto il punto di domanda, rimangono la televisione e quel che resta del servizio pubblico, rimane il precariato di chi lavora nel mondo della cultura e dell’informazione, e ovviamente rimangono i miliardari di Internet, che -imperterriti- continuano ad arricchirsi -esentasse o quasi- sfruttando il lavoro altrui. 32 milioni di italiani, la maggior parte di noi, partecipa ogni giorno a questo luogo -che chiamiamo Rete-, al quale chiunque può accedere per dare voce alle proprie opinioni; luogo democratico per eccellenza, salvo poi diventare arena di violenza incontenibile, diffamazione, delinquenza mediatica.
Pochi sinora ne sono stati chiamati a rispondere, sotto il profilo della contro informazione e della legge.
L’evidenza è che la società non si cambia coi “mi piace” e con i clic, ma scendendo -metaforicamente, e non-, in piazza. Un’altra evidenza è che se anche sei capace di riempire le piazze, invadere le televisioni, i giornali e le chiacchiere al bar, se poi non hai nulla di intelligente da dire è solo tempo perso.
Ma questo, ha, ovviamente, una sua logica, dove i mezzi sono coerenti col fine. Da un lato, affogare ogni conflitto in una marea di parole, talk show, polemiche, commenti on line, per relegare le evidenze a ruolo marginale, di contesto. Dall’altro, dare voce alle varie categorie di professionisti della confusione: ci sono i provocatori di mestiere, ci sono i minimizzatori -per i quali i problemi sono dipinti sempre con toni troppo drammatici-, ci sono i “saggi” realisti, ci sono i catastrofisti, ci sono i sedicenti fact checker che nel cercare l’errore nel dito fanno distogliere lo sguardo dall’evidenza della luna.
E poi ci sono i professionisti della visibilità, armati di urla e aggressioni: perché continuiamo a tollerarli, perché accettiamo che ci rovinino l’umore, che ci facciano montare la rabbia ad arte?
La responsabilità sta in chi invita certi personaggi in tv, in chi li intervista sui giornali, in chi riporta i loro tweet o post. È la responsabilità di chi ci fa perdere tempo prezioso.
La maggior parte di queste persone crede che tutti possano fare tutto: competenze, formazione ed esperienza non contano. Confondono il potere (quello di cittadinanza, o quello, temporaneo e non scontato, dato loro da un’elezione) con potenzialità, la loro. Questo potere senza potenzialità li ha convinti di essere migliori, che i loro pensieri -ammesso che siano davvero loro- siano giusti. E per questo si sentono in diritto di dire e fare tutto quello che pensano.

È naturale che scatti l’odio per “gli intellettuali”: come scriveva Isaac Asimov, “l’anti intellettualismo è un tarlo nutrito dall’idea sbagliata che democrazia significhi che la nostra ignoranza vale quanto l’altrui conoscenza”.
Se avessimo badato di meno alla visibilità -quella mediatica, quella politica/elettorale- ci saremmo una volta di più accorti di quanto falsa è la logica delle “grandi opere” (farci uscire dalla crisi, renderci competitivi, dare lavoro).
E avremmo avuto di fronte gli occhi l’evidenza: le “grandi opere” servono a dare appalti ai “grandi amici”, contando sul “percolato” economico dell’operazione. Va da sè che i professionisti della confusione si guardano bene ora, dopo le vicende Expo, Mose (e tutte le altre del passato, e quelle che arriveranno) dal chiedere scusa, dal dire almeno “abbiamo sbagliato”. Si guardano bene dall’affrontare con spirito critico la complessità dell’evidenza.
Il compito di chi fa informazione -quindi il nostro, se continuerete a seguirci e sostenerci- è proprio osservare con spirito critico e raccontare la realtà.
Ce lo insegna la biodiversità, termine coniato nel 1992 da Edward Wilson, uno dei più importanti biologi viventi (“La diversità della vita”, 1992): non si possono leggere la realtà, i rapporti sociali e quelli di potere, attraverso schemi preconcetti o, peggio, strumentali. La biodiversità è ridondanza, ambiguità, eccezione, a volte contraddizione.
È la bellezza della dispersione contro l’ipocrisia della compattezza, dell’identità, dell’omologazione. —

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