Il sale del deserto – Ae 82
Viaggio in Dancalia, al confine tra Etiopia ed Eritrea. Il turismo e l’economia solidale nella terra degli Afar La Dancalia è una terra ai confini fra Etiopia ed Eritrea, un deserto di sale e lava, una depressione terrestre spezzata dall’assurda…
Viaggio in Dancalia, al confine tra Etiopia ed Eritrea. Il turismo e l’economia solidale nella terra degli Afar
La Dancalia è una terra ai confini fra Etiopia ed Eritrea, un deserto di sale e lava, una depressione terrestre spezzata dall’assurda frontiera fra due Paesi ancora oggi armati l’uno contro l’altro. C’è uno stato di non pace/non guerra lungo questi incerti confini. E il ministero degli Esteri italiano sconsiglia i viaggi in questa regione. Solo la presenza di contingenti delle Nazioni Unite impedisce che il conflitto fra Asmara ed Addis Abeba, scoppiato nel 1998, durato due anni e finito con 80 mila morti, divampi nuovamente. Poche settimane fa, pochi giorni dopo il mio passaggio, un gruppo di turisti (tre diplomatici inglesi, una donna francese e una italo-inglese) sono stati sequestrati nella Dancalia etiopica da un misterioso gruppo di uomini armati e liberati (ma non i loro accompagnatori etiopici) dieci giorni più tardi in Eritrea.
La Dancalia ha una brutta fama. Questa è terra di vulcani, qui Dio e Allah (gli Afar, il popolo che vive in questo angolo di Corno d’Africa, sono musulmani) si sono davvero divertiti a creare un paesaggio da fantascienza. Qui senti vibrare tutte le inquietudini geologiche del pianeta: la Dancalia è l’unico luogo al mondo, assieme all’Islanda, in cui si possono osservare i fenomeni che, milioni di anni fa, hanno dato vita alla Terra.
Viaggiatori, scrittori coloniali, avventurieri, giornalisti hanno sempre scritto, copiandosi l’un con l’altro, che questa terra è inospitale e pericolosa. E pessima letteratura hanno anche gli Afar: “Sono pronti ad ammazzare ogni estraneo in cui si imbattono”, scrisse nel suo noioso diario Ludovico Nesbitt, ingegnere italo-inglese che, nel 1928, attraversò la Dancalia interna. Gli Afar hanno un carattere brusco: sono una popolazione seminomade, si muovono inseguendo il ritmo dei loro animali, la loro economia, in vaste parti della terra in cui vivono, poggia su pascoli difficili, sull’acqua nei pozzi del deserto, sull’estrazione del sale. Un antropologo, Alberto Salza, mi spiegò: “In quelle terre così difficili è bene farsi una cattiva reputazione”. È una società divisa in clan, in famiglie, in notabilati. I loro accampamenti sono piccoli villaggi, spesso provvisori, di burra, capanne di stuoie, dalla forma a igloo. Negli anni ’90, movimenti Afar avevano vagheggiato, con le armi, una possibile indipendenza dei loro territori. A metà dello scorso decennio un accordo fra gli Afar dell’Etiopia e il governo centrale di Addis Abeba mise fine a una guerriglia di bassa intensità (nel 1995, proprio in Dancalia, ne erano stati vittime nove turisti italiani che vennero, anche allora, sequestrati da guerriglieri separatisti) e riportò la pace in questa terra estrema. Frammenti dissidenti, superstiti di quella ribellione, vagano ancora lungo la frontiera fra Eritrea ed Etiopia. E Addis Abeba accusa Asmara di offrire rifugio a questi piccoli gruppi di uomini in armi.
