Economia
In pasto ai buoni
Ogni giorno vengono utilizzati 11 milioni di ticket in sostituzione delle mense. Tra tasse evitate, commissioni troppo alte e rischi di spirali inflazionistiche Una “margherita” vale un buono pasto. Se un ristorante o una pizzeria non accettasse i cosiddetti “ticket”,…
Ogni giorno vengono utilizzati 11 milioni di ticket in sostituzione delle mense. Tra tasse evitate, commissioni troppo alte e rischi di spirali inflazionistiche
Una “margherita” vale un buono pasto. Se un ristorante o una pizzeria non accettasse i cosiddetti “ticket”, in una grande città come Milano, rischierebbe di chiudere. L’equazione ce la spiega Danilo, napoletano trapiantato a Milano: la pizza del suo locale è una delle più buone della città, eppure a mezzogiorno nessuno la sceglierebbe se una selva di adesivi sulla porta d’ingresso non rendesse evidente che, alla cassa, si accettano i buoni pasto, un’“insalata mista” di nomi e sigle.
Chi ha un lavoro dipendente considera il ticket un “diritto”, ma basta fermarsi un attimo a riflettere, prima di addentare il panino e bere un sorso di cola, per capire che a differenza dell’indennità di mensa in busta paga, che sostituiscono, i “buoni pasto” sono solo un “diritto a spendere”, che alimenta un mercato ricco e concentrato. Un mercato, soprattutto, defiscalizzato: chi garantisce ai propri dipendenti un ticket da 5,29 euro, su quelli non paga imposte.
Se prendete in mano uno dei buoni pasto che avete in tasca, probabilmente lo inizierete a vedere con occhi diversi. Guardatelo in controluce: è solo un foglio di carta. L’unica “fortuna” che ha è che governo, aziende, lavoratori ed esercenti gli riconoscono un “valore convenzionale”.
Ogni giorno, secondo la Federazione italiana dei pubblici esercizi (Fipe), ne vengono usati 2,2 milioni, per un valore di circa 11 milioni di euro. “A mezzogiorno, i ticket rappresentano l’80-90% del mio fatturato -spiega Danilo-. La sera capitava anche gente che si offriva di pagare per una tavolata di amici usando solo buoni pasto, facendosi dare in cambio denaro contante. Non sanno, queste persone, quanto ci ‘costa’ recuperare quei soldi: dobbiamo occuparci di contare i ticket, di suddividerli per tipo, di timbrarli uno ad uno, di consegnarli alle società che li emettono, girando tutti gli uffici, che sono sparsi tutt’intorno a Milano. E quando ce ne capitano di falsi, scansionati ad esempio, di scaduti e di rubati, non ci vengono rimborsati. Mi chiedono una commissione anche per redarre un rendiconto, per questo me lo faccio da solo”. Lui e la moglie, spiega, passano il giorno di chiusura della pizzeria a mettere ordine tra i ticket: “È per questo che la sera non accetto più i buoni pasto”.
Più ticket incassa e più s’incazza, Danilo. Perché, spiega, il “buono pasto è come il gioco delle tre carte”: a vincere è sempre il banco. In questo caso, “il banco” è rappresentato da una ventina di società, quelle che emettono i buoni. Le più importanti si chiamano Accor, Qui Group, Day Ristoservice, Sodexo, Pellegrini e Compass (vedi box). Sono le sei regine di un mercato che nel 2009 ha toccato i 2,6 miliardi di euro (in crescita del 7,3 per cento rispetto al 2008). Sono società cui, a differenza della Banca d’Italia, mandata in pensione dalla Banca centrale europea, è come se fosse ancora permesso stampare moneta: una moneta nuova, che è parallela all’euro ed è l’unica “battuta” in Italia.
E la vittoria di ogni moneta si misura su una dato: la loro diffusione.
L’impegno massimo delle aziende emettitrici di ticket è per questo volto ad aumentare il numero di fruitori e la rete di esercizi che accettano i buoni: sono 7 milioni gli italiani che consumano, comunemente, il pranzo fuori casa, ma poco più di due milioni quelli che ricevono dal datore di lavoro un buono. C’è ancora tanto spazio per conquistare nuove aziende alla “religione” del ticket. Anche i “pesci piccoli”, come noi di Ae, sono appetibili: abbiamo inviato a Qui Group, che con il 14,2% è il secondo gruppo sul mercato e ha tra i propri clienti anche la presidenza del Consiglio dei ministri, la richiesta di un preventivo per buoni pasto da 7 euro al giorno per i soci lavoratori della cooperativa, ed immediatamente è arrivata la risposta e un’offerta. Al telefono, poi, ci hanno spiegato che “ovviamente” l’azienda avrebbe ricevuto uno sconto sull’acquisto del buono pasto. E questo è un punto importante: hanno detto, in pratica, che siccome quella è carta comune, su cui è stampigliato un valore che è solo “nominale”, loro possono cederlo anche sottocosto. I ticket di Ae non valgono granché, ma il fenomeno riguarda anche le aste “al ribasso” fatte da grandi gruppi. Nel 2008, ad esempio, la Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) ha denunciato che Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi ed Unicredit hanno messo all’asta forniture di buoni pasto per i propri dipendenti per 190 milioni di euro, chiedendo a chi partecipava alla “gara” un ribasso del 20% rispetto al loro valore reale. Alla fine della giostra, il cerino resta in mano agli esercenti: “Chi li emette propone alle aziende i buoni pasto a uno costo che io ignoro -racconta Danilo-. Quello che so, però, è che se voglio avere il rimborso in 7 giorni mi chiedono una commissione del 10%. A 45 giorni, lo ‘sconto’ è mediamente del 7%”. È su questo sconto che si forma il guadagno delle società di emissione.
