Ambiente / Inchiesta
Rifiuti, più virtuosi nella raccolta differenziata (ma con l’aiutino governativo), meno nel riciclo
L’Italia, con sette anni di ritardo, ha raggiunto e superato la soglia del 50% di raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Ma il nuovo metodo di calcolo della raccolta voluto dal Governo rischia di far fare un testacoda al Paese. Aggravando il ritardo rispetto agli “standard europei”. Ecco perché
“Queste linee guida nazionali sono funzionali a portare tutto il nostro Paese verso l’economia circolare, adeguandolo agli standard europei di differenziata e superando la realtà delle discariche in cui purtroppo va ancora gran parte dei rifiuti nazionali”. Era il 28 giugno 2016 quando il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti salutò con entusiasmo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un decreto che per la prima volta introduceva le “linee guida nazionali per un metodo di calcolo unico della raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati”. Un provvedimento previsto, da ultimo, dal “Collegato ambientale” di fine 2015 (legge 221/2015). A poco più di un anno dalla promessa del Governo, l’Italia della raccolta differenziata che “viaggiava ancora a diverse velocità” (Galletti) rischia il testacoda. Ritrovandosi in ritardo con gli “standard europei” e molto distante da quell’economia circolare verso la quale si sarebbe dovuta dirigere.
52,5% la raccolta differenziata di rifiuti urbani media in Italia nel 2016. Nove Regioni sono sotto il 50%, tre sopra il 65%, obiettivo che era previsto per tutte entro il 2012
Per capirlo è necessario fare un passo indietro.Prima del decreto e delle “linee guida” ministeriali, nel nostro Paese, in tema di misurazione dei rifiuti urbani e andamento della raccolta differenziata regnava l’anarchia: ciascuna Regione faceva da sé, producendo una mole di dati disomogenei che venivano poi trasmessi all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), curatore del “Rapporto rifiuti urbani” su scala nazionale. Il “Rapporto” è una preziosa fotografia delle politiche sui rifiuti urbani e dell’andamento della raccolta differenziata nel Paese che l’ISPRA ha scattato fino al 2017 a soggetti sfocati. Per poterla sviluppare in modo coerente, i tecnici dell’Istituto hanno perciò confezionato un loro metodo di calcolo che è stato adottato sin dall’elaborazione dei dati relativi nel 1997. Una panoramica analitica che ogni anno si traduce in oltre 500 pagine ricche di dati, tendenze, bilanci, confronti, dalla Sicilia al Trentino-Alto Adige.
Nella primavera del 2016, però, accade qualcosa. Il “vecchio” metodo di calcolo elaborato dall’ISPRA e utilizzato per vent’anni per poter stilare il “Rapporto” viene messo in discussione. Il Governo non ha intenzione di farlo proprio: punta su uno “nuovo”. Al tavolo tecnico istituito presso il ministero dell’Ambiente per discutere la bozza di “linee guida”, però, non tutti sono d’accordo. L’Istituto -che è autorevolmente seduto a quel tavolo perché si occupa direttamente della misurazione della produzione di rifiuti urbani e della raccolta differenziata- esprime la propria contrarietà alla proposta dell’esecutivo. Le differenze sono rilevanti. Il ministero, ad esempio, vuole includere nel dato di raccolta alcuni flussi di rifiuti provenienti da interventi di costruzione e demolizione condotti presso civili abitazioni. Flussi che l’ISPRA ha sempre escluso dal computo dei rifiuti urbani perché la normativa (legge 152/2006) li classificava come “rifiuti speciali”.
