La lezione inascoltata del disastro del Vajont
Sono passati quarantacinque anni dal 9 ottobre del 1963, dalla tragedia del Vajont: una gigantesca frana si staccò dal monte Toc e precipitò all’interno dell’invaso costruito lungo il torrente Vajont, al confine tra Friuli e Veneto. Un’onda gigantesca si sollevò oltre la diga, cancellando la città di Longarone, giù a valle. L’acqua e lo spostamento d’aria causarono la morte di oltre 2mila persone. La popolazione superstite, che aveva subito prima l’esproprio forzato delle proprie terre migliori, sommerse dall’invaso, dopo il 9 ottobre venne mandata a vivere in pianura, in un “Paese inventato” (costruito ex novo) chiamato Vajont. Contadini espropriati della propria storia e trasformati in operai.
“La storia del ‘Grande Vajont’, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime” scrive l’inviata de L’Unità, Tina Merlin. E Sulla pelle viva (Cierre edizioni) è il libro in cui ricostruisce l’intera vicenda della diga. Sottotitolo: “Come si costruisce una catastrofe”.
Quella del Vajont è una catastrofe sociale e ambientale. Avrebbero forse potuto evitarla i tecnici della Sade, Società adriatica di elettricità, che nel 1957 iniziò i lavori per la diga anche se gli studi geologici dicevano che, prima o poi, il Toc sarebbe franato. Studi che oggi si chiamano Via, Valutazione d’impatto ambientale, a cui imprese, governi e finanziatori pubblici (come la Banca mondiale) continuano a non dare importanza.
A fine settembre ad Erto ha fatto tappa la Carovana missionaria di pace, in “visita riflessiva e silenziosa nel paese vecchio (Nèrt)”, quello degli sfollati. Poco sotto, la diga del Vajont è “un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica”, ben visibile dalla piana di Longarone, città ricostruita.
Quella del Vajont è una lezione che ancora non abbiamo imparato.