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Opinioni

Il mito fondativo del capitalismo è insensato

Un mito insensato. È quello che fonda l’economia vigente, che è anzitutto una visione del mondo. Bisogna capire che questa visione economica è sostenuta e nutrita da un mito fondatore. Gli aspetti produttivi, commerciali, finanziari, sociali e politici dell’economia sono una conseguenza di questa visione che ha radici mitiche antiche.

Tratto da Altreconomia 138 — Maggio 2012

A loro volta tali radici si sono formate per la forza di un sentimento collettivo dominante nel cuore della nostra civiltà. È l’angoscia della morte, la convinzione -forte come il terrore, ma di solito non avvertita alla superficie degli stati di coscienza quotidiani- che ogni cosa, nella vita, sia destinata alla fine. Nella percezione comune dello svolgersi dell’esistenza si ritiene normale e inevitabile che essa si consumi lungo la parabola che va dalla nascita alla crescita, dall’invecchiamento alla morte, fino al presumibile oblio nel quale annegherà anche il ricordo del fatto che un tempo passammo su questa terra. Così l’uomo sente che la vita è un bene scarso, la natura ci dà scarse possibilità di sopravvivenza e il nostro destino è lottare per avere tutto ciò che possiamo finché la Morte, la grande proprietaria della vita, non ci toglierà tutto. Ecco perché la nostra civiltà crede che esistere sia consumare, lottare, sopravvivere. Ecco perché, dinanzi a evidenti disastri umani, sociali e naturali, molti continuano a credere che il sistema vigente sia ottimo e insuperabile.
Qualsiasi critica dell’economia che sia solo tecnica o politica resta alla superficie, per quanto appropriata, visto che non va al cuore del problema. Il Capitalismo, nel suo nucleo profondo, è un Mito. Finché non si esce dal Mito, le critiche e la realtà stessa non contano. Quando vedo e sento gli esponenti del governo attuale parlare di competitività, di crescita, dell’obbligo di fare ogni sacrificio per incrementarle, anche senza il consenso di quelli che poi dovranno sacrificarsi davvero, mi viene subito da pensare all’intatta potenza del Mito del Capitalismo. Perché persone dotate di una loro competenza scientifica non vedono l’urgenza di un’alternativa? La percezione di quanto vicina o remota, aperta o chiusa sia una possibilità di vita nuova è decisiva nell’orientare i sentimenti, le scelte e i comportamenti dei singoli, come pure, su un altro piano, dei soggetti collettivi e delle istituzioni. E la percezione di quello che è possibile o meno, dipende dal Mito a cui si aderisce e pure dal mondo vitale a cui si appartiene, dalla formazione ricevuta, dalla condizione di vita in cui ci si trova.
Oltre che dal carattere allucinato del Mito del Capitalismo, il perseguimento di una politica sbagliata di risposta alla crisi deriva anche dal fatto che i nostri governanti appartengono a una élite che non ha alcuna conoscenza del lavoro salariato, né dei sacrifici che impongono sulle spalle degli altri. La loro buonafede non impedisce che somiglino a quei farisei che, secondo il Vangelo, mettono sulle spalle altrui dei pesi insopportabili che essi stessi non toccano nemmeno con un dito (Lc 11, 46).
A un mito sbagliato non si può contrapporre la pura razionalità. A parte il fatto che questa non è mai così “pura”, perché comunque è radicata in qualche mito fondatore, la svolta vera sta nel riferirsi a un “mito” più saggio e propizio alla vita. Qui la parola “mito” indica un’interpretazione originaria del mistero della vita e della morte, che viene assunta da popoli e intere civiltà. Deve farci riflettere il fatto che in tutte le sapienze del mondo troviamo miti molto diversi dal Mito del Capitalismo. In queste interpretazioni originarie ricorre un nucleo di senso che provo a riassumere. Esse insegnano che la morte è immessa nella Vita dal nostro delirio, dal male che facciamo. In verità non siamo sottomessi alla morte, ma credendo il contrario cominciamo a riprodurla, a seguire logiche di morte, a esistere mortificando. La vita visibile non esaurisce da sola tutta la Vita. C’è infatti una Vita più grande che ricomprende la nostra vita, che è il tratto di strada in cui dobbiamo diventare responsabili e intensificare la Vita, non tradirla. La Vita stessa è il primo bene comune e la comunità dei viventi. Ognuno deve poter arrivare, con il dono di quanto di bene saprà esprimere, a rendere la Vita intera ancora più infinita e degna di essere vissuta, cosicché essa non sia solo la comunità dei viventi, ma possa diventare la loro comunione piena. E adesso immaginatevi un’economia che traduca questa diversa visione della realtà. Sarà come vedere la società e il mondo per la prima volta. —

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