Ambiente / Opinioni
La sentenza Eternit è un monito alla green economy
Stephan Schmidheiny, che ieri a Torino è stato condannato a 18 anni di carcere, è presidente onorario del World Business Council on Sustainable Development, una rete di decine di imprese multinazionali attente all’ambiente nata nel 1992, a margine della conferenza Onu di Rio de Janeiro. Oggi più che mai, la "formula green" non dev’essere un marchio ma un sinonimo di giustizia ambientale e sociale
Erano da poco appena passate le 16.00 di lunedì 3 giugno quando le agenzie di tutto il mondo hanno battuto la notizia che, per molti, potrebbe essere la fine di un incubo. Stephan Schmidheiny, 66 anni, magnate svizzero per decenni patron dell’impresa che ha prodotto l’Eternit, si era appena visto snocciolare parola per parola la sentenza della Corte di Appello di Torino, una sentenza che lo condanna a 18 anni di carcere per disastro doloso permanente e omissione dolosa di cautele anti-infortunistiche. Dietro a quel dispositivo stanno le migliaia di persone uccise da un killer invisibile, il mesotelioma causato dalle polveri dell’amianto usato per la produzione di Eternit, ed un territorio, quello di Casale Moferrato e di tutta la provincia di Alessandria, segnato in modo indelebile dall’imprenditoria irresponsabile. È una sentenza che farà storia. E non solo per la scelta coraggiosa di una Corte di Appello. Ma perché questi 18 anni di carcere mettono sul tavolo degli imputati non solo un ex manager, ma un modo di intendere l’impresa e, soprattutto, quella green.
“Adesso quale imprenditore straniero verrà a investire in Italia?” ha detto alla stampa l’avvocato difensore di Schmidheiny, Astolfo Di Amato. Perché in un mondo dove la liberalizzazione e i mercati, a partire da quello dei capitali, vogliono e nei fatti hanno libertà sempre crescente, per un’azienda -soprattutto se di grandi dimensioni- è possibile saltabeccare da un Paese all’altro alla ricerca delle migliori condizioni per l’investimento. Che spesso fanno rima con niente tasse e deroghe sulle normative sociali ed ambientali, e se qualcuno ci ripensa, la delocalizzazione è dietro l’angolo. Dopotutto, fu proprio la Camera di Commercio internazionale, che rappresenta la business community e gli imprenditori di mezzo mondo, a minacciare la Cina quando il governo, diversi anni fa, decise di aumentare il salario minimo dei lavoratori ad un livello un po’ meno schiavistico. La Cina andò avanti. E le imprese delocalizzarono in Cambogia, Vietnam ed affini.
L’altra grande questione riguarda l’innamoramento collettivo verso tutto ciò che è green. Stephan Schmidheiny è stato per anni identificato come l’imprenditore sostenibile, il modello del filantropo attento alle sorti del pianeta e di chi lo abita. Dal 1992, data cruciale per la governance internazionale grazie al Summit Onu su ambiente e sviluppo (l’Earth Summit), a Rio de Janeiro, dove lo stesso Schmidheiny fu insignito di grandi riconoscimenti, e per tutti gli anni a venire, diventò paladino dell’economia verde alla testa del World Business Council on Sustainable Development, una rete di decine di imprese multinazionali attente all’ambiente. Lui, ad oggi, è rimasto presidente onorario a fianco del presidente reale, Charles O. Holliday, di Bank of America. Tra i membri ci sono Unilever, Toyota, Acciona, Shell e Sinopec, acronimo della più conosciuta China Petrochemical Corporation. Questa è la green economy che conta, e che ha tra i suoi principali ambasciatori Stephan Schmidheiny. L’anno scorso una petizione della società civile chiese al Segretario generale dell’Onu che il manager svizzero fosse considerato "persona non grata" al Summit di Rio+20, organizzato per ricordare e rilanciare i concetti di Rio 1992. La risposta delle Nazioni Unite fu un silenzio imbarazzato, per chi dovrebbe dettare le linee di un futuro sostenibile. Il codice penale ci spiega che nessuno è colpevole fino a prova contraria, e che questa si può avere solo al terzo grado di giudizio. Ma la pericolosità dell’eternit ormai dimostrata a livello mondiale avrebbero dovuto consigliare maggiore cautela. Schmidheiny è, ancora oggi, autore di libri sulla sostenibilità ambientale e presidente del WBCSD. Meglio farebbero, i capitani d’impresa, a disfarsi di profili così imbarazzanti. E meglio faremmo, tutti noi, a guardare con attenzione e notevole senso critico un fenomeno, quello della green economy, che assomiglia sempre più ad una religione a cui aderire senza riserve piuttosto che ad una reale opportunità di cambiamento. Ma che può avvenire solo se basato su trasparenza, regole certe e giustizia ambientale e sociale.