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Il dramma quotidiano di una pace negata – Ae 29

Numero 29, giugno 2002Il silenzio uccide il Congo. L'ennesima strage (a Kisangani: si parla di duecento morti in un solo giorno, a metà maggio) non ha trovato spazio sui giornali, sulle televisioni, non ha scatenato l'indignazione dell'opinione pubblica. Non ha…

Tratto da Altreconomia 29 — Giugno 2002

Numero 29, giugno 2002

Il silenzio uccide il Congo. L'ennesima strage (a Kisangani: si parla di duecento morti in un solo giorno, a metà maggio) non ha trovato spazio sui giornali, sulle televisioni, non ha scatenato l'indignazione dell'opinione pubblica. Non ha fatto notizia la sospensione del Simposio per la pace in Africa, voluto dalla società civile congolese e osteggiato, fino all'uso brutale delle armi, dalle autorità locali. A quel simposio avrebbero partecipato anche 200 europei (e noi di AltrEconomia). Un non chiaro “ammutinamento” di militari ha innescato la spirale della repressione, che ha vietato ogni riunione e impedito, di fatto, di intraprendere la strada per la pace.

Le due guerre della Repubblica democratica del Congo, quella del '96 e quella iniziata nel '98 e ancora in corso, hanno causato almeno 2 milioni e mezzo di morti, nella quasi totale indifferenza internazionale. Oggi le alleanze delle varie fazioni che si combattono sono così complesse che in molti parlano di una guerra “continentale”, la “Prima guerra mondiale dell'Africa”.

Kisangani è una città umida della Province Orientale. Si affaccia sul fiume Congo e si estende verso Nord, verso un altro fiume, lo Tshopo. Prima dell'indipendenza dal Belgio si chiamava Stanleyville. Dalla capitale, Kinshasa, dista in linea d'aria quasi 1.300 chilometri: una cosa normale per uno Stato grande otto volte e mezzo l'Italia. Dal 1998 Kisangani e tutta la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (il Kivu) sono controllate dal Rassemblement Congolais pour la Democratie (Raggruppamento congolese per la democrazia, Rcd) una coalizione di congolesi contrari al governo “ufficiale” di Laurent Kabila prima, di suo figlio Joseph poi. L'Rcd, o più semplicemente la “Ribellione”, è alleato dei vicini Rwanda e Uganda, i quali hanno inviato le loro truppe per quella che la popolazione congolese percepisce come una vera e propria occupazione militare.

Lettera morta è rimasto anche il trattato di Lusaka del 1999, che prevedeva, oltre il cessate il fuoco, il ritiro delle truppe straniere e la presenza dell'Onu, che oggi si limita a poche migliaia di militari del Monuc (Missione Onu in Congo). Il conflitto intricato del Congo è ben rappresentato da Kisangani, che dal 1996 ha visto prima gli scontri tra le truppe di Kabila padre alleato ai rwandesi contro l'esercito di Mobutu, poi filorwandesi e filougandesi alleati proprio contro le truppe governative di Kabila e infine rwandesi contro ugandesi, con la sconfitta di questi ultimi.

Una guerra infinita, quella della Repubblica democratica del Congo, atipica perché combattuta su fronti interni ed esterni. Una guerra indispensabile affinché ognuno dei contendenti possa coltivare i propri interessi e mantenere il potere.

Ma non senza la complicità occidentale e delle grandi istituzioni finanziare. Ecco cosa scrive un gruppo di esperti per conto dell'Onu (vedi anche il box in basso): “L'ombra stesa dalla Banca mondiale sul conflitto nella Repubblica Democratica del Congo è ancora più evidente sul piano del bilancio. La bilancia dei pagamenti dell'Uganda e del Rwanda evidenzia un notevole aumento del loro indebitamento a lungo termine a titolo di sostegno del bilancio. Ora, i loro bilanci della difesa sono aumentati in termini assoluti, il che ha consentito loro di continuare la guerra. Occorre quindi chiedersi se la politica della Banca mondiale, quando tratta con i suoi clienti, è quella di fare come se le questioni (sensibili o meno) del buon governo nel senso lato dell'espressione non esistessero”.

