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In Indonesia la ricostruzione si trasforma in eco-business

L’aia centrale del villaggio di Palawa, nel territorio dei Toraja. Gli insediamenti sulle montagne dell’isola, unitamente all’uso del bambù per la costruzione delle case tradizionali, sono soluzioni adattive tanto efficaci quanto invise ai nuovi piani di “sviluppo sostenibile” del governo © Alberto Caspani

Sull’isola di Sulawesi colpita dai terremoti il piano di ripresa è siglato con la Banca Mondiale. Le nuove opere mirano a farne il crocevia economico del Sud-Est asiatico senza un reale sostegno alle comunità locali

Tratto da Altreconomia 235 — Marzo 2021

In Indonesia le ricostruzioni sono più devastanti di terremoti e tsunami. Ne sono ormai convinti gli abitanti di Sulawesi, l’isola al centro del più vasto arcipelago del Sud-Est asiatico e vittima predestinata dell’eco-business. Dopo la devastante scossa da 7.5 magnitudo che, il 28 settembre 2018, aveva colpito la città di Palu, lo scorso 15 gennaio uno sconvolgimento quasi altrettanto violento ha messo in ginocchio pure Majene sulla costa centrale. A corto di materiale d’emergenza e con ridotte squadre di pronto soccorso, il governo indonesiano ha però ribadito che l’unica vera soluzione per gli abitanti locali resta il “Piano di ricostruzione e riabilitazione di Sulawesi Centrale”, dal valore di ben 150 milioni di dollari, siglato con la Banca Mondiale a fine 2020. Sulla carta gli obiettivi lasciano presumere importanti migliorie per lo sviluppo sostenibile da raggiungere entro giugno 2024: “Creazione di unità abitative permanenti e predisposizione di infrastrutture”, “rafforzamento delle risorse pubbliche per migliorare le prestazioni antisismiche e la resilienza climatica”, “finanziamento dei costi per l’affiancamento di consulenti esperti e facilitatori comunitari”.

Tra il fango e le macerie che coprono ancora le coste di Majene e Palu, insediamento di circa 350mila abitanti, i cittadini la pensano però diversamente. “Solo dopo il terremoto -spiega Susanti, sfollata dal villaggio periferico di Petobo- abbiamo scoperto di vivere in una zona che il governo aveva classificato da tempo ad alto rischio: le caratteristiche geologiche del suolo fanno sì che, in caso di potenti scosse, il terreno non si spezzi ma passi rapidamente dallo stato solido a liquido, generando onde di fango che finiscono per inghiottire ogni cosa”.

Con oltre 127 vulcani attivi, l’“Anello di fuoco” è il territorio ideale per chi punta a trarre profitto dall’emissione di catastrophe bond

Nessuna delle 2.663 vittime del primo terremoto, così come gli oltre 57mila sfollati che continuano a vivere nelle tende, aveva avuto sentore di trovarsi in un’area tanto fragile. Analogo disorientamento è emerso dopo la scossa di Majene. Eppure Gegar Prasetya, co-fondatore dello Tsunami Research Centre Indonesia, aveva lanciato l’allarme più e più volte nel corso degli ultimi 25 anni. Inutilmente. Nei palazzi di Jakarta si preferisce gettare acqua sul fuoco per quanto riguarda i rischi idrogeologici, mentre a Sulawesi i residenti sono abituati a dare ascolto alle rassicurazioni amministrative. I primi studi di Prasetya risalgono al 1996 e hanno analizzato sei tsunami verificatisi in diversi secoli nello stretto di Makassar dove si trova Sulawesi. “La scossa tellurica da cui Palu è stata investita -spiega lo scienziato- tende a ripresentarsi ogni 25 anni e, quando colpisce in prossimità del mare, genera un terremoto di fango che può sollevare onde sino a dieci metri d’altezza. Nel 1968 un intero villaggio sparì sott’acqua in pochi secondi”.

“Una buona pianificazione urbanistica è la chiave per salvare vite umane” -rilancia Sri Hidayati, responsabile della mitigazione dei terremoti presso l’agenzia geologica del ministero dell’Energia dell’Indonesia- e i nuovi complessi d’insediamento andranno costruiti in aree a basso rischio di liquefazione”. A detta dei cittadini, il governo non vuole guardare in faccia la realtà. Ossessionato dalla necessità di decongestionare le isole di Giava, Bali e Madura -cuore produttivo dell’arcipelago- innalzando i livelli produttivi degli altri principali centri d’insediamento, non ha mai smesso di perseguire gli obiettivi di sviluppo del programma “Transmigrasi”, lanciato dagli olandesi ancor prima dell’indipendenza nel 1949: spostare interi nuclei familiari e lavoratori dalle località maggiormente popolate alle isole più periferiche assegnando loro terra, abitazioni prefabbricate e il compito, non meno importante, di islamizzare popoli considerati idolatri o selvaggi. Ancora lo scorso gennaio, il generale Abdullah Mahmud Hendropriyono è tornato a reclamare il trasferimento di quasi due milioni di papuani a Manado, la città settentrionale più importante di Sulawesi, dopo che sull’isola rivendicata dalla Nuova Guinea erano scoppiate ancora rivolte per aver dato delle “scimmie” agli studenti di origine melanesiana. “L’esercito non ha perso occasione per organizzare incursioni nei nostri villaggi di capanne -denuncia Benny Wenda, leader del movimento d’indipendenza di West Papua- finendo per ridurli in cenere e creando così le condizioni per il nostro trasferimento”.

