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Approfondimento

Ivan, il titano. Ivan, l’amico

Illich nel ricordo di chi lo conobbe: un uomo capace di prevedere i guasti dell’economia e la necessità di convivialità tra persone e ambiente

Tratto da Altreconomia 144 — Dicembre 2012

“Ivan Illich? E chi è costui, per essere paragonato a un titano?”. Questo è solo il titolo di un libro scritto due anni dopo la sua morte: El otro titan: Iván Illich. Illich conquistò grande notorietà negli anni 60 e 70 con alcuni “libelli eretici”: Rovesciare le istituzioni (il titolo originale era però Celebrazione della consapevolezza, che in Francia divenne Liberare il futuro…), Descolarizzare la società, Nemesi Medica, Energia e Equità… In essi venivano messi in discussione alcuni pilastri del dogma sociale: lo “sviluppo”, nuovo strumento di conquista culturale ed economica, la scuola che non fa apprendere, gli ospedali che ammalano, l’auto che nelle grandi città non trasporta.
È nella sua vita e nel suo pensiero, fra loro estremamente coerenti, che appare l’Ivan titano: in un’epoca di epici conflitti politici e ideologici fra due blocchi politico-militari e due correnti di pensiero totalizzanti, il “liberalismo” e il “marxismo”, egli non esitò a contrapporsi ad entrambi: “Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa…”: l’iperindustrializzazione, la tecnologia fuori controllo, la produttività assunta come parametro di giudizio del lavoro. Ad essi contrapponeva quello che, semplificando molto, definirei la convivialità fra le persone e fra queste e l’ambiente naturale.
Poi, narrano gli amici, a partire dagli anni 80, l’Illich dei grandi dibattiti pubblici si trasformò, in Ivan l’amico, che proseguiva il suo impegno appassionato lontano dai clamori, attorno a una tavola conviviale in cui si praticava una ricerca disciplinata in un clima di reciproco rispetto ed amicizia. Egli era sempre più cosciente che il mondo si era incamminato sulla “cattiva strada”, che lo avrebbe condotto o al disastro irreparabile o a una grande crisi, potenzialmente rigeneratrice.
“‘Crisi’ infatti significa ‘cambiamento’ […] quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa”. Opportunità che si presenta a noi oggi, forse per l’ultima volta. Ed egli non si faceva illusioni perché “il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici […] Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari…”. Parole profetiche, scritte nel 1978.
Nella “Dichiarazione sul suolo” redatta con L. Hoinacki e S. Groeneveld, scrive: “Il discorso ecologico sul pianeta Terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo -la sua coltivazione e il nostro legame con esso- è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale. Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno”. Rileggiamo centellinando le parole: “Per virtù intendiamo…”: scopriamo un invito all’azione, plasmata dalla sapienza tradizionale, fortemente radicata nella propria comunità, orientata dal valore decisivo dell’esperienza. Una guida preziosa nel nostro mondo caotico di fantasie di grandezza e di improvvide improvvisazioni che imboccano distrattamente sentieri ignoti: l’energia atomica, la geoingegneria, la manipolazione della vita. Un conservatore quindi, esclamerà qualcuno affrettatamente. No, la sua è la “celebrazione della consapevolezza” per “liberare un avvenire” a misura d’uomo.
Titanico il compito assunto: “Intendo dimostrare questo: che i due terzi dell’umanità possono ancora evitare di passare per l’età industriale”. Ma il mondo prese un’altra strada. Illich, indomabile, non perse la speranza, questa “forza sociale” che è la risorsa di chi sta in basso e non cessa la lotta. Per condurla consapevolmente compose la sua “cassetta degli attrezzi”.
Nell’incontro dei Circoli di lettura di Illich, tenutosi a Cuernavaca (in Messico) nel 2007, a 5 anni dalla morte, J. Sicilia e J. Robert ammonirono: “Nei seminari e negli scritti di Illich si elaborarono concetti alcuni dei quali sono divenuti di dominio pubblico: la controproduttività, il monopolio radicale, la colonizzazione del settore informale, i valori vernacolari, per citarne solo alcuni, senza dimenticare il più importante. Il concetto stesso di ‘strumenti’. Si trattava di costituire una ‘cassetta di attrezzi intellettuali’ per i grandi dibattiti maturi di fine secolo”. Accingendomi a scrivere queste righe, nella posta della notte ho trovato l’anteprima del libro La hora de Iván Illich, che uscirà per il nuovo prossimo incontro di Cuernavaca. Nove degli autori sono vecchi frequentatori del “tavolo”: Gustavo Esteva, l’antico guerrigliero e militante partitico che con  Illich diventò l’“intellettuale de-professionalizzato” che anima l’Università della Terra di Oaxaca, ispirata all’antipedagogia illichiana; Jean Robert, il sofisticato storico dell’architettura; Theodor Shanin, il grande “epurato”, difensore del mondo contadino russo; Grimaldo Rengifo e Jorge Ishizawa, due grandi attori della riscoperta delle tecniche agricole e dei valori spirituali andini; Arturo Escobar, lo studioso critico dello sviluppo… Il decimo, immeritatamente, l’amico arrivato in ritardo, il sottoscritto.
Incontrai fortuitamente Ivan il 6 ottobre 2002 al seminario annuale de L’altrapagina, il cui organizzatore, Achille Rossi, suo vecchio amico, lo pregò di esaudire la richiesta che stavo per fargli: inaugurare l’anno sociale della Scuola per la Pace di Lucca.
Caro vecchio “stregone”, non ho pianto quando ho saputo della tua morte ma due lacrime mi sgorgano ora scrivendo queste righe. —

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