O ancora: il “nuovo” metodo proposto dal Governo contabilizza nella differenziata la “quota di rifiuti da spazzamento stradale avviata a recupero”, cosa che l’ISPRA non ha mai fatto. Non è finita. Le “linee guida” ministeriali includerebbero nella differenziata l’intero ammontare della raccolta “multimateriale”, scarti compresi. L’ISPRA, dal canto suo, ha sempre riportato quella voce tra i rifiuti indifferenziati, che contribuiscono alla produzione totale dei rifiuti urbani ma non certo alla raccolta differenziata. Si cambia registro anche in tema di compostaggio: il Governo ingloba nella raccolta differenziata anche quello domestico, una pratica che, come ha avuto modo di spiegare Enzo Favoino -membro del centro di ricerca della Scuola Agraria del Parco di Monza e coordinatore scientifico della rete “Zero Waste Europe” (www.zerowasteeurope.eu)-, è “più propriamente un’azione di riduzione” della produzione di rifiuti, e non invece il contrario. Ma la decisione finale del tavolo è squisitamente “politica”, come racconta ad Altreconomia chi prese parte a quella discussione. Il profilo tecnico passa in secondo piano. Ed è allora che il ministero -dopo aver sentito la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e l’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI)- approva il decreto che introduce il nuovo metodo di calcolo nazionale. L’ISPRA, così come le Regioni, deve adeguarsi, facendolo proprio e mandando in pensione quello utilizzato per diciannove anni.
Il primo “tagliando” della strategia del ministero coincide con il “Rapporto rifiuti urbani” presentato dall’ISPRA alla fine dell’ottobre 2017. Il documento di ricerca è una cartina di tornasole utile perché chi l’ha curato non si è limitato ad adottare il “nuovo” metodo di calcolo, ma ha effettuato un confronto con l’approccio precedente. Le buone notizie non mancano: l’Italia, finalmente, ha raggiunto e superato la soglia del 50% di raccolta differenziata dei rifiuti urbani. Dal 47,5% del 2015 siamo passati al 52,5%, seppur con profonde differenze tra Nord (64,2%), Centro (48,6%) e Sud (37,6%). Si tratta di un traguardo sofferto che il nostro Paese si era impegnato (per legge) a tagliare nel 2009, otto anni fa. Gli obiettivi fissati al 2011 (60%) e al 2012 (65%) sono ancora lontani, quanto meno a livello nazionale. Ma Veneto, Trentino-Alto Adige, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia viaggiano già tra il 73 e il 67%. E tredici Regioni -compresa Campania, Emilia-Romagna e Toscana- superano il 50%. Ancor più nel dettaglio, le province di Treviso, Mantova, Pordenone e Belluno oltrepassano l’80%. La “RD” quindi cresce, inesorabilmente. La cattiva notizia è che dopo una tendenziale riduzione dei rifiuti urbani in corso ormai dal 2010, la “colonna” del 2016, in un istogramma immaginario, è tornata a salire: da 29,5 milioni di tonnellate siamo passati a 30,1 milioni. 497,1 chilogrammi pro-capite contro i 486,7 del 2015. Dieci chilogrammi in più a testa in un anno. È un problema considerando infatti che il primo passo per un’economia davvero circolare consiste nella riduzione dei rifiuti.
Ma torniamo a quei cinque punti percentuali in più di raccolta differenziata in un anno registrati a livello nazionale. L’ISPRA suggerisce prudenza nella lettura dei dati. “Il confronto (con il 2015, ndr) -spiega nel Rapporto- non appare corretto a causa delle rilevanti modifiche nel metodo di calcolo”. Infatti, “seguendo l’approccio metodologico utilizzato per l’intera serie storica sino al 2015, la percentuale di raccolta differenziata dell’ultimo anno si attesterebbe al 50,6%”. E non al 52,5%. Non è l’unica differenza tra i due metodi di calcolo. Come detto, quello introdotto dal ministero ha appesantito il sacco dei rifiuti urbani e allargato le maglie della differenziata. Se l’ISPRA avesse utilizzato il “vecchio” metodo, infatti, nel 2016 l’Italia avrebbe prodotto 29,8 milioni di tonnellate di rifiuti urbani contro le 30,1 milioni ottenute con la “nuova” metodologia. Poco più di 300mila tonnellate potrebbero sembrare una differenza trascurabile (anche se, per avere un’idea, è pari ai rifiuti urbani prodotti in un anno dalla sola provincia di Messina). Ma non è affatto così e per rendersene conto è necessario guardare alla strategia europea in tema di rifiuti.
