Cultura e scienza / Varie
La fisica è cultura
“In Italia si ha spesso l’impressione che la ricerca sia un optional”. Intervista a Giovanni Jona Lasinio, accademico dei Lincei, noto a livello internazionale per i suoi studi sulla teoria dei campi e sulla meccanica statistica e già insignito della prestigiosa medaglia Boltzmann: "Per quanto ne sappiamo la nascita della vita è un fenomeno avvenuto una volta sola nella storia della terra"
L’interesse per la fisica è cominciato intorno a una tavola da pranzo, in una di quelle riunioni di famiglia che si svolgevano ogni giorno, in cui il padre – ingegnere aereonautico con mille curiosità (nonno di chi scrive) – un giorno aveva parlato di Einstein: “La teoria della relatività mi incuriosì talmente, che in seconda liceo andai a cercarla nell’enciclopedia britannica che avevamo a casa, tradussi quella voce in italiano e ne parlai a scuola”. Così, il fisico Giovanni Jona Lasinio, accademico dei Lincei, noto a livello internazionale per i suoi studi sulla teoria dei campi e sulla meccanica statistica racconta di essersi avvicinato alla materia su cui ha svolto ricerca per oltre 50 anni. Jona Lasinio è stato, tra l’altro, insieme al premio Nobel per la fisica Yoichiro Nambu pioniere della ricerca sul concetto fisico di “rottura spontanea di simmetria” (un esempio di questo fenomeno è il magnetismo), in particolare sul suo ruolo nella fisica delle particelle. E’ stato il punto di partenza di Peter Higgs sulla via che ha portato alla scoperta dell’omonimo bosone. Anche per questi suoi studi, nel 2013 è stato insignito della medaglia Boltzmann, massimo riconoscimento internazionale per i fisici che ottengono risultati nell’ambito della meccanica statistica. Intervisto mio zio, oggi professore emerito all’Università La Sapienza di Roma, nel dipartimento dove ha cominciato a insegnare nel 1957.
Ci incontriamo all’entrata dell’ateneo un sabato pomeriggio e attraversiamo insieme i corridoi deserti dai muri verdognoli che sembrano non aver ricevuto tinteggiature da decenni, interrotti – sui pianerottoli delle scale – da vetrine in legno che raccolgono strumenti in passato utilizzati per gli esperimenti di laboratorio. Anche nella stanza a lui riservata come professore emerito, devo stare attenta, mentre scelgo la giusta illuminazione per le fotografie, a maneggiare le vecchie persiane difettose, che sembrano potersi rompere definitivamente da un momento all’altro. E così la domanda sui finanziamenti alla ricerca oggi in Italia appare banale: “In tutti i paesi europei vengono dedicati alla ricerca alcuni punti del Pil. In Italia superiamo appena l’1 per cento – dice – sono passati governi di destra e di sinistra ma non c’è stato verso, la ricerca non hanno mai capito a cosa servisse. Un problema culturale. Nonostante che adesso sia di moda riempirsi la bocca di aiuto alla ricerca nei discorsi dei politici”. “Da 25 anni i concorsi per la ricerca vengono fatti a singhiozzo e spesso hanno costituito degli “ope legis”, come si dice in gergo, ovvero è stato dato un posto a chi, essendo rimasto per anni in attesa di poter concorrere a una promozione, non poteva essere escluso (indipendentemente dal merito)”.
Hai ricevuto la medaglia Boltzmann a Seul. La Corea del Sud con quasi il 4,5 % del Pil dedicato alla ricerca scientifica e tecnologica, supera non solo l’Italia, ma anche la media europea (2%)
Se vai in Corea, è impressionante la quantità di soldi che sembrano avere a disposizione anche i ricercatori. In Italia invece si ha spesso l’impressione che la ricerca sia un “optional”. Abbiamo un sistema che è stato sempre abbastanza asfittico a parte gli anni ’50-‘60 in cui c’è stato un certo sviluppo. Quando si decise di sviluppare l’energia nucleare ci furono investimenti nella ricerca: fu l’epoca in cui nacquero l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e i Laboratori Nazionali di Frascati. Inizialmente molti di noi ricercatori fummo assorbiti lì: non eravamo dipendenti dell’Università ma dell’Istituto. Sono entrato organicamente nel sistema universitario italiano prima con un posto di assistente ma soprattutto vincendo la cattedra nel 1969.
Come è cambiata l’università italiana negli anni?
