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Opinioni

La flessibilità delle riforme

Matteo Renzi rischia una doccia gelata: l’Italia probabilmente non raggiungerà l’obiettivo del 2,6% nel rapporto tra deficit e Pil, e in assenza di riforme strutturali potrebbe essere obbligata dall’Unione europea a una nuova, dolorosa, spending review. Il commento di Alessandro Volpi, autore de "La globalizzazione dalla culla alla crisi"

Il premier Matteo Renzi ha escluso con decisione la necessità di una manovra aggiuntiva, destinata a correggere i conti pubblici aumentando il carico fiscale, e ha rigettato qualsiasi ipotesi di taglio delle pensioni o di blocco contrattuale per i dipendenti pubblici. In questo senso ha inteso allontanare prontamente ogni possibile scontro sociale al rientro dalle ferie, un autunno caldo dopo un’estate tiepidina.
Per la medesima ragione Renzi ha messo subito nel congelatore il dibattito in merito all’articolo 18 e ha preferito concentrarsi su temi a lui più congeniali come il decreto “Sblocca Italia”, prossimo al varo in Consiglio dei ministri.

Si tratta di una strategia che deve fare i conti, tuttavia, con una variabile non trascurabile, rappresentata dall’atteggiamento della Commissione europea nei confronti dell’eventuale, ormai probabile, mancato raggiungimento dell’obiettivo del 2,6% nel rapporto fra deficit e Pil. 
Il presidente del Consiglio ha sempre auspicato una interpretazione flessibile del Patto di Stabilità, capace di valutare le molteplici attenuanti congiunturali che dovrebbero essere considerate nel caso italiano. Tale auspicio si è accompagnato, altrettanto di frequente, alla promessa di riforme di natura strutturale destinate a far ripartire l’economia del nostro Paese. Proprio su questo terreno emergono però alcune perplessità, che possono pesare non poco nelle valutazioni europee.

Quali sono le riforme strutturali in campo economico che il governo può porre in essere in tempi ragionevoli e che possono essere in grado di rilanciare il sistema-Italia? È evidente che non è concepibile, a meno di non avviare un’ondata pesante di scioperi, una riforma delle pensioni. Per quanto continui il paradosso di giovani che pagano con il loro sforzo contributivo una parte delle pensioni di coloro che hanno beneficiato del regime “misto” della riforma Dini, l’attuale regime pensionistico appare intoccabile in nome dei diritti acquisiti. Non è pensabile neppure, in tempi brevi, una vera riforma del fisco, per quanto sarebbe la più auspicabile. 


A rendere complicata la riforma sono in primo luogo i numeri: le entrate tributarie assommeranno nel 2014 a circa 208 miliardi, 1,5 miliardi in meno dell’anno precedente, di cui 195 di competenza statale e quasi 25 degli enti territoriali. Con numeri siffatti è impensabile un incremento, ma è complessa anche una ri-articolazione del comparto tributi: sul versante delle imposte dirette l’Irpef pesa per 80 miliardi e l’Ires per circa 10 miliardi, mentre su quello delle imposte indirette, su un totale di 90 miliardi, l’Iva da solo pesa per quasi 50. 
È chiaro, dunque, che la partita si gioca sul duplice tema delle aliquote Irpef e della modulazione dell’Iva, due questioni difficili da affrontare da una maggioranza parlamentare decisamente articolata e, almeno sulla carta, espressione di componenti sociali e di interessi aggregati ben distinti tra loro. 


L’espressione di una generica necessità di abbassare le tasse, sul modello di quanto affermato da Mario Draghi, rischia di restare quindi un mero auspicio. D’altra parte la revisione della finanza locale e regionale si è da tempo incagliata, al di là della problematica delle coperture, per effetto dell’impantanamento di ogni prospettiva di trasformazione in senso federale dello Stato. Ma se la riforma delle pensioni e quella del fisco, nonostante i fragili contenuti della legge-delega, non sono realizzabili in tempi celeri, ed altre voci dello Stato sociale, a cominciare da quella sanitaria, sono giustamente escluse da un ripensamento “strutturale”, è difficile individuare altre riforme determinanti per la ripresa del paese. 


Il combinato disposto di “Sblocca Italia” e Jobs Act può rappresentare un importante terreno di confronto, ma l’impressione è che difficilmente l’attuale composizione delle Camere e le esigenze di consenso, da materializzare in qualsiasi momento, data la possibilità continua di elezioni, rendano praticabile conferire a simili atti i caratteri del vero rilancio del mercato del lavoro e delle differenti economie italiane. 
Il timore è pertanto quello che, dati i margini molto angusti entro cui veicolare l’azione riformatrice, il governo Renzi scelga di puntare troppo sulla spending review, trasformando una necessaria ed opportuna opera di cambiamento dei criteri della spesa pubblica nel mezzo principale per reperire risorse. Se questa fosse la strada, davvero l’Europa rischierebbe di risultare spietata perché, in assenza di riforme, chiederebbe all’Italia sacrifici sempre maggiori.

* Università di Pisa

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