La dittatura del mattone – Ae 85
I Comuni hanno abbandonato l’idea di pianificazione urbanistica. Sacrificando l’interesse collettivo alla speculazione privata Pier Luigi Cervellati fatica a nascondere l’indignazione: dice che l’Italia aveva “le più belle città del mondo” e che le ha lasciate in mano alla speculazione,…
I Comuni hanno abbandonato l’idea di pianificazione urbanistica. Sacrificando l’interesse collettivo alla speculazione privata
Pier Luigi Cervellati fatica a nascondere l’indignazione: dice che l’Italia aveva “le più belle città del mondo” e che le ha lasciate in mano alla speculazione, affidando tutto al mercato. “Siamo alla catastrofe, a Bologna come nelle altre città italiane, e non so come potremo cambiare rotta”. Cervellati è uno dei più noti architetti italiani e a Bologna è stato assessore all’Urbanistica in un periodo chiave per lo sviluppo della città, fra il 1964 e il 1980, dall’ultima giunta di Giuseppe Dozza, il popolarissimo sindaco eletto dopo la Liberazione, e il secondo dei tre mandati di Renato Zangheri. Per definire il suo profilo intellettuale e di uomo pubblico, potremmo utilizzare il titolo di un suo libro: “La cura della città”.
Professor Cervellati, che cos’è che non le piace del piano di “valorizzazione” delle caserme?
In questo progetto ci sono molte cose che non capisco, ma la questione centrale è che fa parte di una storia partita da lontano e che ha condotto alla totale abdicazione del pubblico, alla rinuncia ad ogni idea di pianificazione. In Italia abbiamo una legge urbanistica che risale al 1942, poi delle leggi di riforma sulla casa e sugli standard urbanistici, ma non c’è ancora una legge che disciplini il regime dei suoli.
Se avessimo una legge simile a quelle esistenti in altri Paesi europei, l’edificazione del suolo sarebbe un intervento di carattere pubblico, per cui è sempre l’ente locale a decidere che cosa fare e che cosa non fare, è lui che realizza le opere di urbanizzazione e solo in una seconda fase c’è spazio per l’intervento dei privati.
Gli amministratori oggi dicono di non avere risorse per interventi importanti sulle aree pubbliche e perciò cercano alleanze con i privati.
La storia delle risorse che non ci sono, non mi convince. E i soldi dell’Ici? Perché non si usano per la cura della città? La verità è che si è abbandonata l’idea della pianificazione e della preminenza dell’interesse collettivo su quelli privati. In assenza di leggi precise, è passato il principio dei piani strutturali regionali, sotto l’influenza negativa dell’Istituto nazionale di urbanistica, che ha fatto da mallevadore all’espansione incontrollata che vediamo dappertutto.
Si è introdotto artatamente il principio della perequazione, che è l’antitesi della pianificazione: in sostanza è il privato che decide, sui suoi terreni, di costruire villette o altri immobili, e in cambio dà al pubblico altri terreni o una strada o qualcos’altro, ma che non c’entra nulla con le esigenze effettive della città. Questo è possibile grazie ai piani strutturali regionali, che definiscono quote e standard di edificabilità del tutto inventati, senza relazione con gli effettivi bisogni della comunità. L’obiettivo è costruire, costruire, costruire. È quanto sta avvenendo in tutta Italia.
Il piano riguardante la caserme riflette questa logica?
Il primo a progettare la dismissione del patrimonio militare fu il ministro della Difesa Andreatta, a metà degli anni Novanta. In moltissimi Comuni erano stati fissati degli standard urbanistici anche sulle aree demaniali e Andreatta pensò di cedere le caserme inutilizzate offrendo un diritto di prelazione ai Comuni, che dopo aver pagato lo Stato potevano rivendere ai privati, in modo da guadagnare qualcosa. È un modello oggi affinato e corretto ma siamo sempre nella logica della perequazione, per cui il privato ristruttura e affitta, con il Comune che magari si prende cura degli spazi verdi e così fa crescere il valore degli immobili privati. Ma qual è il guadagno per la collettività? Sarebbe già meglio se almeno si accettasse di ammettere questa sorta di speculazione, ma per destinare le risorse ottenute ad alloggi pubblici di cui ci sia veramente bisogno, per i giovani, per le famiglie a reddito basso e così via.
Quali sono gli effetti di questo modello di gestione urbanistica post-pianificazione?
Le statistiche dicono che dal 1995 a oggi in Italia si è costruito più che nei 50 anni precedenti. Rimettendo tutto al mercato, senza programmazione, a Bologna succede ad esempio che l’Università venda e acquisti immobili, che si allarghi, che richiami studenti da fuori, ma senza porsi il problema di avere spazi per ricevere questi studenti, affinché possano avere alloggi adeguati e a prezzi decenti, e spazi d’incontro utilizzabili. Poi ci si stupisce per le zone di degrado che invadono il centro. Ma come potrebbe essere altrimenti? Il risultato di questa speculazione, è che si costruiscono immobili che non servono alla collettività ma a consentire investimenti sicuri ai ceti medio-alti, e poi mancano le case a prezzi economici. Gli istituti per le case popolari sono stati azzerati e intanto i costi delle case salgono a dismisura. Nel centro di Bologna siamo ormai ai diecimila euro al metro quadro. In collina si arriva a 14 mila. In futuro, quando i vecchi residenti come me non ci saranno più, chi potrà permettersi spazi nel centro storico? Forse le banche, le grandi firme commerciali. Infatti stanno sparendo tutti i piccoli negozi.
