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Opinioni

La debole ripresa, tra vincoli europei e buone pratiche

L’avviata ripresa dei consumi e degli investimenti -stando all’Istat- deve essere consolidata utilizzando la strada maestra della riforma fiscale, che significa non solo riduzione del carico fiscale ma, soprattutto, maggiore progressività e maggiore “premialità” del sistema dei tributi. Il commento del professor Alessandro Volpi

I recenti dati Istat certificano l’avvio di una ripresa, almeno parziale, dell’economia italiana, registrando una crescita del Pil dell’0,8%, una percentuale inferiore a quella di Inghilterra, Germania e Francia, ma comunque in grado di invertire la rotta seguita dal nostro paese nei tre anni passati, quando la recessione è stata di quasi il 5%. Nello spingere la “ripresina” ha svolto un ruolo significativo la ricomparsa della spesa delle famiglie residenti che ha contribuito alla crescita del Pil per una percentuale pari allo 0,5, a fronte di un calo della domanda estera e degli investimenti pubblici.

A questa spinta si è unita quella degli investimenti fissi lordi del settore privato che hanno ricominciato a crescere dopo ben otto anni di pesante riduzione. Si tratta di due elementi fondamentali in una fase di preoccupante deflazione, di caduta dei prezzi, in larga misura dipendente dalla contrazione dei consumi che potrebbe generare conseguenze pesanti anche per i conti pubblici; una discesa dei prezzi di un punto percentuale è in grado di determinare infatti un peggioramento del rapporto tra deficit e Pil di 1,5 punti, che condannerebbe immediatamente l’Italia alla procedura d’infrazione. Dunque la ripresa dei consumi e degli investimenti deve essere consolidata utilizzando la strada maestra della riforma fiscale, che significa non solo riduzione del carico fiscale ma, soprattutto, maggiore progressività e maggiore “premialità” del sistema dei tributi. Il governo ha previsto la possibilità di un taglio dell’Ires di 2,9 miliardi a partire dal 2017 e una riduzione dell’Irpef dal 2018; in altre parole, meno tasse su imprese e famiglie. Sarebbe molto opportuno però che, proprio in presenza di una deflazione così galoppante, l’intervento sul prelievo fiscale fosse anticipato e ancora più consistente. Per centrare questi due obiettivi è necessario misurarsi con i vincoli europei che rischiano invece di far schizzare verso l’alto proprio la pressione delle tasse. Senza una modifica delle regole europee, l’obiettivo imposto all’Italia è quello di abbattere il rapporto fra deficit e Pil all’1,1%, una condizione, come detto, molto difficile da realizzare in presenza di deflazione.

Il governo italiano potrebbe ottenere, appellandosi a varie circostanze “eccezionali”, di limitare la riduzione del citato rapporto deficit-Pil al 2%, ma ciò gli consentirebbe soltanto di non dover applicare le onerose clausole di salvaguardia, dettate dell’Europa, che richiedono per rispettare il Patto di Stabilità un aumento dell’Iva pari a circa 15 miliardi, una mazzata definitiva per i consumi degli italiani. In questo senso, anche il migliore degli scenari sembra essere insufficiente al fine di varare lo stimolo fiscale necessario per una vera ripresa. Occorrono quindi maggiori spazi che dovrebbero consentire all’Italia di non essere schiacciata dal poco ragionevole Patto di Stabilità sia sul versante fiscale sia su quello degli investimenti pubblici. Rispetto alla praticabilità di questa ipotesi esercitano una funzione importante due fattori, uno decisamente positivo ed uno, invece, negativo. Il primo fattore è costituito dal saldo primario della finanza pubblica, dalla differenza fra entrate e uscite delle amministrazioni pubbliche al netto degli interessi, che dal 2011 è stabilmente positivo, attestandosi quest’anno all’1,5% del Pil. Il secondo è rappresentato dal peso dell’indebitamento pubblico che è salito anche nel 2015, arrivando al 132,6% del Pil italiano; un simile debito può determinare in qualsiasi momento un brusco rialzo dei tassi di interesse, che sono scesi, nonostante la crescita del debito primario, a 68,4 miliardi, grazie alle massicce iniezioni di liquidità da parte della Bce.

È chiaro che in presenza di un debito così ingombrante, la strategia più lineare sarebbe quella di utilizzare l’avanzo primario alla riduzione del debito stesso. Ma – questa è la domanda – in piena deflazione è davvero la strada migliore? Oppure sarebbe indispensabile avere la possibilità di allungare i tempi di realizzazione del pareggio di bilancio, derogando appunto ai vincoli ferrei dell’Europa? Così facendo si potrebbero utilizzare gli spazi di manovra liberati per attuare una riforma fiscale capace di ridurre davvero la pressione sulle fasce medio basse della popolazione, facendo ripartire una domanda diffusa di beni e di servizi, accompagnata da un programma di investimenti pubblici in grado di alimentare la ripresa dell’occupazione in un paese dove gli occupati nella fascia tra i 15 e i 64 anni sono ancora il 56,8% del totale della popolazione di riferimento.

* Università di Pisa

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