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Opinioni

La fiducia apparente

I "mercati" e la Banca centrale europea sembrano apprezzare le mosse del governo Monti. Tuttavia, scrive Alessandro Volpi, autore del libro "Sommersi dal debito", "la scelta di far esplodere la liquidità per coprire il debito pubblico partorisce il pericolo di nuove bolle finanziarie"

La rapida discesa dei rendimenti dei Bot semestrali, crollati all’1,2 per cento, rappresenta l’ulteriore conferma del fatto che il governo Monti sta riconquistando uno dei beni più preziosi di cui i mercati hanno bisogno, costituito dalla fiducia. 
Sono due settimane che la Bce non deve più acquistare titoli del debito italiano, i compratori esteri sono tornati a farsi vivi e le banche del nostro Paese non esitano a mettere nei Bot e nei Btp la liquidità ricevuta dall’Istituto di Francoforte e dai risparmiatori. 
Solo quattro mesi fa tutto ciò sarebbe parso impossibile: i Bot pagavano il 6,5%, dissanguando le risorse pubbliche in conto interessi, la Bce acquistava titoli italiani per 20-30 miliardi di euro la settimana per evitare l’insolvenza e i compratori del nostro debito, italiani ed esteri, erano spariti dalla circolazione tanto da indurre alcuni “coraggiosi” a lanciare appelli per impiegare le risorse dei risparmiatori italiani nel pericolante debito nostrano. 
Ciò significa, cioè, che i professori stanno svolgendo bene la parte più consistente dei compiti che l’Unione europea e i “mercati” avevano affidato loro per scongiurare il tracollo finale del Paese. Tutto bene quindi? In realtà sull’azione del governo Monti pesano numerose incognite che continuano a minacciare l’uscita dalla crisi. In primo luogo, l’economia italiana non riesce ancora a risolvere alcuni dei nodi cruciali che la angustiano ormai da tempo, rappresentati dalla sostanziale incapacità di generare buona occupazione e dal deficit di produttività. Rispetto a tali elementi decisivi, esiste un rischio che promana, quasi paradossalmente, proprio dalle soluzioni individuate per fronteggiare le criticità del debito pubblico. Le banche centrali, a partire dalla Bce, hanno avviato una politica monetaria, convenzionale e non convenzionale, di forte aumento della liquidità, prestando denaro agli istituti di credito a tassi pressoché negativi, di fatto gratis. Questa enorme massa di denaro, in parte destinata all’acquisto di titoli dei debiti sovrani, è stata in larga misura dirottata verso forme di impiego finanziario, a cominciare da quello bancario, con una rapido rilancio dei listini borsistici e, soprattutto, dell’attività di trading, con contorni spesso di matrice speculativa. Le attività finanziarie, in estrema sintesi, tornano ad essere particolarmente remunerative grazie alla liquidità facile, e dunque attraggono risorse che dovrebbero rivolgersi all’economia reale, in direzione dei sistemi produttivi, per creare nuova e migliore occupazione. 
Il pericolo concreto è che con il prelievo fiscale diffuso si alimentino i meccanismi dell’approvvigionamento bancario per sorreggere ancora una volta la finanziarizzazione. La Bce impone il necessario rigore dei conti pubblici per poter allentare la sua politica monetaria senza eccessivi rischi inflazionistici con l’effetto di spostare sulla finanza una liquidità capace nuovamente di drogarla. 
Le recenti dichiarazioni di Sergio Marchionne, che ha insistito sull’importanza dei risultati di Fiat in termini finanziari, riassumono per molti versi la tendenza a subordinare le strategie e le localizzazioni produttive al rapporto cruciale fra debito finanziario, oneri finanziari e remunerazione degli azionisti. È chiaro che in una simile prospettiva il tema della creazione di posti di lavoro è subordinato a variabili più generali molto dipendenti dagli strumenti e dalle condizioni della finanza: bassi tassi e una gestione del debito “agevolata” dall’ingegneria finanziaria possono suggerire soluzioni più remunerative rispetto all’impegno concreto sul campo della produzione e dell’occupazione. In questo senso la crisi partita nel 2007 non ha portato con sé forme di regolazione e modelli di mercato differenti rispetto a quello che aveva scatenato la crisi stessa, ed anzi la scelta di far esplodere la liquidità per coprire il debito pubblico partorisce il pericolo di nuove bolle finanziarie. 
Inoltre, lo stesso meccanismo di collocamento dei debiti sovrani e di “salvataggio” dei Paesi in difficoltà sta convogliando verso questa particolare fattispecie di titoli enormi risorse, pubbliche e private, di fatto sottratte ad altre forme di investimento. 
In un Paese come l’Italia, dove il prelievo fiscale sta raggiungendo il 45% del Pil e grava in larga parte sui redditi da lavoro dipendente e sull’attività di impresa, il pericoloso fascino dell’investimento finanziario, di cui pare cadere vittima spesso il sistema bancario, può costituire una ipoteca pesante sulla capacità di uscire dalla crisi.

* Università di Pisa

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