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Il Kenya non sarà più lo stesso


Le crisi, e le loro tragiche conseguenze,
sono sempre accompagnate da lezioni che devono essere imparate da tutti. Il caos di queste settimane significa che il Kenya non sarà più lo stesso, perché ha portato alla ribalta e focalizzato malattie e problemi che affliggono da decenni questo stupendo Paese.

Il Kenya non può più guardare avanti ignorando le fragili istituzioni dello Stato, la disparità tra uomini e donne, tra classi sociali, la corruzione, la povertà, i politici che vincono a tutti i costi, la revisione della vecchia Costituzione.

C’è bisogno di un cambiamento nella politica, di creare un nuovo ordine democratico che porterà avanti il rinnovamento e le riforme fondamentali e necessarie, prima fra tutte, per aiutare i giovani ad uscire dalla situazione di emarginazione in cui sono stati confinati in tutti questi anni e “usati”, prima e durante questa crisi politica e nazionale.

di p. Daniele Moschetti, www.korogocho.org

Il Kenya ha una grande opportunità di riemergere dalla crisi, più forte e più unito di prima. Ha una grande possibilità di diventare una grande nazione. Cioè di passare da un Paese con 42 etnie diverse a una Nazione coesa, dove una volta per tutte i veri problemi della gente diventano agenda del Parlamento e anche delle “potenti élite locali e internazionali”. Siamo stati e siamo ancora tutti testimoni di quanto l’opinione pubblica internazionale, i media, le nazioni del Nord del mondo, l’Unione Africana, le Nazioni Unite (l’Onu), grossi imprenditori locali e internazionali e tanti altri si siano mossi con tempestività per “salvare” il Kenya. Non tanto per filantropia ma per interessi che vanno oltre il popolo keniano, essendo questo Paese al centro di una strategia geo-politica, economica e militare che interessa a troppe istituzioni: che non discenda la china di una guerra civile senza ritorno.

Eppure la politica dei politici vincenti a tutti i costi, anche quando si perde era stata rifiutata dalla gente già quando il Narc, la coalizione arcobaleno che vinse le elezioni del 2002, venne scelto per guidare il Paese, dopo 24 anni di dittatura del vecchio presidente Daniel Arap Moi (oggi grande sostenitore di Kibaki…) e 40 anni di super potere del partito unico Kanu, al governo dall’indipendenza.

Nel 2002 Mwai Kibaki firmò un accordo-memorandum per condividere i poteri politici con Raila Odinga (oggi maggiore esponente dell’opposizione e accusatore di Kibaki per i grossi brogli elettorali) e Kalonzo Musyoka (oggi vice presidente): se fosse stato promosso seriamente assisteremmo oggi a una differente cultura politica in questo paese.

Nel referendum del 2005 i keniani mostrarono chiaramente che volevano significativi cambiamenti e non cosmesi alla vecchia Costituzione. La coalizione del governo Kibaki perse con più di un milione di voti contro un’opposizione che, guarda caso, comprendeva già coloro che oggi sono sulla scena politica attuale: Kalonzo Musyoka e Raila Odinga, insieme ad altri dissidenti convenuti nella costituzione del movimento di opposizione Odm (Orange Democratic Movement). I cittadini e la società civile volevano la riforma agraria, distribuzione delle risorse e avere più voce in capitolo su come il Paese è governato, la cosiddetta “devolution of power”.

Se la nuova costituzione fosse stata approvata in 100 giorni (una delle 3 famose promesse fatte dal governo 2002 di Kibaki-Raila-Musyoka, insieme lotta alla povertà e alla corruzione: nessuno dei tre obiettivi è stato raggiunto in cinque anni di potere!) avrebbe sancito una condivisione dei poteri fino ad ora concentrati nella figura del presidente; l’istituzione di un potere esecutivo (primo ministro) e della “devolution of power” con altre istituzioni, una distribuzione equa delle risorse nazionali e tanto altro che già era contenuto nelle bozze ormai pronte. Certamente, il Kenya avrebbe fatto un grande passo avanti nella costruzione di una nazione, rispettando le 42 comunità etniche che ne fanno parte. One country, one nation! Questo è lo slogan che oggi sentiamo ripetere spesso dai media locali. Sicuramente abbiamo perso molto tempo…