In questa versione del gioco delle tre carte del XXI secolo non poteva mancare la leva finanziaria della liquidità: chi emette i buoni incassa denaro contante, dalle aziende che acquistano i ticket, e lo restituisce agli esercenti, depauperato della commissione, mediamente dopo due mesi (perché per potersi garantire commissioni più basse, i gestori di bar, ristoranti e pizzerie accettano di aspettare più a lungo). Tra l’altro, il buono pasto è moneta che “scade” (generalmente il 31 dicembre dell’anno in cui è stato emesso): dopo, chi emette incassa comunque, e non è obbligato a restituire niente.
Più buoni circolano, più esercizi devono essere convenzionati. In tutta Italia, sono circa 100mila. Sul sito di Qui Group, l’azienda invita i titolari di Qui Ticket a segnalare eventuali esercizi vicini al proprio luogo di lavoro che ancora non accettano i buoni; il blocchetto di Pellegrini Card si chiude con una pagina per segnalare “i dati del locale che desideri venga convenzionato”. Come se fosse un favore. Ma non è così: secondo Carlo Pileri, presidente dell’Adoc (Associazione per la difesa ed orientamento dei consumatori), i ticket generano anche una spirale inflazionistica: “Il barista che incassa un buono da 5 euro e 29 ‘nominali’, sa che in termini reali varrà poco più di 4 euro e mezzo. Per poter ‘rientrare’, dovrà aumentare i prezzi. Questo meccanismo si scaricherà su tutti gli avventori, anche quelli che non pagano con i buoni”. L’Adoc chiede la fine delle aste al ribasso e l’obbligo di pagare gli esercenti entro 60 giorni.
L’unico “fronte” su cui tutti (associazioni dei consumatori, degli esercenti, degli emettitori) sembrano essere d’accordo però è un altro, ed è il dibattito intorno all’aumento della quota defiscalizzata, ovvero quella parte di buono pasto su cui non si pagano tasse. È ferma da una decina d’anni a 5,29 euro, che è proprio il valore della maggior parte dei ticket in circolazione. Significa che anche se già oggi le aziende sono libere di garantire ai dipendenti un rimborso superiore ai 5,29 euro per il pasto, poche lo fanno, perché sulla quota aggiuntiva dovrebbero pagare le tasse. L’Anseb, l’Associazione nazionale delle società emettitrici di buoni pasto, punta proprio su questo per attrarre clienti: il risparmio. Il buono pasto costa meno dell’indennità di mensa in busta, su cui si pagano i contributi. Su tutti i siti ci sono dei “contatori” che aiutano i curiosi a scoprirlo inserendo i dati della propria azienda.
Danilo resta dietro il bancone: prepara la pasta per le pizze della sera.
E si chiede ancora perché l’Epam, l’Associazione provinciale milanese pubblici esercizi, affiliata Fipe, invece di tutelare gli iscritti sulle alte commissioni manda loro offerte e convenzioni sui buoni pasto.
Come funziona il buono pasto
I buoni pasto “non sono cedibili, commercializzabili, cumulabili o convertibili in denaro”. Questo in teoria, perché nella realtà accade tutt’altro. Il titolare di una pizzeria usa i buoni accumulati per far la spesa, lasciando ad altri l’incombenza di contarli e chiedere il rimborso; il dipendente va a far la spesa, acquistando prodotti non alimentari, anche se non si potrebbe. Poco importa, quando l’importante è -ad ogni costo- aumentare il giro d’affari della moneta parallela.
La legge di riferimento è il Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 18 novembre 2005, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale ad inizio 2006 e successivamente modificato in virtù di una sentenza del Tar del Lazio e poi di un giudizio del Consiglio di Stato. Stabilisce, tra l’altro, che è sufficiente un capitale di 750mila euro per “battere moneta”, cioè emettere i ticket. E definisce, poi, chi sono le parti, i “quattro attori” sul mercato dei ticket, le cui relazioni somigliano a un circolo vizioso: emettitore-cliente (pubblica amministrazione, azienda privata)-dipendente-ristoratore… E, spiega la Fipe, non c’è nessuna disposizione che vieti al secondo attore di far pagare al terzo (il dipendente) una parte dei costi sostenuti per acquistare dal primo il buono pasto.