La Dancalia è una frontiera. I turisti ci vengono per la sua bellezza estrema, per i suoi vulcani, per il fascino di ogni deserto. Gli operatori turistici cercano viaggiatori parlando di una irripetibile avventura nella “Terra delle Origini”. National Geographic intitolò un suo reportage come l’esplorazione del “più crudele luogo del mondo”. È sorprendente, quindi, scoprire che le terre degli Afar sono sapientemente organizzate per il turismo. Che questo piccolo movimento turistico (poche centinaia di persone in un anno: si va in Dancalia solo fra l’autunno e l’inverno) ha già contribuito a costruire un’economia. Afar inospitali e ostili? Ad Ahmed Ela, ultimo villaggio della Piana del Sale (qui vivono -cinquecento persone- i cavatori del sale) gli stranieri vengono ospitati in una “capanna per gli stranieri” (dove sono stati sorpresi i turisti inglesi) per la quale si paga una tariffa fissa di una decina di euro al giorno. Lo stesso accade a Ksrawat, villaggio disperso dove si sosta prima in attesa di salire al vulcano Erta Ale. Niente appare improvvisato in Dancalia: i turisti hanno bisogno di un permesso, rilasciato via fax dalle autorità regionali afar, per varcarne i confini. Gli amministratori locali dei villaggi procurano scout, guide locali, cammellieri. Non ci sono trattative: le tariffe sono prefissate. E sono soldi che, secondo gli Afar, servono per sostenere la costruzione di scuole, posti di salute, pozzi. E danno reddito alle guide, agli interpreti, ai cuochi, agli scout, alle donne da cui compri piccoli oggetti di artigianato. Certamente ci saranno corruzione e privilegi, ma il turismo appare ben controllato in Dancalia. Sono davvero una verità assoluta i racconti di chi scrive degli Afar come un popolo di gente spietata?
Chi scende in Dancalia lungo le piste settentrionali di questa regione percorre i cammini delle carovane del sale. In poco più di cento chilometri si scende dalle terre dell’altopiano etiopico, a duemila metri di quota, il più grande dell’Africa, fino alla Piana del Sale, un deserto accecante simile al pack artico, una terra che sprofonda oltre cento metri sotto il livello del mare. La coltre salina dei deserti dancali è profonda più di un chilometro: da millenni i popoli dell’altopiano etiopico consumano il sale della Dancalia. E seguendo a piedi le rotte dei cammellieri si scopre l’economia del sale. Ogni giorno migliaia di dromedari, di muli, di asini scendono e salgono: le loro groppe, al ritorno, sono cariche di mattoni di sale destinati ai mercati di Makallè, la capitale del Tigray, la regione settentrionale dell’Etiopia, e dei villaggi vicini. Il commercio del sale è, a suo modo, una straordinaria economia solidale in una terra così difficile.
In quattro giorni di viaggio, le carovane raggiungono la Piana del Sale. Al villaggio di Ahmed Ela, “il pozzo di Ahmed”, passeranno l’ultima notte prima di raggiungere la cava, dove ogni carovana incontra la squadra di lavoratori che le procurerà il sale. È un sistema di lavoro elementare e sofisticato: sono gli estrattori a sollevare, con due lunghe pertiche, le lastre di sale dalla crosta del deserto. Attenzione: la squadra degli estrattori è composta da tre, quattro uomini. E sono tutti tigrini cristiani, gente dell’altopiano. Una volta sollevata, la lastra verrà passata agli intagliatori. Sono lavoratori specializzati che, accucciati sotto il sole, trasformeranno, con una piccozza dal manico cortissimo, quel lastrone in un ganfur, una mattonella di sale. Può avere tre diverse grandezze: la più piccola, il gerewaini, pesa almeno tre chili. La più grande raggiunge i sei. Ancora attenzione: gli intagliatori sono Afar musulmani. Questo vuole semplicemente dire che nessuno, in Dancalia, può avere il controllo assoluto del commercio del sale. Non ci sono monopoli. Non ci possono essere rivalità. Cristiani e musulmani, in una terra scossa da tensioni religiose, su una frontiera insicura,hanno trovato un’intesa attorno a un’economia preziosa: sono migliaia e migliaia
le famiglie che vivono grazie a un commercio antichissimo.
