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Inchiesta

Il profilo del volontariato italiano

Tutti i numeri che spiegano perché l’impegno civico all’interno di un’organizzazione e il benessere economico vanno di pari passo  

Tratto da Altreconomia 182 — Maggio 2016

Ha studiato molto, gode di buona salute, ha un reddito che gli consente di vivere bene ed è pure soddisfatto della vita. Non stiamo parlando di un manager di successo, ma di chi fa volontariato, chi può permettersi il “lusso” di aiutare gli altri. Un ritratto del volontario medio italiano emerge dall’analisi dei dati dell’indagine Istat del 2014 sugli Aspetti della vita quotidiana. Insieme alla Fondazione volontariato e partecipazione (www.volontariatoepartecipazione.eu) e a CSVnet, il coordinamento nazionale dei centri di servizio al volontariato, l’Istituto di statistica ha sperimentato in Italia il modulo elaborato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), andando a misurare con precisione le caratteristiche di chi fa volontariato e quanto vale economicamente il suo impegno.

La lettura dei risultati mette in crisi molti dei luoghi comuni che, parlando di volontariato, siamo abituati a sentire e sostenere. Scandagliandoli bene, fotografano anche in questo mondo forti squilibri di opportunità. Esiste un’Italia a due velocità, pure nel volontariato. La macchina viaggia spedita, con tutte le fatiche e i difetti naturalmente, a Nord, molto più piano al Sud. Nell’area geografica del Nord-ovest, ad esempio, quando, all’epoca della rilevazione, il tasso di occupazione -il rapporto fra il numero di persone occupate e la popolazione totale- è al 63,8%, il tasso di disoccupazione “solo” al 9,3% e il reddito familiare medio di 32.654 euro, il tasso di volontariato in associazioni registrate è del 4,2%. Dall’altra parte dell’Italia, nel Mezzogiorno, il tasso di volontariato è solo dell’1,7%, con quello di occupazione del 41,8% e di disoccupazione del 20,7%. Numeri che fotografano una situazione socioeconomica in filigrana: dove c’è più disagio c’è anche meno aiuto, non solo da parte dello Stato, ma anche dei cittadini stessi.

“La correlazione fra tasso di occupazione e tasso di volontariato -spiega lo statistico Andrea Bertocchini della Fondazione volontariato e partecipazione, che ha elaborato i dati- niente ci dice del legame di dipendenza, del nesso causale. Non possiamo escludere che si tratti anche di una relazione spuria, cioè senza linea diretta, ossia che l’occupazione favorisca effettivamente il volontariato. Ma l’ipotesi accettabile è che livelli di volontariato e occupazione siano strettamente legati perché espressione entrambi di uno sviluppo sociale simile, generati insomma da uno stesso ambiente storico, culturale ed economico favorevole. C’è più volontariato quindi laddove c’è meno bisogno, mentre dove è più difficile trovare lavoro il tasso di volontariato si affievolisce”.

Che sia un fenomeno a trainare l’altro o viceversa, i dati ci raccontano comunque che partecipazione al volontariato e solidità economica procedono di pari passo, sia a livello territoriale sia a livello individuale. Perché se guardiamo ai profili personali oltre che a quelli socioeconomici, i dati sono sorprendentemente simili nella media italiana: chi contribuisce alle attività svolte dalla associazioni è in media più istruito rispetto a chi non si impegna (il 21,2% è laureato a fronte dell’11,2 degli altri). Chi fa volontariato ha in media 12 anni di istruzione alle spalle, chi non lo fa solo 10,2; ha un lavoro nel 48,9% dei casi e solo il 40,6% di chi non lo fa è occupato. Legge in media 3,5 libri all’anno, contro l’1,9 di chi non si dedica agli altri. In generale è più dedito ai consumi culturali, più interessato ai problemi politici e sociali, più soddisfatto della propria vita e più ottimista per il futuro. I dati possono raccontare la società e quelli sul volontariato ci dicono che le situazioni sociali e personali positive influiscono in maniera determinante sui tassi di impegno. Lo stato di salute, per esempio, rappresenta una variabile influente per la partecipazione al volontariato. Chi fa volontariato sta meglio: i valori rispettivi dell’indice in base 10 dello stato di salute sono di 6,2 per i volontari e di 5,6 per la popolazione nel suo insieme. La salute, si sa, è importante, ma conta il benessere in senso più ampio. Si vede bene se andiamo ad esaminare la propensione ad impegnarsi per gli altri di giovani e donne. I giovani, che in Italia vivono le situazioni di maggiore precarietà, continuano a fare volontariato, ma le difficoltà sono molte. Osservando i dati Istat -elaborati sulla base di interviste a un campione rappresentativo di 40mila persone- i giovani in effetti fanno meno volontariato degli adulti: la fascia di età dove ci si impegna di più è fra i 40 e i 64 anni (circa il 15%), mentre sotto i 35 anni si danno da fare in media fra il 10 e il 12%. 

