Ambiente / Reportage
La conquista dell’Artico
Oltre il circolo polare, dove la geopolitica scivola sul ghiaccio. E gli equilibri sono a rischio, tra riserve di gas e nuove rotte commerciali che mettono a rischio la sopravvivenza e i costumi dei Nenets, tribù nomadi che abitano i territori estremi russi
È facile scivolare sul ghiaccio dell’Artico, ora che la sua calotta si sbriciola come un grissino e in estate finisce per ridursi ad appena 11 milioni di chilometri quadrati. Un quarto della superficie ancora visibile alla metà degli anni Settanta. Ben più arduo è invece rimettersi in piedi, o portare a casa la pelle; perché lungo la tratta ferroviaria Bovanenkovo-Obskaya, nel cuore strategico dei territori estremi russi, può capitare che un compagno di cuccetta si riveli un astuto agente dei servizi di controspionaggio russi, cui inavvertitamente potresti aver confessato perplessità sull’apertura della nuova Northern Sea Route, o peggio ancora, fatto cenno a quanto stia accadendo nella penisola di Yamal. “Quel nome significa semplicemente ‘la fine del mondo’ per noi nativi, ma sono almeno 13mila i Nenets che la abitano” osserva Yuri, come l’uomo dice di chiamarsi, indicando sulla mappa della cuccetta una lingua di terra proiettata oltre il circolo polare. Nulla aggiunge del loro allarme per la scomparsa del ghiaccio marino entro il 2030 -stando all’ultima denuncia della comunità scientifica- né del loro interesse circa il progetto del Consorzio per la protezione dell’ambiente marino dell’Atlantico nordorientale, favorevole a un santuario internazionale esteso sul 10% del Mar Glaciale Artico.
Lo vedi solo sorridere dietro i suoi sottili occhi da nomade della tundra, con una mano callosa sotto il mento quadrato e i capelli corvini tutti arruffati, mentre disegna ghirigori su un’agendina celata dietro una tazza di tè. Dice di essere un buon padre di famiglia. Ha l’aspetto di un infaticabile allevatore di renne. Quasi si scioglie, Yuri, parlando dei cuccioli nati dalla fida Tunguska, il cane di razza samoiedo che è al suo fianco. Saresti addirittura pronto a scommettere che sia uno dei tanti “zii” di Jenia: il campione della cattura al lazo dell’accampamento 7, costretto a emigrare verso il Polo per salvare le sue mandrie. Vittime incaute del treno più a Nord del mondo. “Per fortuna trovare bacche è diventato più facile oggi” aveva ammesso il giovane Nenets proprio prima di smontare la sua mya, la tenda tradizionale sotto cui brucia sempre un groviglio di licheni aromatici ed è immancabilmente servita una ciotola di asprissime maroshka. “Riusciamo a conservarne una parte anche per il periodo invernale. Persino la fioritura dura molto di più e ora abbiamo integrato la nostra dieta con alcune specie commestibili. Per noi Nenets, mangiare foche crude o bere sangue di renna è spesso una necessità; ma gli orsi hanno iniziato ad avvicinarsi maggiormente, costretti a nuotare sin qui per procurarsi il cibo scomparso insieme al pack. Talvolta finiamo così per avere carne in eccesso. Certo non aiuterà a levarci di dosso l’onta di cannibali del Nord, ma i rapporti con gli accampamenti vicini sono diventati più saldi”. Fra i laghi e gli acquitrini di Bovanenkovo -uno dei maggiori giacimenti di gas al mondo, dalla capacità di oltre 360 miliardi di metri cubi all’anno- tutti sono in qualche modo parenti. Basta gettare ossicini al vento per sapere se sei uno spirito malvagio o un fratello.
Ma il candore dell’uomo che dice di chiamarsi Yuri non è lo stesso della neve che già da settembre imbianca le mya accampate, e quelli tracciati sui fogli non sono ghirigori bensì note, pesanti come macigni per chi scrive: meticolosi capi d’accusa che, una volta abbandonata la carrozza al capolinea di Obskaya, non faranno affatto menzione dei rubli guadagnati dalla vendita del miglior maschio di renna al mercato di Nadym, né ricapitoleranno le scorte di zucchero da barattare con gli operai di Gazprom, che nel 2012 ha inaugurato la ferrovia di 500 chilometri diretta proprio al cuore di Yamal. Tracceranno invece il profilo di un visitatore alquanto sospetto, presumibilmente italiano, o ancor peggio tedesco sotto mentite spoglie, che si muove senza autorizzazione nella più insidiosa appendice di tutte le Russie.