Quando io ho cominciato a insegnare c’erano in Italia 20 o 21 università, oggi sono oltre 100. Anche se alcune sono private, c’è stata negli anni una proliferazione dovuta sostanzialmente a motivi clientelari. È passata una legge per cui i concorsi si facevano su base locale e, anche se la maggioranza della commissione veniva eletta nazionalmente, un membro era designato dall’Università ed era molto difficile disattendere i desideri dell’ateneo locale in cui il valore della persona non era spesso la motivazione principale. Più recentemente è stata costituita l’Anvur (Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e degli Enti di Ricerca) e ciò sta producendo dei mutamenti. Ma i criteri di valutazione usati si basano molto sugli indici bibliografici – ovvero sul numero di pubblicazioni – che alcune volte danno la risposta giusta, molte altre distorta. Il mondo della ricerca è diventato molto competitivo. I giovani sono costretti a pubblicare anche quando non hanno sostanzialmente molto da dire e questo sta influendo negativamente sulla qualità della ricerca. E’ un fenomeno non solo italiano ma da noi può avere effetti maggiori data la debolezza del nostro sistema scientifico. Oggi inoltre è cambiato il modo di fare ricerca: quella che si fa dentro le università è solo una parte.
Ci sono altri Paesi, tra quelli che hai conosciuto nella tua attività di accademica, che potrebbero essere presi a modello per l’investimento nella ricerca?
Oggi ci sono paesi che investono molto di più come Inghilterra, Germania, Francia, gli Usa. Ma anche negli Usa le cose sono cambiate molto rispetto agli anni ’50-‘60: il problema dei finanziamenti è diventato serio anche lì. Per avere un posto permanente non basta il curriculum scientifico, il docente deve anche essere capace di attirare fondi. Se una persona è capace di attirarli con il sistema dei grants, è facilitata rispetto a una persona superiore scientificamente. Ma il sistema di ricerca negli Usa è talmente articolato che può assorbire problemi di questo tipo per lungo tempo.
Si dice che il filosofo greco Platone avesse messo fuori dalla sua accademia un cartello con su scritto: "Non entri chi non conosce la geometria". La matematica è ancora oggi utilizzata come strumento per comprendere il mondo?
La matematica è sicuramente il linguaggio della fisica, ovvero i fisici la usano come linguaggio. Si può parlare una lingua conoscendo poco la grammatica: questo è il modo in cui i fisici usano la matematica – preoccupandosi poco del rigore matematico – anche se gran parte della matematica è nata sotto l’impulso della fisica. Una storia racconta che un ambasciatore aveva chiesto a Federico di Prussia, come si comportava quando voleva conquistare una regione. Questo rispose “prima la conquisto, poi mando i miei giuristi a spiegare perché era giusto che la conquistassi”. Così i fisici usano la matematica, in maniera a volte arbitraria, mentre i matematici talvolta sono come i giuristi, che sistemano il rigore delle dimostrazioni, ma naturalmente fanno ben altro. Dagli anni ‘70 molta matematica introdotta dai fisici ha stimolato settori di ricerca importanti in matematica. Molti matematici sono platonici ancora oggi e credono che la matematica si scopra, io invece ritengo che la si inventi come qualunque altra lingua. Come le lingue evolve, cambia. La matematica si fonda sulla logica, che è qualcosa che usiamo nella vita quotidiana. Ho fatto anche lavori di matematica con molto piacere.
Significa che il modo di fare matematica cambia a seconda del Paese e della società?
Ad esempio il modo di fare matematica nella tradizione russa e poi sovietica, è stato molto diverso rispetto a come esso si è sviluppato in occidente. Per esempio la teoria delle probabilità si è sviluppata in epoca moderna in larga misura in Unione Sovietica, perché dietro c’era l’ideologia della programmazione, dei servizi di massa. Una delle scuole matematiche che c’è stata in occidente in Francia è il Bourbakismo, secondo cui la dimostrazione di un teorema doveva essere ridotta a una successione di passi quasi ovvii. E’ stato fatto un parallelo tra questo modo di concepire la matematica e la catena di montaggio nell’industria. La scienza ha sempre risentito della vita sociale in cui si è sviluppata.
Quando nel 1959 hai iniziato a collaborare con lo studioso giapponese Yoichiro Nambu cosa ha significato per te, in tempi molto antecedenti la globalizzazione, lavorare con una persona di una cultura tanto lontana?
Quando mi sono laureato, Herbert Anderson – un fisico di Chicago che era stato collaboratore di Fermi negli ultimi anni – stava tenendo a La Sapienza un corso di fisica delle particelle. Avevo contribuito a preparare gli appunti del corso e alla fine mi aveva proposto di andare a Chicago. Contemporaneamente era passato a fare un seminario Yoichiro Nambu, che lavorava alla stessa università. Così ho risposto ad Anderson: “Vengo, ma voglio lavorare con Nambu”. Sono stato a Chicago dal settembre ‘59 al dicembre ‘60. Con Nambu eravamo come gusti e mentalità affini, anche se lui veniva dalla tradizione giapponese. Andavamo entrambi per associazioni di idee. I fisici americani erano più pragmatici.