La direttiva quadro di riferimento sui rifiuti è la 2008/98/CE (recepita in Italia attraverso il decreto legislativo 205/2010), che ha fissato “target di preparazione per il riutilizzo e riciclaggio” per specifici tipi di rifiuti, da quelli urbani a quelli da attività di costruzione e demolizione. Primo punto: l’Unione europea non fissa traguardi di raccolta differenziata -che è un indicatore insufficiente a misurare la virtuosità di chi riduce sempre più la quantità di rifiuti urbani residui- ma punta piuttosto sul riciclaggio di alta qualità. E (almeno) per carta, metalli, plastica e vetro pone obiettivi di “riutilizzo e riciclaggio”. Secondo la direttiva, infatti, entro il 2020 la preparazione per riutilizzo e riciclaggio di quei rifiuti dovrà essere “aumentata complessivamente almeno al 50% in termini di peso”. È qui che il nuovo metodo di calcolo introdotto dal Governo italiano crea un problema tutt’altro che secondario. E lo chiarisce l’ISPRA: “Alcune frazioni incluse nel computo della raccolta differenziata dalla nuova metodologia […], in particolare, gli scarti della raccolta multimateriale, i rifiuti da costruzione e demolizione, le terre e sabbie da spazzamento, non possono contribuire al conseguimento degli obiettivi di riciclaggio previsti dalla direttiva 2008/98/CE”. Il risultato è paradossale: “Ciò determina -scrive l’ISPRA- un allargamento della forbice tra percentuale di raccolta differenziata e tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani”. Dunque la raccolta differenziata italiana sta indubbiamente migliorando -seppur virtualmente “gonfiata” da nuove voci più o meno coerenti- mentre il riutilizzo e il riciclo (compresi tra il 42,2% e i 47,7%) non riescono a rimanere al passo.
Il tutto mentre l’Unione europea si appresta ad approvare il nuovo “pacchetto” sull’economia circolare, che comprende la modifica della direttiva del 2008 sui rifiuti, prevedendo obiettivi ambiziosi. “Entro il 2030, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti urbani saranno aumentati almeno al 65% in peso”, ha proposto la Commissione. Il Parlamento, a metà marzo 2017, ha rilanciato, approvando emendamenti che porterebbero la soglia al 70%. Mentre l’Italia cambiava il metodo per calcolare la produzione di rifiuti urbani e la raccolta differenziata, l’Europa non è rimasta a guardare. Messo al corrente dei rilievi fatti dall’ISPRA, il portavoce per l’Ambiente della Commissione europea -l’italiano Enrico Brivio- ha risposto ad Altreconomia che “Purtroppo, al momento, non siamo in grado di dare un giudizio sulla metodologia utilizzata dalle autorità italiane per il calcolo della raccolta selettiva dei rifiuti in quanto abbiamo chiesto alle Autorità italiane alcuni chiarimenti su dettagli della metodologia utilizzata e siamo in attesa delle risposte”.
In Lombardia, nel 2016, il “salto” in alto della differenziata dopo l’adozione del “nuovo” metodo di calcolo è tra i più pronunciati d’Italia: dai 271 chilogrammi per abitante di “RD” del 2015 a 325 dell’ultimo anno. La provincia di Milano è passata dal 56,1% al 64,3%, Bergamo dal 60,9% al 72,6%, Brescia dal 58,1 al 69,5%, Lecco dal 60,5% al 70,4%, Lodi dal 59,3% al 72,5%. “In alcuni casi -scrive l’ISPRA a proposito delle province lombarde- su tali incrementi la nuova metodologia di calcolo ha una incidenza non trascurabile, innalzando di 4/5 punti la percentuale di raccolta rispetto a quella che si sarebbe ottenuta adottando i precedenti criteri”. Tra i principali fattori che hanno creato la distorsione c’è la voce “spazzamento stradale avviato a recupero”. ISPRA, come detto, l’aveva sempre escluso dalla differenziata. Il ministero l’ha incluso, anche se in Italia lo differenzia ancora poco meno del 25% dei Comuni per poco più di 215mila tonnellate complessive. Nel 2016, oltre la metà di tutto lo “spazzamento avviato a recupero” è stata raccolta proprio in Lombardia: 120mila tonnellate (del trattamento se ne occupano 11 impianti in Regione e due in provincia di Trento e Piacenza). Secondo il criterio governativo di calcolo è tutta “raccolta differenziata”. L’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) ha misurato però l’effettivo “recupero”: “Il quantitativo totale di materiale recuperato (inerte e ammendanti) dal trattamento di tali rifiuti -ha scritto nella Relazione regionale 2016 sui rifiuti urbani- è stato di 53.019 tonnellate”. Ovvero il 42,6% dei rifiuti da spazzamento strade raccolti. Anche ARPA Lombardia non sembra convinta della scelta ministeriale, come si può cogliere in un passaggio della sua ultima relazione: “Senza entrare nel merito di considerazioni e valutazioni sui criteri generali adottati, che hanno la finalità principale di uniformare le modalità di calcolo fra tutte le Regioni, va evidenziato […] che tali indicazioni differiscono in modo significativo rispetto al metodo adottato in Lombardia”. I “salti” sono impressionanti: “I quantitativi delle raccolte differenziate aumentano complessivamente addirittura oltre il 15%. […] La percentuale di raccolta differenziata regionale arriva al 70% con un aumento di ben 10 punti percentuali”.