“Ogni volta è così -sbotta il capotreno col suo collega, portando via i passaporti-: a Mosca assicurano che si può salire liberamente oltre il Circolo polare; poi arrivi qui, duemila chilometri più a Nord, e i doganieri di Salekhard cedono solo perché felici di vedere un volto nuovo; ma nulla va preso alla leggera, in Artico! Il pack si spezza all’improvviso. Un passo di troppo e sei fregato”.
Oltre l’invisibile confine che divide l’Artico degli uomini da quello degli orsi, o meglio le terre continentali dalle distese di iceberg galleggianti, c’è sempre un buon motivo per tenere lontani i nasi lunghi.
Ma se in Canada, in Groenlandia, o in Finlandia lasciano l’obbligo di dissuadere a previsioni meteo irrimediabilmente catastrofiche, suggerendo tutt’al più di non andare dietro l’ultimo abete nano -“perché i soldati della Nato sono impegnati in un’esercitazione”-, in Russia si è più spicci e meno ipocriti: arriva una Uaz alla prima stazione utile, la portiera si spalanca e con molto garbo lo sbadato visitatore viene condotto in una di quelle caserme dimesse che calzerebbero a pennello a Tiksi, ultimo avamposto della freddissima repubblica di Sacha, proprio come fra le polverose strade uzbeke di Samarcanda. Poi il momento della verità: sotto gli occhi compare il temuto e leggendario protokol. Inutile guardarsi attorno, in cerca di un consiglio: alle pareti, i ritratti di Dzeržinskij, Andropov e Putin osservano glaciali. Telefonare all’ambasciata può essere piuttosto imbarazzante: “Scusi… riesce a parlare più forte?! Qui c’è un rumore assordante oggi! Dove ha detto che si trova? No, no…non ne ho la minima idea. Aspetti, vado a cercare un atlante”.
Clic. La chiamata s’interrompe. Linea caduta? Linea interrotta? In ogni caso, il tempo è scaduto. O si firma il protokol, qualunque cosa esso sia, o sarà difficile rivedere una renna per il resto della vita. Se tutto va bene, si rimedia un provvedimento d’espulsione regionale o federale, con una pacca sulla spalla e un bonario rimbrotto a non sfidare più la sorte. Agli sbadati di Mosca, penseranno loro. Insomma, gli amici dell’Fsb. Eccolo di nuovo, il Leviathan: oscura presenza di un potere assoluto e sovrano che l’omonimo film del regista russo Andrej Zvjaginev ha non casualmente scelto di far risorgere a Teriberka, in vetta alla penisola di Kola. Sembra incredibile che persino fra baracche ubriacate dal gelo e relitti arrugginiti d’epoca sovietica possano oggi aprirsi campi di battaglia decisivi per le sorti del mondo, ma le rivendicazioni di Total, Statoil e Gazprom hanno qui una ragione apparentemente plausibile: i giacimenti al largo della costa sono in grado di coprire da soli il 2% del fabbisogno energetico mondiale, pari a 3,9 miliardi di metri cubi di gas e 56 milioni di tonnellate di gas liquido all’anno. “Cimitero di navi siamo -commenta amaro Viktor, ex dipendente della fabbrica di pesce locale-, cimitero di navi rimarremo. È dal 1988 che qui vengono messi sul tavolo grandi progetti, ma né le compagnie energetiche, né le nostre tasche hanno mai visto rubli sonanti: speriamo nel turismo di quanti amano i villaggi dimenticati da Dio”. Per quanto l’economia mondiale stia dimostrando che i 21,5 miliardi di tonnellate di petrolio sepolti sotto il Mar di Kara e di Barents non siano affatto necessari al mercato globale, tenuto conto della netta virata verso le energie rinnovabili, l’abbondanza d’idrocarburi continua a generare ossessioni da antico Eldorado. Eppure le tempeste sono diventate estremamente violente e dannose per le piattaforme d’estrazione, mentre le dimensioni sempre più titaniche degli iceberg minacciano impatti devastanti: è stato lanciato anche un sito per monitorare le trasformazioni del permafrost (http://gtnp.arcticportal.org).
