Ambiente / Approfondimento
La lobby dei combustibili fossili usa Covid-19 per bloccare la lotta ai cambiamenti climatici
Tra gruppi di pressione e finte soluzioni “green”, gli interessi del comparto fossile stanno inquinando il nuovo Green Deal dell’Unione europea. Il report di denuncia di Re:Common e altre 200 organizzazioni internazionali
La lobby dei combustibili fossili sfrutta la crisi del Covid-19 per fermare la lotta ai cambiamenti climatici. È la denuncia del rapporto “Trasformare la crisi in opportunità: lobby e grandi manovre dell’industria fossile durante la pandemia” pubblicato da Re:Common, in collaborazione con oltre 200 organizzazioni della rete internazionale Fossil Free Politics, e che sottolinea come gli interessi del comparto fossile stiano inquinando fortemente il nuovo Green Deal dell’Unione europea. Le promesse di una “svolta verde” della Commissione europea, e del governo italiano, rischiano così, nuovamente, di non essere tradotte in scelte politiche concrete.
A margine della discussione sulla prima legge europea sul clima -in votazione al Parlamento europeo martedì 6 ottobre 2020- che introduce limiti delle emissioni di CO2 nell’atmosfera con l’obiettivo di raggiungere lo zero netto entro il 2050, gli attivisti ambientali richiamano l’attenzione sull’attività di lobby dei “giganti del fossile”. “Persino durante una crisi sanitaria globale come quella in corso -spiega Alessandro Runci di Re:Common, tra i curatori del rapporto- l’industria fossile si è attivata per sfruttare la situazione a proprio vantaggio, accaparrandosi aiuti pubblici e interferendo con i piani per la ripresa economica, insinuando la propria agenda al loro interno”.
Infatti molti dei piani di rilancio proposti dagli Stati europei prevedono ingenti finanziamenti pubblici nelle false soluzioni preferite dal comparto fossile. L’utilizzo del gas che, nonostante sia una fonte enorme di gas serra (anidride carbonica e metano), viene descritto come amico del clima; l’utilizzo della tecnologia della cattura e del sequestro di anidride carbonica (CCS) -ovvero la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica sottoterra e sott’acqua- non collaudata, rischiosa e molto più costosa del passaggio alle energie rinnovabili ed infine l’investimento sulle fonti ad idrogeno, cavalcando la falsa “promessa” dell’idrogeno verde. Considerando che il 96% dell’idrogeno viene attualmente ricavato da combustibili fossili, nella concretezza significa continuare ad investire sull’utilizzo del gas fossile.
Queste soluzioni, “false” nella lettura di Re:Common, vengono implementate sia a livello italiano sia a livello europeo: non si interviene sulle cause del cambiamento climatico e si adottano “soluzioni” che permettono alle aziende fossili di continuare con l’attuale modello di business inquinante. Per quanto riguarda l’Italia i segnali non sono incoraggianti. A gestire gli ingenti fondi previsti per il post-Covid-19 sarà SACE, l’agenzia di credito all’export controllata dal ministero dell’Economia, “cassaforte” per società come Eni o Saipem, che sono tra i suoi maggiori beneficiari. Non solo, recentemente Snam (operatore italiano nel settore delle infrastrutture del gas) e Confindustria energia hanno pubblicato un documento congiunto in cui sottolineano la necessità di investire nelle infrastrutture energetiche in questa fase di rilancio. Peccato che, nel documento programmatico, dichiarino che la metà degli investimenti previsti da oggi al 2030 andranno in opere fossili, come i gasdotti. Infine lo stanziamento di 365 milioni di euro alla società petrolifera Marie Tecnimont e le dichiarazioni a margine degli Stati generali sulla ripresa, con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha avallato pubblicamente il progetto di Eni per la cattura e il stoccaggio di CO2 a Ravenna confermano una svolta green, per adesso, solo di facciata.
Non affrontare il problema del cambiamento climatico nelle sue cause ma anche la corsa del comparto fossile all’accaparramento del denaro pubblico disponibile, oggi cospicuo vista la necessità di ripartire, è un’altra delle tematiche affrontate dal rapporto di Re:Common. La Banca centrale europea, delegando alle banche centrali nazionali la scelta delle aziende da aiutare, non ha posto alcun requisito o condizionalità legate all’impatto ambientale. Di fatto le istituzioni europee negli ultimi mesi, acquistando il debito delle società fossili si stanno vincolando alle loro performance finanziarie: il programma di acquisto di bond lanciato durante l’apice della crisi da Coronavirus ha fornito liquidità a compagnie petrolifere come Eni, Repsol, Shell, OMV e Total senza alcun limite sul rispetto dell’ambiente. In questo quadro la sospensione delle norme sulla trasparenza non facilita il controllo dell’attività pubblica. In particolare modo, a livello europeo -si legge nel rapporto- si denuncia una scarsa trasparenza per quanto riguarda il registro degli incontri con le lobby del fossile da parte di funzionari della Commissione europea. Il difensore civico europeo, dopo aver richiesto maggior trasparenza nel registrare i suddetti incontri, ha avviato, data la scarsa “collaborazione” da parte della Commissione europea, un’inchiesta sulla trasparenza delle attività decisionali del Consiglio inerenti alla crisi, accompagnata da un’iniziativa strategica per approfondire sulla trasparenza delle misure adottate dalla Banca europea per gli investimenti in risposta al Covid-19.
Infine si segnala nel rapporto il tentativo da parte del comparto fossile, al grido di “semplificazione” per poter rilanciare più velocemente l’economia, di eludere le normative ambientali. Questa tendenza -specifica il documento- si è verificata anche in Italia. Ne è uno dei tanti esempi la richiesta rivolta al Senato da parte di Confidustria, nel giugno 2020, di prevedere nelle misure di rilancio la semplificazione delle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA).
Erigere un “muro” per impedire all’industria del fossile l’accesso alle attività decisionali; evitare i conflitti di interessi tra incarichi pubblici ed esponenti dell’industria fossile e bloccare le corsie preferenziali ad essa riservate nei negoziati sul clima; interrompere qualsiasi partnership, da parte del mondo politico, con il comparto fossile. Sono queste le richieste di Re:Common e delle altre organizzazioni firmatarie del documento. “Un rilancio che metta al centro la salute delle persone e del Pianeta -conclude Runci- non può essere dettato dagli interessi delle grandi compagnie del fossile”
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