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Intervista

Il silenzio della tortura

Il crimine estremo e i suoi alleati, storici, politici e giuridici. Un libro racconta che cos’è e perché ritorna al centro del dibattito pubblico una pratica che oltrepassa la soglia di ingiustizia di uno Stato di diritto. E che in Italia, ancora, aspetta di essere riconosciuta e normata nel codice penale. Intervista all’autrice, la professoressa Marina Lalatta Costerbosa

“Mi pare impossibile che l’usanza di tormentare […] possa reggere per lungo tempo ancora”. La conclusione di Pietro Verri, filosofo milanese che visse nel ‘700, tratta dalle sue “Osservazioni sulla tortura”, assume oggi i contorni di un peccato di ottimismo. Quel pronostico, infatti, non si era confrontato con il potere ricorrente del “silenzio della tortura”, cui invece ha dedicato un interessante libro (appunto, “Il silenzio della tortura”DeriveApprodi, 2016) la professoressa Marina Lalatta Costerbosa, che insegna Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna. Insieme ad altri autorevoli relatori prenderà parte al convegno “Perché non puniamo la tortura?”, organizzato a Genova il 15 luglio in occasione dei 15 anni dal G8 di Genova.
Nel testo indaga la tortura -“degradazione voluta, segregazione devastante e intenzionale della vittima prescelta”- e i suoi silenzi, ricostruendo le conquiste di quei pensatori che dal Cinquecento avevano tolto la patente a una pratica disumana considerata essenziale. Si spinge fino all’attualità e alla “resistenza” dell’Italia a introdurre nel proprio codice penale il delitto di tortura, nonostante i fatti di Genova 2001 e le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Professoressa, perché ha scelto la chiave del silenzio?
MLC Perché il termine silenzio è un buon modo per riassumere molti profili della tortura. Il silenzio in primo luogo è il nascondimento della tortura, penso all’Italia ma non solo: le recenti e ricorrenti sentenze della Corte di Strasburgo hanno attestato la realtà della tortura entro Paesi sulla carta democratici.
Ma un elemento più addentro al fenomeno è il silenzio che rimanda al meccanismo del funzionamento proprio della pratica di tortura, e non solo oggi. Guardo alla prima modernità, e a come paradossalmente la tortura fosse in grado di produrre e moltiplicare menzogne. Il silenzio ritrae quell’aspetto del nascondimento della verità: ti voglio far parlare in realtà ti metto a tacere. La tortura cioè agisce come fonte creativa di menzogna e anche come potenziale moltiplicatore di menzogna. Perché favorisce una confessione che il torturatore vuole ottenere. La stagione cha ha maggiormente esibito queste potenzialità perverse è la persecuzione della stregoneria, laddove una menzogna alla quale si è creduto era stata ottenuta tramite confessioni estorte e a loro modo prodotte con tortura.
Il silenzio è una chiave di accesso alla natura della tortura. È il silenzio che riguarda l’interiorità dei coinvolti. Nella prefazione che Sartre scrive alla testimonianza di Alleg, giornalista torturato in Algeria per mano francese, sottolinea come la tortura sia un sistema basato sull’intenzionalità. Il dato sistematico (che non significa reiterato), unito all’intenzionalità riflette l’obiettivo principale della pratica di tortura: e l’obiettivo è in apparenza l’estorcere nomi o confessioni, in realtà lo scopo è distruggere la persona che sta davanti. E non primariamente rispetto al suo corpo, ma rispetto all’identità, al rispetto di sé. Se il fine fosse il dolore, perché allora spogliare, umiliare, muoversi su un terreno non doloroso da un punto di vista del corpo? E il silenzio cala come un deserto interiore e confonde lo sguardo della vittima anche rispetto al volto del torturatore, che diventa duplice: aguzzino e “amico”.
Un’altra forma di silenzio è quello della società che tocca il torturato. La responsabilità che la società ha rispetto al non dire nulla a fronte delle torture. L’accettazione, la tolleranza, l’indifferenza diventano un silenzio colpevole nei confronti del torturato, della vittima che si abbandona.
Nel testo documenta la rinascita della tortura, nonostante le conquiste di Beccaria, Montesquieu, Verri. 
MLC Ciò avviene con il ripresentarsi di un’esigenza legata all’impiego della tortura. In passato la tortura era uno strumento essenzialmente giudiziario, una parte codificata di una struttura processuale-penale, la via principale per accertare la verità dei fatti tramite la confessione, la prova regina. Ma anche nel passato, in verità, lo strumento era pure strumento di carattere politico. La stessa Inquisizione dimostra come la tortura, sebbene si presentasse come strumento giudiziario, avesse una funzione di carattere politico. E non c’è una alcuna forzatura nel riconoscere questa dimensione.
L’impiego della tortura è ricorrente fino a giungere agli anni ‘80 del secolo scorso e all’11 settembre 2001, quando si torna a ri-legalizzare una versione ammorbidita della tortura nella sua veste politica più che giudiziaria. È lo strumento che mostra un volto forte, di controllo, in situazioni in cui l’autorità politica perde di efficacia. A riprova di questo è il rapporto che la commissione del Senato Usa nel novembre 2014 ha presentato e poi in larga parte reso pubblico, un rapporto relativo alle torture CIA ad Abu Grahib e a Guantanamo. Il dato che mi ha colpito di più è la ridondanza con la quale si afferma che la CIA non solo ha torturato ma pure che quelle torture erano prive di senso, “inutili”.
John Yoo, giurista “zelante” che ha affiancato l’amministrazione Bush nel definire metodi di interrogatori “legali”, è arrivato ad affermare in un documento ufficiale, secretato e poi reso pubblico, che per riconoscere la tortura fosse necessario dimostrare come le lesioni subite dalla vittima da un punto di vista psicologico fossero permanenti. Come si fa a dimostrare tutto ciò? Si tratta dunque di un ripetersi con modalità molto diverse e ancora più gravi rispetto al passato. Non tanto nel merito ma nella pretesa che tutto ciò sia compatibile con la democrazia.
Il codice penale italiano è ancora sguarnito del reato di tortura, nonostante la Convenzione ONU sulla tortura e la sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.
MLC In quella che ho definito una ‘resistenza’ vedo la conferma di una dinamica di ordine politico che piega la libertà alla sicurezza. In fondo, vi è una difesa del modus operandi impiegato da parte delle forze dell’ordine. È un allontanamento progressivo dalle coordinate fondamentali di un Paese democratico. E questa resistenza, nel suo manifestarsi in una sorta di indignazione, non conferma soltanto i fatti -le torture-, ma anche le intenzioni -si vuole continuare ad operare in questi termini-. È una delle spie dei numerosi momenti in cui il nostro Paese si allontana dalla democrazia.
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