Dagli abitanti polari, però, nessun segno di cedimento: “Il Cremlino ha istituito la cosiddetta Raipon, l’associazione russa dei popoli indigeni del nord -spiega Anna Nerkagi, la poetessa Nenets che gestisce una scuola di cultura indigena nella fattoria di Laborovaja-, grazie alla quale si cerca di mediare i diritti di sfruttamento della terra e dei mari, così come i progetti di rilocazione delle comunità: in circa 30 anni abbiamo registrato un calo del 10% del nomadismo tradizionale, ma è raro che i proventi dello sfruttamento ambientale consentano poi un reale riadattamento delle proprie abitudini di vita. Ecco perché sorgono centri culturali simili al nostro, o si realizzano docufilm divulgativi come ‘Yaptik-hasse’, di Edgar Bartenev. Il governo, in ogni caso, è attento: oltre ad aver avviato un piano di rimozione degli scarichi industriali negli insediamenti più remoti, nel 2012 ha messo sotto protezione ben 201mila ettari della penisola di Onega, nel dipartimento di Arkhangelsk, mentre altri 15mila, inclusa la quasi completa superficie delle Isole di Francesco Giuseppe, sono ora riconosciuti come riserva naturale nella parte Nord dell’arcipelago di Novaja Zemlya. Un ex poligono nucleare”.
A furia di spendere senza ritorni, qualcuno sta aprendo gli occhi anche in Occidente: “Ogni volta che guardiamo alle opportunità nell’Artico -ha dichiarato Kenneth Medlock III, direttore americano del Center for Energy Studies alla Rice University di Houston- ci accorgiamo che queste sono immancabilmente dieci anni più in là di quanto si possa auspicare”. Ancor più disincantate le parole di Patrick Pouyanné, presidente di Total: “Da un punto di vista economico, non sono sicuro che il prosieguo dei progetti off-shore nell’Artico sia molto razionale”. Nel dicembre del 2015 Chevron ha infine accantonato l’esplorazione del Mar di Beaufort in Canada, seguita sei mesi dopo anche dal tandem ExxonMobil e BP.
Bisogna spostarsi sotto le gru e le colossali statue in cemento armato di Murmansk, per capire cosa stia davvero accadendo in Artico: là dove le acque non ghiacciano mai grazie all’arrivo della Corrente del Golfo, nel porto polare più grande del mondo, nuovissimi rompighiaccio russi si succedono a navi da crociera e impressionanti cargo. Quasi sempre solcati da ideogrammi cinesi. Dal 2012 la North Sea Route è praticamente realtà e la conferma viene direttamente da Marina Kovtun, governatore del dipartimento di Murmansk. “Sognata da Hugh Willounghby e Willem Barents sin dal 1553, percorsa per intero solo nel 1878 dalla nave svedese Vega, su cui militava anche l’esploratore italiano Giacomo Bove, l’antica rotta per le Isole delle Spezie non ghiaccia più. O almeno, non nel modo devastante per cui nei secoli si è fatta temere. In appena sette giorni di navigazione contro le tre settimane via Suez, a una media di 12,5 nodi (circa 23 chilometri all’ora), si arriva sino a capo Dezhnev, dove le estreme acque del Pacifico lambiscono l’ultima punta del continente asiatico”. È un’autostrada tanto pericolosa quanto di lusso, lungo la quale incrociano cargo capaci di trasportare complessivamente dai 3 ai 5 milioni di tonnellate di merce, ma la crisi petrolifera e l’eccessivo interesse cinese hanno spinto la Russia a dichiararla solo una “via privilegiata per il mercato interno”. Piano piano le stazioni artiche vengono però tirate a lucido: all’inizio è toccato a Naryan Mar, Dudinka ed Anadyr in Chukotka, ora anche ad Arkhangelsk, alla sinistra Vorkutà dei gulag, a Nadym e Tiksi.
Se la Cina già volge gli occhi sulle rotte dell’Antartide, dove ha in costruzione una sua quinta base di ricerca e nuove stazioni satellitari, oltre ad aver lanciato un efficiente servizio di supporto aereo, per Canada, Stati Uniti e Germania la sfida ai poli si sta rivelando uno scacco. La contromossa potrebbe essere però devastante: lanciare una rotta ovest-est che tagli direttamente il Polo Nord, abbassando a 15 i 23 giorni oggi richiesti dalla Northern Sea Route per l’Estremo Oriente, in modo da risparmiare un ulteriore 30% di tempo. A differenza della Russia, che avrà in servizio 10 nuove unità rompighiaccio già entro il 2020, i colossi occidentali restano però a corto di mezzi adeguati, mentre i progetti attorno al Polo Nord o all’Antartide non fanno i conti con i contraddittori dati sull’effettivo e completo disfacimento delle calotte.
