Ambiente / Opinioni
Il commercio della fauna selvatica aumenta il rischio di pandemie
Il business è un veicolo per la diffusione di zoonosi, come successo con Covid-19. In Italia una legge prova a intervenire. La rubrica di Nicoletta Dentico
All’inizio di novembre è stato identificato in Italia un focolaio di influenza aviaria (H5N1) in alcuni polli del Lazio, a Nord di Roma. Un simile focolaio è stato localizzato nello stesso periodo in alcuni polli del Warwickshire in Gran Bretagna. Forse però non tutti sanno che uno dei fattori che in assoluto determina i cosiddetti “salti di specie”, per intendersi gli eventi come quelli che hanno provocato il focolaio e la diffusione di Covid-19, è legato al commercio della fauna selvatica.
Per il Covid-19 si è parlato a lungo del pangolino malese, un piccolo mammifero preda ambita da cacciatori e bracconieri sia per la carne sia per le scaglie, oggi l’animale più contrabbandato al mondo. Del traffico di fauna selvatica in generale però si parla poco, e ancora meno se ne discute nei circoli sanitari internazionali, anche se il problema è ormai riconosciuto. Si tratta infatti di un traffico che riguarda più di 15mila specie vertebrate e un giro d’affari dal valore stimato intorno ai 300 miliardi di dollari l’anno. È difficile computare con precisione quanti siano gli animali oggetto di questo commercio, legale e illegale, ma le proiezioni più accreditate riferiscono di circa 100 milioni di animali sottratti ai loro habitat naturali ogni anno.
Il segnale d’allarme risuona da molti anni. Sono numerosi gli studi che passano in scrupolosa rassegna tutte le potenziali zoonosi che minacciano la salute pubblica, una conseguenza indesiderata della globalizzazione e delle sue interconnessioni commerciali sempre più fitte. Altri studi hanno evidenziato come questi fenomeni incontrollati impongano la necessità di integrare sempre più la salute animale con quella umana. Con l’arrivo di Covid-19, il tremendo impatto dello sfruttamento di specie viventi tramite la proliferazione di commerci e mercati di animali selvatici, fenomeni che mettono a dura prova il nostro Pianeta, è oggi sotto gli occhi di tutti.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 75% delle malattie emergenti ha a che vedere con le specie selvatiche e la maggior parte dei circa 200 episodi di zoonosi conosciuti sono stati causati dal commercio di fauna selvatica. Alcuni esempi? In America si registrano ogni anno più di 70mila casi di salmonellosi da rettili, e più di seimila in Gran Bretagna. Sembra quindi che il commercio legale e il traffico illegale di animali selvatici vivi, molto fiorente anche in Italia, sia un veicolo importante per vecchie e nuove zoonosi, aumentando il rischio di pandemie. Questo business globale è inoltre la seconda più grande minaccia diretta alla biodiversità dopo la distruzione degli habitat. Non a caso l’etologa inglese Jane Goodall è una delle voci più impegnate contro il traffico delle specie selvatiche, attività distruttiva per gli ecosistemi e per la salute umana.
Almeno 19. Le pandemie riconducibili al commercio di fauna selvatica. Si stima che abbiano infettato 1,4 miliardi di persone negli ultimi 100 anni causando circa 87 milioni di morti.
Dallo scorso aprile il commercio, il possesso e l’importazione di animali selvatici ed esotici sono stati vietati in Italia. La svolta è stata resa possibile dal voto a netta maggioranza del Senato che ha approvato in via definitiva la legge di delega europea che prevede il bando di importazione e detenzione di animali esotici e selvatici, oltre a restrizioni al commercio degli animali domestici che dovranno diventare operative entro la prossima primavera. Si tratta finalmente di una scelta di buon senso, non solo per il benessere degli animali ma anche per ridurre il rischio di nuovi focolai ed epidemie dovute proprio al contatto con animali esotici o selvatici. Vista la passione italiana per le specie esotiche, l’attuazione della legge andrà monitorata con grande attenzione.
Nicoletta Dentico è giornalista ed esperta di diritto alla salute. Già direttrice di Medici Senza Frontiere, dirige il programma di salute globale di Society for International Development
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