Oro, diamanti, coltan, e la guerra si autofinanzia
Una guerra importata, scatenata dalla contesa tra multinazionali del legname e delle miniere d'oro, diamanti, coltan. Ecco la guerra dei Grandi Laghi, due milioni e mezzo di vittime dal 1998, secondo le parole del vescovo di Butembo, Melkisedech Sikuli.

Ed ecco le parole dell'Onu: “Le principali ragioni del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo sono diventate l'accesso a cinque risorse minerarie di fondamentale importanza -coltan, diamante, rame, cobalto e oro- nonché il controllo e il commercio di queste materie prime”. Il “Rapporto del Gruppo di esperti sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali e altre ricchezze della Repubblica Democratica del Congo” svela il circolo vizioso di una guerra che si autofinanzia.

L'affare dei diamanti, per esempio : “I dati raccolti presso qualsiasi fonte terza mostrano invariabilmente che l'Uganda è diventato un Paese esportatore di diamanti; queste fonti sottolineano anche la coincidenza fra le esportazioni di diamanti dall'Uganda e gli anni della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, cioè il 1997 e gli anni successivi ” Oppure il coltan, minerale utilizzato per la fabbricazione di circuiti integrati, ad esempio quelli dei telefoni cellulari: “Il coltan ha permesso all'esercito rwandese di finanziare la sua presenza nella Repubblica Democratica del Congo e quindi di garantire la protezione e la sicurezza delle persone e delle società che estraggono il coltan. Queste ultime ne hanno avuto un beneficio che condividono con l'esercito, il quale a sua volta continua a conservare un ambiente favorevole alla continuazione delle estrazioni”. Il settore privato ha giocato un ruolo determinante. Un certo numero di società &endash;denuncia l'Onu- ha alimentato direttamente il conflitto, scambiando armi con risorse naturali. Altre hanno facilitato l'accesso alla risorse finanziarie che servano ad acquistare armi. Certe società che si dedicano alla commercializzazione delle risorse naturali -nelle quali il Gruppo di esperti vede “il motore del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo”-, hanno creato un clima propizio all'illegalità nel quadro delle attività di estrazione.

Kisangani stop all'azione, l'impegno resta
A Ines chiederesti una ricetta. L'aria tranquilla, da casalinga, non rivelerebbe mai i tre anni passati in Camerun, o i sette passati in Brasile, a lavorare coi sem terra. Eppure lei in Africa c'è andata che erano ancora gli anni '70, e adesso ci stava per tornare, se gli eventi non avessero impedito la sua partenza, come quella degli oltre 200 volontari dell'azione di pace “…anch'io a Kisangani”. Tutti avevano seguito con apprensione l'evolversi dei fatti, le uccisioni, il divieto di tenere riunioni pubbliche. Ma solo la mattina prima della partenza è arrivato il no definitivo, e la delusione per un'impresa finita prima ancora di cominciare.

Ma le utopie si costruiscono momento dopo momento, ti spiega Ines. Come Ines tutti i duecento avevano pagato l'aereo (più di mille euro che probabilmente non verranno restituiti), tutti si erano presi le ferie, tutti avevano portato tra gli amici e negli uffici il dramma della guerra dimenticata dei Grandi Laghi. Gente normale, gli “straccioni della pace” come ha detto don Albino Bizzotto di Beati i costruttori di pace.

Il più giovane, Luca, 18 anni, fino in Congo ci andava a nome di tutto il liceo artistico che frequenta. Ora dovrà spiegare che pur di impedire il simposio per la pace non si è esitato a sparare.

Eppure qualcosa lo hanno fatto. Sono andati fino a Roma in cento, hanno manifestato per le vie, hanno protestato davanti alla sedi Rai per il silenzio dei media. Camillo, assistente sociale, prova a dire perché non sono tornati subito a casa: “Rispondere al bisogno della popolazione di Kisangani, che vuole la pace: ecco l'origine del progetto. Non potevano abbandonarli”.

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