In cammino in cerca di lavoro – Ae 36
Numero 36, febbraio 2003Non solo verso i Paesi ricchi del Nord: l'emigrazione è anche da Sud a Sud. La Costa d'Avorio ha più stranieri dell'Italia.Ci sono oltre un milione di lavoratori filippini in Iran, Iraq e Kuwait: con la guerra…
Numero 36, febbraio 2003
Non solo verso i Paesi ricchi del Nord: l'emigrazione è anche da Sud a Sud. La Costa d'Avorio ha più stranieri dell'Italia.
Ci sono oltre un milione di lavoratori filippini in Iran, Iraq e Kuwait: con la guerra potrebbero perdere il posto ed essere espulsi, proprio come durate il conflitto del '91. In quest'area del mondo gli indiani sono 4 milioni. Negli Emirati Arabi gli stranieri rappresentano il 74 per cento della forza lavoro. Da dove vengono e che vita conducono
“Sono tre anni che non piove. Tutte le notti mi sveglio oppresso dalla sete. È strano perché nella mia camera funziona il ventilatore. Sogno il monsone, quando l'aria si riempie di acqua di mare e di cielo e il vento strapazza i campi di riso. Al mattino, quando apro le finestre, il cielo è sempre maledettamente terso. Immutabile.”
Francis L. è indiano, di Madras. Una città rutilante, caotica, dove le donne indossano sari coloratissimi, le buste di plastica svolazzano nell'aria, e vacche, capre e maiali mangiano tra l'immondizia accanto alle persone che aspettano l'autobus.
Da tre anni lavora a Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, una delle città più pulite e asettiche del mondo, dove buttare per terra una carta è reato. Oggi fa il cassiere allo sportello del Welcare Hospital.
Francis ha 35 anni. Tre anni negli Emirati Arabi, più tre nel Sultanato dell'Oman, fanno sei anni da quando ha lasciato la famiglia: sua moglie Isabell e due figlie, Martina e Agnes.
Ragioniere, aveva cercato disperatamente un lavoro in città per non dovere seguire le orme dei suoi cugini, partiti per l'isola di Mauritius, a lavorare nei campi della canna da zucchero. E poi sapeva della sofferenza di sua cognata e dei suoi nipoti che vivevano da anni senza Joseph, suo fratello, emigrato in Malaysia.
Francis è uno dei quattro milioni di indiani che lavorano nei Paesi del Golfo Arabo e uno dei 180 milioni di migranti del mondo, che si spostano alla ricerca di un lavoro. Seguire le loro tracce non conduce su un'autostrada a senso unico, ma su un dedalo di vie che s'intersecano, si attorcigliano e, spesso, riconducono al punto di partenza.
I migranti del mondo non vanno, come si crede, solo e sempre verso i Paesi ricchi del Nord: oltre la metà (60-65%), si sposta da un Paese in via di sviluppo a un altro Paese in via di sviluppo, di solito confinante, spesso in un altro continente.
In cammino verso un luogo dove trovare un lavoro, ma non sempre una vita migliore: la Costa d'Avorio, con le sue piantagioni di cacao e di sfruttamento, da anni dilaniata dalla guerra civile, attrae molti più lavoratori migranti dell'Italia.
I migranti vengono sospinti da un Paese all'altro dai processi della globalizzazione e dal divario economico e sociale tra Paesi e continenti.
Un divario che si allarga non solo tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma anche, all'interno di questi, tra quelli che hanno imboccato il binario dello sviluppo e quelli che sono rimasti impantanati nella sindrome della povertà.
Il Costa Rica, ad esempio, attrae lavoratori dal Nicaragua, l'India dal Bangladesh, la Costa d'Avorio dal Burkina Faso, il Gambia dal Senegal, il Sudafrica da Zimbabwe, Zambia e Malawi, il Kenya dalla Somalia. I migranti dell'Africa subsahariana attraversano il Sahara a piedi o in camion per arrivare in Algeria, Marocco e Libia. Giordania e Libano sono le mete preferenziali dei lavoratori della Siria, del Corno d'Africa e di molti Paesi asiatici in via di sviluppo.
Solo il restante 35-40% dei migranti si dirige verso le aree più ricche del mondo, Nord America, Europa, Australia, che gradualmente stringono le maglie delle frontiere e lasciano che siano i Paesi in via di sviluppo a prendersi carico delle povertà dei migranti.
Un altro polo di forte attrazione per i migranti sono i Paesi del Golfo Arabo: Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi, Sultanato dell'Oman, Iran.
Schiere di afghani, pakistani, indiani, bengalesi, filippini, indonesiani, cingalesi, convogliano ininterrottamente verso l'area mediorientale dagli anni '70, quando il boom del petrolio ha lanciato questi Paesi verso un rapido sviluppo economico.
Un'area che oggi è al centro delle preoccupazioni del mondo, per l'incombere della guerra, che come ogni conflitto distrugge la vita dei civili che abitano nei Paesi sotto tiro, ma anche quella dei lavoratori migranti che rimangono coinvolti.