Attorno alla grande cava del sale i cammellieri attendono che il lavoro sia terminato per poi caricare nuovamente le groppe degli animali e cominciare il viaggio di ritorno verso l’altopiano. La produzione non è casuale, ma è una committenza: i carovanieri ordinano il sale che i loro animali possono trasportare. 30 chili per dromedario. Si calcola che ogni giorno, fra l’autunno e la tarda primavera, in Dancalia vengano cavate 300 tonnellate di sale. Al tramonto il sole riesce ad arrossare perfino la Piana del Sale. I dromedari si muovono con la loro solenne lentezza. È un esodo da Bibbia nera. Le carovane si muovono in fila indiana, in silenzio. I cammellieri avvolgono le loro sciarpe attorno al collo degli animali, sollevano il bastone e lo poggiano dietro le testa, sopra le spalle. Camminano con le braccia appese a questo sostegno. Camminano dondolando verso i canyon che li ricondurranno verso l’altopiano. Ad Ahmed Ela si accendono i fuochi per la cena, un commerciante tigrino ha portato un generatore, un televisore e ha aperto un “bar”. A sera, gli uomini del sale saranno schierati davanti a quello schermo: si guarda, in Etiopia, la televisione eritrea. Le carovane passano, indifferenti, attraverso le capanne del paese. Non smetteranno mai di passare. Questa, credetemi, appare una scena di pace. L’Africa, anche in queste terre estreme, può sorprendere.
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Dove la terra sprofonda sotto il mare
La Dancalia è la parte settentrionale delle terre degli Afar, una popolazione di origine cuscitica del Corno d’Africa (conosciuti, dalla letteratura coloniale, anche come Dancali).
È divisa fra Etiopia, Eritrea e Gibuti. Gli Afar, secondo approssimativi censimenti, sono poco più di un milione e mezzo, e vivono in un territorio vasto 150 mila Km2. In Etiopia, il federalismo etnico del governo di Addis Abeba riconosce, dal 1991, l’autonomia delle amministrazioni regionali degli Afar. La Dancalia, una fossa tettonica che sprofonda ben sotto il livello del mare, occupa un terzo dei territori degli Afar. È un deserto di sale (in epoche quaternarie qui c’era il mare) e lava. È una terra che fa impazzire i geologi: qui si assiste, con chiarezza, ai fenomeni che hanno condotto alla formazione della Terra. Qui si trova l’Erta Ale, uno dei quattro vulcani al mondo dove ribolle un inquieto lago di lava.
La Dancalia in mille pagine
Uscirà l’anno prossimo il libro “definitivo” sulla Dancalia. Luca Lupi, un paziente e coraggioso appassionato di terre vulcaniche, sta ultimando una vera e propria enciclopedia su questa terra. Oltre mille pagine per raccontare geografia e storia della Dancalia. Per saperne di più: www.dancalia.it
E per chi volesse visitare la Dancalia, tra gli operatori turistici che organizzano viaggi nella regione c’è Medir Tour ad Addis Abeba. www.medirtour.com
L’economia dell’otre
Le donne di Berhale, villaggio-capoluogo della Dancalia settentrionale, fabbricano ghirbe speciali, otri in pelle di capra impermeabilizzate. Le affittano ai carovanieri. L’acqua (e il cibo) fa parte del salario che ogni cammelliere paga ai lavoratori che estraggono e tagliano il sale per lui. E la ghirba serve per trasportare e mantenere fresca l’acqua.
Al ritorno verrà riconsegnata alle donne. Si paga un affitto: due mattoni di sale oppure venti birr (meno di due euro). Un sistema di mercato come reagirebbe a questo affitto? Cosa faremmo noi? Certamente, ognuno si fabbricherebbe la propria ghirba.
Oppure la compreremmo: perché pagare un affitto a quelle donne artigiane? Nessuno, lungo le piste del sale, prenderebbe una simile scelta: cosa farebbero le donne senza il loro lavoro? Come sopravviverebbero? Verrebbero messe fuori mercato e fuori dalla società. Verrebbero alterati equilibri. Il costo sociale sarebbe insopportabile per una società fragile come quella dei villaggi afar delle pendici dell’altopiano etiopico. È una piccola saggezza che, forse, questo luogo dell’Africa potrebbe insegnare al nostro Occidente.