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Economia / Approfondimento

Il mondo del petrolio è finito ma le aziende fossili non lo accettano

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La domanda di combustibili fossili calerà, anche grazie all’Accordo di Parigi. Covid-19 è stata l’anteprima. I produttori -in particolare statunitensi- continuano però a fissare stime “alte” sui prezzi, facendo rischiare anche i loro investitori

Tratto da Altreconomia 229 — Settembre 2020

L’emergenza Covid-19 sta avendo un forte impatto sull’occupazione e sugli investimenti in tutti i settori, compreso quello dell’energia. E le conseguenze del blocco delle attività economiche sono evidenti anche sulle emissioni di gas a effetto serra. L’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) ha calcolato che le misure di isolamento più restrittive hanno portato a un calo delle emissioni di gas a effetto serra responsabili del riscaldamento globale. Solo nell’Unione europea per il primo trimestre del 2020 le emissioni di CO2 legate all’energia sono diminuite dell’8% rispetto allo stesso periodo del 2019.

A luglio i ministri di decine di Paesi hanno partecipato al primo vertice per la transizione verso l’energia “pulita” organizzato proprio dalla IEA. I delegati hanno discusso di come impostare la ripresa economica in modo sostenibile e resiliente. L’obiettivo è rendere la seconda fase della pandemia un acceleratore della transizione energetica e rafforzare l’impegno verso l’Accordo di Parigi sul clima. Ratificato ormai da 189 Paesi di tutto il mondo, l’accordo ha l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del Pianeta al di sotto di 2 °C, e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 °C. “Per riuscire in questo intento -spiega Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano- bisogna ridurre drasticamente le emissioni di gas serra che provocano l’aumento della temperatura. La scienza del clima ci dice che ci rimane ancora molto poco da emettere ed è necessario arrivare a emissioni nette zero entro il 2050: significa ridurre le emissioni e contemporaneamente assorbire quelle in eccesso, per esempio con l’aumento della superficie coperta da foreste”.

8%: la riduzione delle emissioni di CO2 in Ue nel primo trimestre 2020 rispetto al 2019

Un futuro a basse emissioni prevede quindi un minor uso di combustibili fossili da cui hanno origine. La prima fase dell’emergenza sanitaria ha dato ai grandi produttori di fossili un’anteprima dei prossimi anni. A subire le maggiori conseguenze è stato il petrolio, soprattutto a causa del blocco del trasporto aereo e su strada. I prezzi del combustibile sono crollati. Negli Stati Uniti, con gli impianti di stoccaggio pieni, si sono cercati nuovi spazi dove conservare il greggio. Mentre Arabia Saudita e Russia, invece di ridurre la produzione, hanno estratto più petrolio per fare guerra ai produttori americani sui prezzi.

Dopo l’esperienza di Covid-19, i grandi produttori di petrolio e gas dovrebbero prepararsi al progressivo calo della domanda di idrocarburi. Per farsi trovare davvero pronti occorrerebbe iniziare a prevedere nei loro bilanci interni una riduzione del valore dei prezzi dei combustibili per i prossimi anni. In Europa alcune compagnie petrolifere hanno cominciato a farlo ma le loro previsioni sui prezzi non possono ancora definirsi in linea con gli obiettivi di Parigi. È quanto emerge dal reportImpair state” del gruppo di specialisti di finanza e rischio climatico Carbon Tracker.

Dopo Covid-19 alcune compagnie petrolifere hanno iniziato a prevedere nei loro bilanci interni una riduzione del valore dei prezzi dei combustibili per i prossimi anni

Per il 2020 Total, Repsol e BP hanno aggiornato a ribasso le stime precedenti, passando dai circa 70 dollari a barile a un prezzo di circa 50 dollari. Anche Shell ha abbassato le stime a 35 dollari al barile nel 2020, 40 dollari nel 2021, 50 dollari nel 2022, e 60 dollari al barile dal 2023. Le ipotesi di prezzo precedenti erano state piuttosto alte rispetto al prezzo del petrolio prevalente, questo ha spinto ora le società a prendere posizioni più prudenti. Per le loro previsioni, Total e Repsol hanno fatto riferimento all’andamento della domanda delineato dallo Scenario di sviluppo sostenibile (SDS) della IEA che prende in considerazione un calo dell’uso dei combustibili fossili a lungo termine. BP fa previsioni non troppo distanti da quelle delle compagnie concorrenti, ma che mostrano un andamento del prezzo più stabile nel tempo. Ipotesi di prezzo alte rimangono quelle di Equinor, 80 dollari al barile, e dell’italiana Eni, 60 dollari al barile.