Così, mentre le forze armate anglo-americane si stanno ammassando nel Golfo e la tensione tra la popolazione locale sale, i lavoratori migranti sono pronti al peggio.
L'organizzazione filippina Migrante International ha annunciato che, se la guerra dovesse scoppiare, oltre un milione di lavoratori filippini in Iran, Iraq e Kuwait perderanno il lavoro e potrebbero venire espulsi, proprio come avvenne durante la guerra del Golfo nel 1991. !!pagebreak!!
Le condizioni di vita e lavoro dei migranti nei Paesi del Golfo Arabo sono molto difficili. Alcuni fanno lavori qualificati negli uffici, la maggior parte lavora come cuochi, manovali, guardiani, operai, al soldo degli sceicchi.
Il Sultanato dell'Oman, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono tra i pochi Paesi del mondo dove è proibita qualsiasi forma d'organizzazione dei lavoratori; nel Bahrain e in Qatar sono autorizzati solo dei comitati “la cui libertà d'azione è fortemente limitata”, come si legge nell'ultimo rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).
In questi Paesi oltre la metà dei lavoratori sono stranieri: negli Emirati Arabi rappresentano il 74% della forza lavoro, in Kuwait il 58%, in Oman il 27% e in Arabia Saudita il 26%. Ma i governi promulgano leggi che favoriscono e tutelano solo i diritti dei lavoratori residenti, lasciando gli stranieri alla mercé dei datori di lavoro.
La situazione è particolarmente drammatica per le donne. Arrivano, giovanissime, dalle Filippine, dall'Indonesia, dall'India, dal Corno d'Africa, per lavorare come domestiche. Molte, prima di partire, non hanno mai visto un'aspirapolvere o una lavatrice. Nelle Filippine, il ministero dell'Emigrazione organizza corsi di economia domestica, per insegnare alle ragazze ad usare gli elettrodomestici che troveranno nelle case delle famiglie arabe.
Secondo le Nazioni Unite sono decine di milioni le donne che lavorano nell'aerea mediorientale senza una legislazione che definisca la loro posizione e tuteli i loro diritti: vivono nell'ombra, recluse nelle case, molte sono vittime di abusi e sfruttamento.
Lo scorso marzo il governo indiano ha sospeso le pratiche per l'emigrazione delle donne verso il Kuwait, dopo il ripetersi di violazioni gravissime.
Da mesi, la televisione etiope diffonde uno spot governativo, che sconsiglia alle ragazze di andare a lavorare come domestiche nei Paesi del Golfo arabo.
In Malaysia, le ong locali hanno avviato una campagna per chiedere al governo di lavorare su un documento che impegni l'Arabia Saudita a rispettare i diritti delle lavoratrici migranti. Amnesty International ha in corso una campagna internazionale contro i maltrattamenti dei lavoratori migranti nelle carceri dell'Arabia Saudita.
Nonostante il ripetersi sistematico di violazioni contro i diritti umani, i Paesi produttori di petrolio non hanno mai subito una condanna formale da parte della comunità internazionale, forti della dipendenza che il petrolio genera sulle economie dei loro partner commerciali.
Gli avvertimenti dei governi e le campagne delle ong non sembrano produrre alcun effetto sulle moltitudini di migranti, che continuano a dirigersi verso questi Paesi.
Pur di raggiungere la Penisola araba, i clandestini indiani affrontano un lungo e pericoloso viaggio, che dal Pakistan li conduce in Iran, dove proseguono via mare su piccole imbarcazioni di fortuna, fino al largo delle coste degli Emirati Arabi.
Francis conosce alcuni di loro. Gli hanno raccontato il viaggio nei minimi dettagli, descritto i visi degli scafisti che per due notti e un giorno li hanno traghettati fino al largo della Penisola Araba, per 200 dollari a testa.
Lui invece è approdato a Muskat, nel Sultanato dell'Oman, con l'aereo e un regolare permesso di soggiorno e di lavoro. “Ad attendermi c'era il mio sponsor, che come prima cosa ha preso in consegna il mio passaporto e mi ha allungato un contratto scritto in arabo. A nulla è valso spiegarli che l'agenzia privata di collocamento mi aveva già fatto firmare un contratto in India; in perfetto inglese mi ha spiegato che quel contratto non era valido per le leggi dell'Oman”.
I colleghi ai pozzi petroliferi sono tutti stranieri, filippini, indiani o pakistani, nessuno è arabo. Vivono in una zona isolata, in un minuscolo villaggio di prefabbricati, dove non arriva la linea telefonica. Per chiamare casa o fare la spesa, devono raggiungere la cittadina di Nizwa, a un'ora di distanza.
Francis spedisce quello che guadagna a Madras, quando viene pagato, una volta ogni due mesi. Molti non ricevono lo stipendio per mesi e mesi, non hanno copertura assicurativa, protezione sanitaria o diritto alle ferie, ma nessuno protesta per paura di venire allontanato dal posto di lavoro senza la restituzione del passaporto o del permesso di soggiorno.