Il titolo della lecture per il Nobel che hai tenuto a Stoccolma in nome di Yoichiro Nambu definisce il concetto di “rottura spontanea della simmetria” – che è stato espresso nel modello Nambu-Jona Lasinio – un caso di "fertilizzazione incrociata" indicando una interazione fruttuosa di diverse branche della fisica. È una metodologia, quella della contaminazione, usata nella ricerca?
Ho scelto quel titolo per descrivere il lavoro svolto con Nambu. La “cross fertilization” non è una metodologia, ma dipende principalmente dalla cultura del singolo, dalla propensione a fare accostamenti. Ci sono stati casi di “cross fertilization” anche in passato. Ad esempio il fisico Maxwell ha proposto le equazioni delle onde elettromagnetiche usando analogie con la meccanica. Attualmente è più difficile l’individuazione di analogie tra due diversi ambiti di lavoro perché i fisici sono estremamente specializzati e più raramente si mette il naso in qualcosa che sta a fianco. Il modello “Nambu-Jona Lasinio” è nato da un’analogia, da un accostamento di due cose completamente diverse. Io venivo dall’Italia e avevo una preparazione solamente di fisica delle particelle, mentre lui in Giappone era stato esposto anche alla fisica della materia macroscopica, quella che incontriamo nella vita di tutti i giorni. L’accostamento è venuto da un’analogia matematica tra due cose, che poteva però essere solo una coincidenza.
Invece è stato alla base della ricerca attraverso cui è stato individuato il bosone di Higgs
Ricordo che nel ‘66 sentii un seminario di Peter Higgs in cui lui raccontò che era partito dal nostro lavoro. Il famoso bosone porta il nome di Higgs ma altri fisici hanno contribuito alla teoria che ne ha fatto un elemento importante del cosiddetto Modello Standard delle particelle. Il problema che c’è dietro è spiegare le masse delle particelle elementari che con il Bosone di Higgs ha preso una forma più definita ma è tuttora non risolto. Nel modo in cui è stato presentato al pubblico ci sono degli aspetti propagandistici: oggi esiste la scienza spettacolo.
C’è un legame tra fisica e filosofia oggi?
Oggi la fisica è molto meno impregnata di filosofia rispetto al passato. Anche se dietro la fisica c’è molta metafisica, a cominciare dall’ipotesi che esista un mondo reale esterno di cui possiamo fare una descrizione. Però non è una metafisica sistematica. Ci sono sempre elementi metafisici nell’attività scientifica, ma è stato perso l’aspetto sistematico della filosofia. E’ un rapporto più complicato, ci sono molte curiosità reciproche ma nulla di sistematico. Anche perché neanche la filosofia ha più pretese sistematiche.
Su cosa si concentra la tua attività di ricerca oggi?
Io mi sono occupato di fisica di sistemi fuori dall’equilibrio e in questi anni abbiamo fatto progressi abbastanza importanti con il mio piccolo gruppo di cinque ricercatori, di cui tre sono stati miei studenti. La fisica del non equilibrio coinvolge scale di grandezza e di tempo diverse, dall’evoluzione dell’universo alla microfisica. E’ un settore della fisica che investe molti ambiti, dai fenomeni climatici, ai terremoti, all’elettronica delle nanotecnologie. E poi la biofisica, i processi negli esseri viventi.
Vi sono ricadute nella comprensione dei fenomeni climatici e nell’elaborazione di modelli di sviluppo sostenibili?
I fatti climatici sono tipicamente fenomeni di “non equilibrio” e ci sono fisici dell’atmosfera che usano queste idee che abbiamo introdotto. C‘è un legame complesso tra la ricerca di base e quella applicata, sono studi che dovrebbero avere un impatto sia su problemi di controllo di fatti climatici, sia in generale sui problemi energetici. Perché quando si è fuori dall’equilibrio c’è sempre un flusso di energia attraverso un sistema, che è quello che differenzia l’equilibrio dal non equilibrio. Per questo, sia l’Ente per l’energia americano, sia l’Accademia delle Scienze Americana, hanno indicato la fisica fuori dall’equilibrio tra le grandi sfide della scienza per il futuro.
Hai studiato la casualità nei fenomeni fisici. Come spiegheresti il fatto che in un universo così legato al caso sia potuta nascere la vita?
Per quanto ne sappiamo la nascita della vita è un fenomeno avvenuto una volta sola nella storia della terra. Quindi esula dall’abituale metodologia della fisica che si riferisce a fenomeni ripetibili indefinitamente. Tuttavia anche la materia vivente è costituita da atomi e molecole che seguono leggi che riteniamo stabili e universali. La domanda ha quindi un senso e il problema è stato affrontato, ma per il momento è ben lontano da una soluzione condivisa.
© Riproduzione riservata