Non esistono serie storiche di dati da confrontare per capire se i giovani si impegnino di più o di meno rispetto al passato. Ma considerato che la fascia di popolazione giovanile è in calo già da qualche anno, tenute conto le difficoltà sempre più forti nel trovare lavoro e tutto il noto e faticoso contesto italiano, i dati sono incoraggianti. “I ragazzi di oggi -spiega lo statistico Lorenzo Maraviglia che ha elaborato i dati sui giovani e il volontariato- pur vivendo in un mondo profondamente diverso rispetto al passato, non sembrano più ostili ad impegnarsi rispetto ai loro predecessori”. Dall’analisi dei dati viene decostruito anche un altro luogo comune, ossia che i giovani non si farebbero “ingabbiare” dalle realtà organizzate e si impegnerebbero di più in forme inedite e leggere. Il dato parla chiaro: il tasso di partecipazione al volontariato dei giovani è del 10,7%, quelli che si impegnano in forme solo organizzate sono il 6,7%, mentre quelli che lo fanno in maniera individuale il 3,2%. Lo 0,8% fa entrambe le cose. Fra gli adulti dai 30 e i 49 anni il 5,7% lo fa in forma individuale e non organizzata. 

Il dato messo allo specchio conferma: l’età media dei volontari è in linea con quella della popolazione, 48,1 anni a fronte del 48,7 della popolazione nel suo complesso. Ma conferma pure che in Italia chi ha situazioni sociali e personali più solide si impegna di più e cerca di restituire alla società il suo benessere. “L’analisi dei tassi di volontariato -conferma Bertocchini- ci dà la percezione di una maggiore probabilità di fare volontariato dai 45 anni in poi, quando l’attività lavorativa si è consolidata e insieme a quella gli equilibri familiari. In ogni caso il legame fra la propensione a svolgere attività gratuite e il livello di reddito della famiglia di appartenenza emerge abbastanza chiaramente: le disuguaglianze nella partecipazione derivano dal fatto che ad attività extralavorative gratuite può più facilmente dedicarsi chi appartiene a famiglie agiate. In quel caso il tasso specifico è del 5,3%. Meno chi ha risorse economiche adeguate (4,2%) e ancora meno chi vive in famiglie con difficoltà economiche (2,4%)”. La distribuzione dei volontari delle organizzazione in base all’età segue comunque una curva a “u” rovesciata: parte dai valori più bassi della presenza giovanile, sale al crescere dell’età, raggiungendo il picco di presenza per i 45-54enni e poi comincia a declinare via via che l’età si alza e avviene il passaggio alla terza e alla quarta età. La partecipazione di giovani e anziani, dunque, rispecchia il peso di queste fasce di età nella popolazione, mentre sono sovrarappresentate le fasce di età centrali dai 45 ai 64 anni.

La fatica, e la tenacia, di chi si impegna per gli altri emerge anche da un altro focus di ricerca che ha indagato le donne nel volontariato. Sono in minoranza nelle associazioni -il 45% del totale-, ma quando possono sono più generose, donando in media a settimana 18,5 ore contro le 15,4 degli uomini, dunque il 18% in più. “Questo -spiega ancora Maraviglia- perché fare volontariato presuppone una certa disponibilità di tempo ed è molto di più quello che le donne dedicano alla famiglia rispetto agli uomini. Voglio dire che se si considerano le attività domestiche il budget di tempo che donne e uomini dedicano ad attività extralavorative di cura, che siano verso gli altri o verso la famiglia, si riequilibria. Questo porta a dire che il loro impegno vale di più”. Un dato evocativo in questo senso riguarda le casalinghe, la cui presenza “censita” tra i volontari appare dimezzata rispetto al dato relativo alla popolazione (il 7,8% contro il 14,9%). All’interno delle organizzazioni di volontariato sono inoltre spesso cristalizzate condizioni strutturali che penalizzano il ruolo della donna, che si trova ad occupare posizioni di minor prestigio e contenuto professionale: lo “scettro del comando”, ad esempio, continua ad essere soprattutto appannaggio degli uomini, che occupano in 71 casi su 100 ruoli dirigenziali. 

È dimostrato anche che le donne disoccupate fanno più volontariato degli uomini. “In generale -conferma Maraviglia- la condizione di disoccupazione ha un effetto negativo sulla probabilità di svolgere attività volontarie. Può essere spiegato con il fatto che chi è disoccupato ha poco tempo da dedicare ad altre attività perché assorbito dalla ricerca di un lavoro. Considerando invece l’interazione fra disoccupazione e genere, si può osservare che mentre l’effetto negativo della prima sulla propensione al volontariato si intensifica per gli uomini, esso sparisce completamente per le donne”. A differenza degli uomini, le donne disoccupate hanno le stesse probabilità di militare in associazioni di volontariato delle donne occupate o inattive. Tra le motivazione che portano una donna ad impegnarsi con un’organizzazione c’è anche la ricerca di “occasioni di crescita professionale e per cercare opportunità di lavoro”. Oltre le categorizzazioni, sempre utili a capire, il messaggio è chiaro: il volontariato è welfare, ma ha bisogno di welfare

 


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