Con questo spirito, Francis dopo due anni chiede una settimana di permesso per andare a trovare la madre gravemente ammalata. Lo sponsor lo accusa di non rispettare i termini di contratto, e lo minaccia di segnalare il suo nome a tutte le agenzie del lavoro del Sultanato, ma alla fine gli consegna il passaporto.
Il breve soggiorno è un'ubriacatura di parole con la sua famiglia, di incontri con gli amici, di passeggiate nel caos della sua città. Ma è anche l'occasione per entrare in contatto con un'agenzia di collocamento che opera per conto delle imprese degli Emirati Arabi e che gli offre un lavoro come contabile a Dubai, allo scadere del contratto con la società di Muskat. “Prima di ripartire, ho respirato a lungo l'aria acre e umida. Sarei tornato dopo quattro anni”.
Dopo tre mesi dal suo rientro, lo sponsor decide di metterlo alla porta senza pagargli lo stipendio. Nessuna spiegazione, nessuna liquidazione. Deve iniziare a lavorare in clandestinità perché formalmente è ancora legato al suo datore di lavoro, e come straniero può lavorare solo per lo sponsor che lo ha invitato nel Paese. Solo allo scadere del contratto, è libero di muoversi e di presentarsi alla frontiera degli Emirati Arabi. Ma quando è già a Dubai, si ripete lo stesso ritornello: passaporto ritirato, nessun diritto contrattuale, e la paura paralizzante di venire licenziato da un momento all'altro.
Milioni di uomini e di donne alla mercé dei loro datori di lavoro. Milioni di schiavi ancora in cammino verso la libertà.!!pagebreak!!
Uomini e donne usa e getta
I migranti che scappano da situazioni difficoltà economica o sociale, sono spesso i primi a pagare le conseguenze di crisi politiche o economiche che colpiscono i Paesi dove lavorano.
Nel 1997, il crack dell'economia delle Tigri asiatiche ha condannato alla disperazione centinaia di migliaia di migranti che si sono ritrovati, da un giorno all'altro, senza lavoro e con un foglio di espulsione tra le mani.
Muratori, operai, agricoltori stagionali delle Filippine o dell'India, sono stati i primi a pagare le conseguenze per lo scoppio della bolla speculativa. Allora la Malaysia espulse quasi 900 mila lavoratori illegali, la Thailandia 300 mila, la Corea del Sud 146 mila: uomini e donne usa e getta a seconda della salute dell'economia nazionale.
Il più importante investitore “estero”
Emigrazione significa un flusso importante di risorse.
Le rimesse verso i Paesi d'origine rappresentano una componente vitale per queste economie. I soldi che gli emigranti spediscono a casa sono per il Bangladesh, ad esempio, la maggior fonte di dollari dopo la juta.
Una situazione comune a molti Paesi in via di sviluppo che hanno visto una forte emigrazione: anche in Ecuador, le rimesse rappresentano, dopo il petrolio, la seconda voce d'entrata di valuta straniera.
I 7,6 milioni i filippini che lavorano in 150 Paesi del mondo, spediscono a casa qualcosa come 7 miliardi di dollari all'anno, molto più di quanto questo Paese riceve come aiuto allo sviluppo.
Il presidente Gloria Macpagal Arroyo ha definito i lavoratori emigrati, “il più importante investitore estero.”
Il governo ha emesso dei titoli speciali per i filippini che lavorano all'estero, acquistabili a trance di 100 dollaro, che offrono un interesse del 4%.
I sauditi chiudono le frontiere
Dei sedici milioni di sauditi, il 50% ha meno di vent'anni. Negli ultimi anni, la disoccupazione giovanile (tra 20 e 24 anni) ha toccato il 30%.
Questo ha spinto il governo dell'Arabia Saudita a chiudere le frontiere a nuovi immigrati e a imporre alle aziende con più di venti lavoratori, di riservare il 30% dei posti alla popolazione residente. Le aziende però preferiscono reclutare manodopera straniera, perché se i giovani sauditi si rifiutano di lavorare per 875 dollari al mese, i lavoratori qualificati asiatici accettano di essere pagati anche meno della metà.
Anche nel Sultanato dell'Oman la disoccupazione giovanile è in aumento e per risolvere il problema, i lavoratori immigrati sono stati invitati ad andarsene. Tra aprile e giugno 2002, durante un periodo di amnistia annunciato dal governo, 5 mila clandestini indiani hanno lasciato il Paese.
Per venire loro incontro, il governo indiano aveva concordato la riduzione delle tariffe di volo con la compagnia aerea Air India. Molti non hanno comunque potuto affrontare le spese di viaggio o erano sprovvisti del passaporto. Altri hanno invece preferito continuare a vivere nella clandestinità e nello sfruttamento, a fronte di un futuro senza lavoro.