Secondo Carbon Tracker, nonostante questi ribassi le stime delle sei aziende sono ancora troppo alte: “In base alle nostre stime, che fanno sempre riferimento allo Scenario di sviluppo sostenibile, le ipotesi del prezzo del petrolio avrebbero dovuto essere molto più vicine ai 40 dollari al barile”, spiega ad Altreconomia Andrew Grant, autore del report di Carbon Tracker. “I prezzi del petrolio sono sempre più difficili da prevedere. Molti altri fattori li influenzano oltre alla domanda e all’offerta: gli effetti ciclici di crescita e recessione, la geopolitica. Le ipotesi recenti delle aziende sono un passo in avanti ma non ancora sufficiente”.

Con la tabella di marcia fissata dal Green Deal europeo, e con la proposta di legge europea sul clima, l’Europa sta delineando il suo percorso verso la neutralità climatica. “La politica -continua Stefano Caserini- ha deciso che il business delle fonti fossili deve finire. Se ci restano solo 30 anni per raggiungere gli obiettivi sul clima, non c’è più spazio per queste risorse”. Eppure le attività principali delle compagnie petrolifere continuano a basarsi sui combustibili fossili. Nel 2018 i principali produttori di petrolio hanno approvato progetti non in linea con un futuro a basse emissioni di gas serra. Shell ha il nuovo progetto LNG in Canada da 13 miliardi di dollari, BP, Total ed Equinor il progetto Zinia in Angola. Anche Eni continua a investire negli idrocarburi e il nuovo piano strategico 2020-2023 punta soprattutto sul gas. Inoltre per quel che riguarda i compensi dei dirigenti le compagnie petrolifere continuano a pagare in base all’aumento dei volumi di produzione dei combustibili fossili. A queste pratiche si uniscono anche le previsioni piuttosto ottimistiche sul prezzo del petrolio nei prossimi anni. Carbon Tracker definisce questi comportamenti come sintomi di uno stesso principio di fondo che guida le compagnie: l’idea che la domanda di combustibili fossili nell’immediato futuro sarà ancora costante, se non addirittura in aumento.

40 dollari a barile è il prezzo del petrolio secondo le stime di Carbon Tracker che fanno riferimento allo Scenario di sviluppo sostenibile

Secondo il report di luglio della IEA sul mercato del petrolio, nel 2020 la domanda di petrolio dovrebbe perdere circa 7,9 milioni di barili al giorno (mb/d) rispetto al 2019, attestandosi su una domanda totale di 92,1 milioni di barili al giorno. Ma dovrebbe recuperare nel 2021 arrivando a 97,4 milioni di barili consumati ogni giorno, solo 2,6 mb/d in meno rispetto al 2019. La società civile, preoccupata per le conseguenze del cambiamento climatico, e gli investitori internazionali, preoccupati per le conseguenze della transizione energetica, stanno mettendo sotto pressione le compagnie petrolifere. “Previsioni di prezzi bassi del petrolio -afferma Grant- possono essere considerate dagli investitori come un minore interesse da parte delle compagnie a investire in progetti legati ai combustibili fossili”. Di conseguenza, per l’analista, la produzione delle fonti fossili potrebbe bloccarsi e il prezzo ridursi: “C’è il rischio che l’abbassamento dei prezzi possa provocare un rimbalzo della domanda di idrocarburi, compromettendo gli sforzi per ridurre le emissioni. Ma molti fattori possono mitigare questo fenomeno: energie rinnovabili sempre più economiche, costi più elevati dei finanziamenti alle fonti fossili -poiché gli investitori li considerano più rischiosi- e le tasse sul carbonio che hanno l’effetto di aumentare il prezzo per il consumatore”.

7,9 milioni di barili al giorno è la perdita della domanda di petrolio nel 2020 secondo IEA

Le società europee sono per ora più avanti rispetto a quelle americane -come ExxonMobil, Chevron o ConocoPhillips- che non hanno pubblicato svalutazioni dei prezzi del petrolio né hanno preso in considerazione la transizione energetica nella valutazione sulle stime future. “Nonostante la posizione degli Stati Uniti e la decisione di uscire dal trattato di Parigi, l’accordo sul clima è forte. E se Trump dovesse perdere le prossime elezioni in autunno, il petrolio sarà finito definitivamente. O queste compagnie fanno il grande sforzo di riposizionarsi all’interno del mercato dell’energia o sono destinate a perdere molti soldi. Arrivati a questo punto, è improbabile che le politiche sul clima possano essere messe in discussione e queste società non guadagneranno altro tempo”, conclude Caserini.

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