Chi sono i responsabili di questo fenomeno?
Le normative regionali alle quali si è affidata la materia urbanistica, il battage a senso unico dell’Inu, un’insipienza professionale molto alta, una classe politica non proprio trasparente: tutto questo fa sì che l’assetto del territorio in Italia sia in mano al mercato. Siamo dominati dal mercato. I risparmiatori in Italia investono nel mattone, così si costruiscono sempre nuove case a prescindere dai bisogni e i valori degli immobili sono sempre altissimi.
Qual era il contesto che negli anni sessanta e settanta rendeva possibile la pianificazione?
L’obiettivo per noi qui a Bologna era dimostrare, sull’esempio di quanto avveniva nei Paesi socialdemocratici europei – dalla Svezia, all’Olanda, alla stessa Germania occidentale, tutte nazioni in cui il territorio è considerato un bene preziosissimo – che i privati possono intervenire ma sulla base di quello che dice il pubblico. Questo comportava che si costruisse solo per fare fronte a bisogni reali, nell’ambito di una serie e precisa pianificazione. Ogni volta che veniva decisa la costruzione di nuove case e nuove strade, dovevamo giustificare la scelta: ed era un periodo di espansione demografica, in cui la città cresceva. Ma non si costruiva tanto per costruire. Non era tutto perfetto, per carità. Ad esempio in quella fase, per realizzare i nostri progetti, abbiamo fatto fin troppo ricorso all’esproprio, che è un metodo non proprio adatto in una società capitalistica.
Oggi sarebbe possibile replicare qualcosa del genere?
Oggi sarebbe impensabile. Quale partito si farebbe portatore dell’idea della pianificazione, della prevalenza dell’interesse pubblico? Nessuno. Oggi
a parlare di queste cose si passa per nostalgici, per persone che vivono fuori dal tempo. O magari si pensa che quella degli anni sessanta a Bologna sia una stagione irripetibile, perché c’era un Pci molto forte e che voleva mostrare d’essere il più bravo di tutti. Ma qualcosa di simile avveniva a Brescia e lì c’era la Democrazia cristiana. E le municipalizzate erano probabilmente amministrate meglio a Brescia che qui. No, oggi viviamo un’altra dimensione, oggi è tutto un inno al mercato.
Pensa che qualcosa possa cambiare?
Sul futuro sono pessimista. Io credo che stiamo vivendo un’autentica catastrofe. Sulle vie d’uscita ci sono due ipotesi. Se stiamo alla teoria delle catastrofi, la discesa agli inferi può avere una funzione rigeneratrice. Ma non so quanto sia davvero applicabile, visto che stiamo parlando di uso e distruzione del territorio. L’altra possibilità, che credo irraggiungibile, è stabilire per legge una moratoria di almeno dieci anni durante i quali non si possa costruire nulla, se non per situazioni di emergenza, di effettivo bisogno abitativo, e sempre che non vi siano soluzioni alternative. Forse dopo dieci anni di stop potremmo ripensare il futuro delle nostre città, che erano davvero le più belle del mondo.
L’edilizia sociale non paga
L’affitto non paga. Nonostante condizioni favorevoli -un’area di 22 mila metri quadrati di proprietà comunale messa a disposizione a un euro al metro quadro- a fine maggio nessun costruttore ha partecipato alla gara d’appalto indetta dal Comune di Bologna per la realizzazione di 300 alloggi nell’ex mercato ortofrutticolo
di via Fioravanti, nel popolare quartiere Navile. Il piano di utilizzo degli spazi è stato elaborato dal Comune nell’ambito di un laboratorio di ri-progettazione partecipata (“Laboratorio mercato”), che per due anni ha coinvolto nelle sue attività i cittadini del quartiere, che hanno chiesto -tra l’altro- case in affitto a “canone concordato”. Secondo Carmine Preziosi, direttore del Collegio dei costruttori, alla condizioni del bando non c’erano margini di profitto: solo il 30% degli alloggi, infatti, poteva essere venduto; per gli altri, il bando di gara prevedeva l’affitto a canone concordato per 40 anni (a 350 euro per i piccoli appartamenti da 40-50 metri quadrati e 5-600 euro per quelli di 90 metri). L’edilizia sociale è un problema per Bologna, città che ospita 60 mila lavoratori e 40 mila studenti fuori sede (questi hanno a disposizione 1.500 posti letto tra ostelli e studentati). In città ci sono anche 600 alloggi Erp (Edilizia residenziale pubblica) che attendono la ristrutturazione per essere poi assegnati. Tutte le info sul laboratorio di quartiere su: www.comune.bologna.it/laboratoriomercato (sopra una riproduzione dell’area “com’è stata immaginata”)