Le sei sorelle del tagliando
Sei gruppi controllano, complessivamente, l’89,2 per cento del mercato italiano dei “buoni pasto”, 2.605 milioni di euro di fatturato nel 2009 contro i 2.270 del 2007. “Danno da mangiare”, ogni giorno, ad oltre 2 milioni d’italiani, ma restano ai più sigle sconosciute.
A guidare saldamente la classifica, con il 42,6%, c’è Accor Services Italia srl, che fa capo alla multinazionale Accor, 490mila clienti, uffici in 40 Paesi, attiva con 14 brand nell’ospitalità alberghira. Il suo “Ticket restaurant”, nato in Francia nel 1962, è definito dall’azienda “motore di cambiamento economico e sociale”. È presente in Italia anche con il marchio “City time”.
In seconda posizione, molto staccato (14,2%), c’è il Qui Ticket di Qui Group, azienda italiana di Gregorio Fogliani con sede a Genova e circa 380 milioni di euro di fatturato. “Oltre 250 milioni di titoli di servizio emessi”. Mangiano “grazie a” Qui Group, tra gli altri, i dipendenti di Fs, Erg, Eni, Regione Liguria.
Qui Group si occupa anche di creare per aziende e gruppi della distribuzione carte di pagamento con fido, quelle che permettono di posticipare a fine mese, in un unico addebito, il pagamento dei beni acquistati. Il progetto si chiama “Fidetico”.
Sul podio, con il 13,1%, anche i ticket Day, nati nel 1987. Day Ristoservice è una società per azioni con oltre 340 milioni di euro di fatturato, nata dall’alleanza tra il gruppo Camst e la società francese Chèque Déjeuner. Camst è una cooperativa di lavoro con oltre 10mila soci, seconda in Italia solo ad Autogrill nel comparto ristorazione. Socia di Legacoop, è azionista di BolognaFiere.
Pass Lunch, 9,8% del mercato italiano, è il ticket di Sodexo, un gruppo attivo in 80 Paesi che fattura oltre 13 miliardi di euro gestendo servizi di ristorazione e “facilities management” (oltre ai buoni pasto anche buoni sconto e “motivazionali”). In Italia, ha creato Better day people, un “club on line” che offre buoni sconto e promozioni agli utilizzatori del Pass Lunch (www.betterdaypeople.it).
Pellegrini Card (5%) è il ticket del gruppo Pellegrini (Ernesto, l’ex presidente dell’Inter), oltre 400 milioni di euro di fatturato nel 2009 (la metà circa dalla ristorazione, il 35,7 per cento dalla vendita di buoni pasto).
Ristomat e Lunch Time (4,5%), per finire, sono i buoni di Compass Group Italia, filiale di un gruppo che fattura 19 miliardi di euro l’anno, attivo dalla ristorazione aziendale (Eurest) a quella scolastica (Scolarest).
Al posto della busta
Il gruppo Cremonini vorrebbe pagare in “buoni pasto” e “buoni benzina” il premio aziendale a 600 dipendenti. Sono quelli che lavorano a Castelvetro, in provincia di Modena, negli stabilimenti di Inalca Jbs, joint venture tra l’azienda italiana e la brasilina Jbs, il più grande produttore al mondo di carne bovine. Nel bel mezzo della trattativa per il rinnovo del contratto aziendale (che è scaduto il 31 dicembre del 2008), Inalca ha fatto sapere al sindacato che per il 2009 avrebbe riconosciuto un “premio di produzione” di 258 euro, e che lo avrebbe erogato in “buoni”. “Sarebbe la prima volta, per il settore, per i lavoratori dell’agri-industria. E non a caso i 258 euro corrispondono al massimo di ‘erogazioni liberali’ che possono essere date senza pagare tasse né contributi a favore dei lavoratori -spiega Umberto Franciosi, segretario della Flai/Cgil di Modena, che sta seguendo la vertenza Inalca per il rinnovo contrattuale-. Per i reparti più produttivi, ad esempio quelli dove vengono prodotti gli hamburger, si tratta di una pesante penalizzazione, visto che prima il premio sfiorava i 600 euro”. A Castelvetro ci sono stati uno sciopero, assemblee e il blocco delle flessibilità e degli straordinari (foto in basso): “Rivendichiamo un contratto che possa ritenersi tale -continua Franciosi-. Da un lato c’è Confindustria che lascia alla contrattazione aziendale l’esigenza di soddisfare una richiesta di aumento di ‘potere d’acquisto’ delle famiglie, dall’altro il gruppo Cremonini che agendo così annulla di fatto il contratto integrativo aziendale”.
Nel frattempo, la notizia ha fatto il giro del mondo: lettere di solidarietà a favore dei dipendenti modenesi di Inalca Jbs sono arrivate dalle organizzazioni sindacali internazionali, affiliate all’International Union of Food workers (Iuf), che rappresentano i lavoratori della Jbs in Brasile, Usa, Canada e Australia. Info sulla vertenza: http://www.facebook.com/contrattoinalcajbs