Ciò che si percepisce chiaramente in questo momento è una crisi della politica e anche le “negoziazioni di pace” sono imbevute della cultura del presidente-padrone, per cui il supposto vincitore vince tutto!! Sia per Kibaki che per Raila. Ed è assurdo che il messaggio che passa ai cittadini è che 4 comunità etniche politicamente in vantaggio numerico (kikuyu, luo, luhya e kamba) comandino le altre 38 comunità etniche; che la provincia Centrale (del presidente Kibaki) e quella dell’Est (vice-presidente Musyoka) hanno il diritto di comandare sulle altre 6 province, dove però hanno ottenuto molto meno voti del  candidato d’opposizione. Anche Raila, che ha rifiutato qualche settimana fa l’eventuale proposta di condividere i poteri esecutivi di Kibaki, dovrebbe ricordare che fu lui stesso a proporre questa suddivisione di poteri nel famoso memorandum 2002, dove lo “sharing of political powers” e la costruzione di coalizioni tra partiti al di là dell’appartenenza a particolari etnie era talmente enfatizzata. Purtroppo molti partiti rappresentano, ancora, solo una o poche comunità etniche. È tempo di uscire da questo labirinto etnico che non porta a far respirare il Paese a pieni polmoni, proprio perché confinati a una politica partitica molto chiusa ed etnica. È per questo che i keniani hanno bisogno di una nuova costituzione prima di arrivare a eventuali nuove elezioni presidenziali, magari dopo un governo di transizione di uno o due anni. Altrimenti non ci sarà nessun passo in avanti nello scenario politico, economico e sociale del Paese. Se “assumiamo”, al di là della diatriba brogli, che Kibaki abbia ottenuto veramente 4,5 milioni di voti e il concorrente Raila Odinga 4,3 milioni -come annunciato dalla Commissione elettorale keniana- perché non potrebbe esserci l’opzione della condivisione dei poteri? Questa sembra anche la via tracciata, in questi giorni, dai mediatori internazionali Kofi Annan, Graca Machel e Mpaka.

Lo status quo non può continuare. Ci deve essere un cambiamento positivo. Ci sono grossi problemi davanti alla nazione e ai politici: disparità sessuale, terre in mano a pochi ricchi e anche divisa etnicamente, estrema povertà e miseria, disoccupazione giovanile, marginalizzazione di alcune comunità etniche, pochi miliardari in mezzo a milioni di poveri  (il 50-60% di keniani vive con meno di un dollaro al giorno), corruzione a tutti i livelli, promozione di interessi militari ed economici stranieri (si noti “l’interesse” che ha la comunità internazionale verso il Kenya) sostenuti da un’élite politica ed economica corrotta, politiche del divide et impera che hanno portato, nel corso degli anni, a questa crisi politica, etnica, sociale ed economica.

In un’eventuale successiva elezione presidenziale del 2012, i keniani dovrebbero rigettare lo status quo simbolo di una politica etnica, di potere e di interessi personali, votando un leader che non sia Kibaki, Raila o Kalonzo Musyoka.

La nascita di una nuova e giovane leadership politica è auspicabile ed è giunto il tempo che anche le Chiese, le varie religioni, la società civile e altre istituzioni si impegnino a formare nuove classi politiche attente alle masse e ai poveri ma soprattutto ai principi e valori del servizio onesto e leale ai propri cittadini, nessuno escluso.

Se le statistiche sono corrette, dicono che l’80 per cento dei keniani sono giovani sotto i 31 anni: come possiamo essere sicuri che i giovani stanno battendosi per difendere gli interessi etnici e non per disperazione, per povertà, marginalizzazione e insicurezza?

È importante mettere nell’agenda dei prossimi anni, a tutti i livelli della società keniana, un lavoro intenso di riconciliazione e interetnicità, focalizzato soprattutto sulle giovani generazioni che hanno già dato prova di “esserci”: nella scuola, nelle chiese, nelle moschee, nelle fabbriche, negli uffici, nella politica, nello sport, nei media e nel governo.

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