Trovandosi sulla faglia d’attrito tra oceano Indiano e Pacifico, il cosiddetto “Anello di fuoco”, Sulawesi viene considerata una delle aree meno sicure del Pianeta, un “relitto” geologico dell’antica regione biogeografica di Sundaland, scomparsa sotto le acque alla fine dell’ultima Era Glaciale. Memori dell’inarrestabile innalzamento dei mari e della mai estinta pirateria, le tribù locali si sono tenute sempre lontane dalle coste, costruendo i propri insediamenti nell’interno montuoso. Nuclei abitativi poco controllati dal governo, come le comunità più remote dei Kali e dei Toraja, integrabili però attraverso il Piano di ricostruzione della Banca Mondiale e il progetto Greater Sulawesi Corridor. Con il completamento della tratta stradale Manado-Palu, i nuovi investimenti consentono di collegare la cittadina colpita dal terremoto a Makassar, nel Sud dell’isola, attraversando i territori tribali.

L’area conserva non solo villaggi di architetture lignee d’antichissima tradizione, collegate al culto dei morti e al sacrificio del toro, ma è anche disseminata di resti megalitici d’incerta origine come quelli del parco nazionale di Lore Lindu, solitamente distrutti o rimossi dai campi per far spazio a coltivazioni di riso. Sono inoltre presenti numerosi siti archeologici e rupestri, grazie ai quali è stata individuata una nuova specie di ominide risalente a oltre 200mila anni fa, in grado forse di raffigurare i primi esempi al mondo di animali già 44mila anni fa, nella zona di Maros-Pangkep. Risorse straordinarie che il governo tende invece a considerare ostacoli alla coltivazione della canna da zucchero e al taglio di legname pregiato.

La produzione di riso e caffé rappresenta la maggior fonte di reddito per le popolazioni dell’interno di Sulawesi ma il governo di Jakarta punta a trasformare l’isola in un crocevia dei corridoi economici marittimi e stradali del Sud-Est asiatico © Alberto Caspani

Grazie al coinvolgimento dell’Agenzia di cooperazione internazionale del Giappone, è stato approvato anche il programma di ricostruzione del principale ponte di Palu, il Quarto Ponte, per una spesa complessiva di circa 20 milioni di euro: un altro “gioiello” d’ingegneria antisismica, finalizzato allo smistamento del traffico commerciale sull’asse Est-Ovest, in aggiunta a quello Nord-Sud. “Anziché investire cifre così consistenti in opere d’interesse extraterritoriale -hanno obiettato i residenti- sarebbe più utile indirizzare i fondi verso nuclei familiari rimasti senza lavoro offrendo un’opportunità concreta per il reinserimento nella vita sociale”.

Obiettivo perseguito soprattutto dall’Islamic Relief, Ong che sino a dicembre 2020 ha approvvigionato di cibo, acqua, lenzuola e kit sanitari ben 19mila famiglie di Sulawesi (con singoli pacchetti dal valore di 100 dollari), aiutandole a riedificare scuole e piccole abitazioni antisismiche in legno, soluzioni ben più agili degli “eco-palazzi” in cemento. Sono stati inoltre lanciati programmi di microfinanza per riavviare piccole imprese e coltivazioni di riso o funghi. Questa strategia è però poco gradita ai consulenti sulla sostenibilità affiancati ai governi dalla Banca Mondiale, in linea con la “New climate and resilience initiative” elaborata per otto milioni di dollari dalla Fondazione Rockfeller nel 2019.

“I cosiddetti chief resilience officer -spiega Razmig Keucheyan, professore di sociologia dell’Università di Bordeaux e autore del saggio “La natura è un campo di battaglia”- lavorano a favore della cartolarizzazione sui rischi climatici, cioè della finanziarizzazione della natura, puntando a trarre profitto dall’emissione di “cat bond” (catastrophe bond) in relazione al verificarsi o meno di catastrofi”. Con i suoi 127 vulcani attivi e gli oltre 7.300 disastri naturali registrati tra il 2007 e il 2018, l’“Anello di fuoco” indonesiano rappresenta oggi una risorsa eccezionale per indurre a investire in titoli ad alto rendimento sino a un’eventuale nuova crisi ambientale giocando fra le rassicurazioni di piani di sviluppo sostenibile, alti rischi catastrofici (le perdite medie annuali oscillano infatti tra i 2,2 e i tre miliardi di dollari) e copertura del rischio catastrofe con titoli emessi su altri tipi di catastrofe. La vita, la salute collettiva e la natura stessa, in Indonesia, sono diventati una scommessa.

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