“Il clima della Terra è un tema complesso -spiega Chiara Montanari, ingegnere civile ed esperta in management estremo, con all’attivo già 5 missioni internazionali di ricerca in Antartide più volte guidate, fra cui quella del 2014 raccontata nel libro ‘Cronache dai ghiacci’-. Come tale non è spiegabile, né prevedibile, mediante un modello riduzionista. Questo non significa affatto che le ipotesi e le sperimentazioni in corso non debbano essere prese sul serio, ma restiamo sempre nel campo delle probabilità. Ad esempio, il progetto di perforazione del ghiaccio denominato EPICA ha riportato in superficie una stratificazione di 3.270 metri accumulatasi in Antartide in 800mila anni. Gli studi su questo prezioso archivio storico dell’atmosfera terrestre raccontano le vicissitudini del clima di 8 cicli glaciali: risulterebbe che l’era interglaciale in cui stiamo vivendo (era in cui la temperatura globale si è mantenuta stabile, con variazioni non superiori ad 1 grado centigrado) dura da circa 12mila anni e sarebbe destinata a durare ancora a lungo (almeno altri 12mila) senza l’intervento umano. Tuttavia, per via delle emissioni di gas dovute anche all’uso dei combustibili fossili, stiamo assistendo a un aumento vertiginoso del livello di CO2 e degli altri gas serra, quasi raddoppiato nell’arco di soli cento anni. Paragonando la storia dell’andamento di queste concentrazioni, risulta evidente che ci troviamo in un momento di ‘singolarità’, ovvero un punto in cui la storia della terra ha fatto un salto. È molto difficile fare previsioni su cosa questo ‘salto’ comporti, ma gli scienziati temono che gli equilibri dinamici del clima possano assestarsi molto velocemente e drammaticamente su condizioni non più compatibili con la sopravvivenza della vita sulla Terra”. Per la scienziata italiana, che nel 2014 ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano, il dibattito sui cambiamenti climatici è trattato quasi sempre in modo demagogico, onde giustificare mere scelte politiche: il vero salto qualitativo nella comprensione del fenomeno avverrà solo nel momento in cui tutti i problemi della Terra, dal sovrappopolamento all’inadeguatezza del modello riduzionista e consumista, verranno considerati in modo correlato, secondo i principi della complessità alla base della sua prossima pubblicazione. Al tempo stesso, oltre che orientare la comunicazione mainstream sui grandi problemi della Terra, avrebbe grande importanza una maggior sensibilizzazione sull’ecologia come pratica quotidiana e scelta politica, in modo da responsabilizzare individui e comunità a prendere in mano il proprio futuro. “Stiamo giocando alla roulette russa con il clima. Così, per tentare di avere altre informazioni sulle ere passate e darci la possibilità di produrre nuove stime per il futuro, è stato avviato proprio quest’anno il nuovo progetto “Beyond EPICA”, nella zona tra Dome C e Dome Fuji, con l’obiettivo di estrarre una carota di ghiaccio risalente a un milione e mezzo di anni fa. Nel frattempo sarebbe auspicabile che l’Artico avesse una legislazione simile all’Antartide, sotto tutela internazionale dal 1961 grazie a un accordo ratificato a oggi da 46 Stati e rafforzato dal Protocollo di protezione ambientale del 1991”.
Se si fosse lettori accaniti della glaciologa norvegese Monika Kristensen, gli intrighi bellici e politici descritti in “Operazione Fritham” non lascerebbero dubbi sul fatto che l’Artico abbia pagato nei secoli la sua maggior vicinanza alle potenze geopolitiche mondiali. Dall’altra, però, sono proprio le isole Svalbard -protagoniste del romanzo- a lasciar accesa la speranza verso un’effettiva svolta. Sono infatti le uniche nell’area artica a godere dei vantaggi di un trattato internazionale del 1920: documento ben diverso dalle forme di tutela per l’Antartide, dal momento che sancisce la sola sovranità norvegese, anziché la sospensione delle rivendicazioni politiche sull’arcipelago, lasciando aperta la possibilità di sfruttamento economico da parte delle potenze sottoscrittrici l’accordo. A distanza di un secolo, è da qui che potrà essere davvero avviata una “normalizzazione” delle relazioni ai vertici dell’emisfero boreale. O, se è vero che la Cina sta investendo in Antartide con l’intento di reclamarne i 200 miliardi di potenziali barili nel fatidico 2048, anno di scadenza del Trattato, sarà forse, e solo, l’inizio della fine.
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