8 i nuovi impianti di incenerimento di rifiuti che secondo il ministero sono necessari per soddisfare il “fabbisogno residuo nazionale” di smaltimento
ARPA ha messo a confronto tutti le percentuali dei Comuni lombardi utilizzando “vecchio” e “nuovo” metodo. Nello stesso anno, la città di Brescia può viaggiare tra il 44,56 e il 50,04%, facendo in ogni caso registrare il peggiore risultato tra i capoluoghi lombardi. Tra le cause del flop bresciano c’è anche l’ingombrante presenza dell’inceneritore gestito dalla multi-utility A2a, autorizzato a bruciare fino a 981.837 tonnellate di rifiuti all’anno. Un modello che il ministero dell’Ambiente non vuole ridiscutere. Anzi -come ha ribadito il direttore generale del dicastero, Mariano Grillo, alla conferenza di presentazione del Rapporto ISPRA- vuole irrobustire attraverso la realizzazione di otto nuovi impianti -in Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna e Sicilia (due)- per soddisfare un “fabbisogno residuo nazionale” di 1.831.000 tonnellate annue. È la “visione” dello “Sblocca-Italia” (decreto legge 133/2014), diametralmente opposta rispetto a quella della Commissione europea: “Le risorse pubbliche -ha ribadito nel gennaio scorso nell’ambito di una ‘comunicazione’ ufficiale sull’economia circolare- dovrebbero evitare di creare sovracapacità per il trattamento di rifiuti non riciclabili, come gli inceneritori”. Il Governo italiano non ha raccolto il messaggio. “Chi sostiene ancora l’incenerimento come soluzione alla gestione dei rifiuti italiani -riflette a voce alta Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente- mi ricorda la protagonista del film tedesco ‘Good Bye, Lenin!’”. Una donna di Berlino entra in coma nell’ottobre 1989, poco prima della caduta del muro, e quando si risveglia, otto mesi dopo, non immagina che il mondo attorno a lei sia radicalmente cambiato. Per evitarle ricadute, i figli le costruiscono intorno una realtà di cartone, fatta di telegiornali della DDR e cimeli della della Germania Est. “Ecco, siamo a questo livello. Il muro è caduto: gli ultimi due inceneritori costruiti in Italia e mandati in esercizio, a Torino e a Parma, oggi devono andarsi a cercare fuori provincia per essere alimentati. Il Paese è cambiato e il Rapporto dell’ISPRA lo conferma: il ministero dell’Ambiente se ne faccia una ragione”, conclude. Piuttosto, tra le principali direttrici lungo le quali muoversi, Ciafani ne ripropone due: rinnovare lo strumento della “ecotassa” per i Comuni “non ricicloni” lontani dalla soglia del 65% di differenziata -superando il modello dell’irrisoria tassa massima di 25 euro a tonnellata smaltita in discarica- e poi far sì che le Regioni investano l’ammontare unicamente in politiche ambientali. Questo è il merito. Il resto è una questione di metodo.
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