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Il business del fumo? Sempre più a Sud – Ae 15

Numero 15, marzo 2001Il consumo di sigarette si sposta a Sud. Tra il 1990 e il ‘97 è aumentato del 24,3 per cento in Medio Oriente, dell’8,6 per cento in Asia-Pacifico e del 3,6 per cento in Africa, mentre nello…

Tratto da Altreconomia 15 — Febbraio 2001

Numero 15, marzo 2001

Il consumo di sigarette si sposta a Sud. Tra il 1990 e il ‘97 è aumentato del 24,3 per cento in Medio Oriente, dell’8,6 per cento in Asia-Pacifico e del 3,6 per cento in Africa, mentre nello stesso periodo è calato nei Paesi occidentali: meno 10,9 per cento in Europa, meno 7,6 per cento in Nord America. E diminuisce anche in America Latina e Centrale: meno 16,5%. Merito delle politiche di controllo del tabacco, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità: grazie alle campagne anti-fumo, i consumatori del Nord sanno che le sigarette fanno male (peggio: di sigarette si può morire) e cercano di smettere. Merito anche delle leggi sempre più restrittive. Dal 2002 sui pacchetti di sigarette dell’Unione Europea verranno stampate immagini di polmoni con il cancro e la scritta “Il fumo uccide” e dal 2006 le marche di sigarette verranno bandite dalle sponsorizzazioni della Formula 1. Al Sud questo non accade. E le multinazionali del tabacco ne approfittano con campagne pubblicitarie aggressive o ammiccanti per far salire i consumi.  Attenzione, è un cambiamento epocale: oggi a causa del fumo muoiono 4 milioni di persone l’anno, quasi la metà nel Sud del mondo. Entro il 2030 i morti saranno 10 milioni e il 70% starà nei Paesi più poveri.
Il Sud nuova frontiera per le multinazionali del tabacco, con un grande vantaggio: il controllo del tabacco è debole o inesistente.
Il primo produttore al mondo (per quantità) di sigarette e prodotti di tabacco è la China National Tobacco Corporation (Cntc), di proprietà dello Stato: la Cina sforna 2,5 milioni di tonnellate di tabacco ogni anno, un terzo del totale mondiale. Ma la Cntc non è una multinazionale. I nomi che invece si incontrano più spesso -ovunque e quindi anche nel Sud del mondo- sono tre: Philip Morris, British American Tobacco, RJ Reynolds. Lavorano attraverso joint venture con aziende locali o concedendo a queste lo sfruttamento dei loro marchi.
Nel Sud del mondo le multinazionali hanno mani libere o quasi. A partire dalle confezioni. Se compro un pacchetto di sigarette a Oslo, in Norvegia, trovo 10 diverse indicazioni sulla nocività (tra l’altro: cancro, dipendenza, malattie cardiache, pericolosità durante la gravidanza, fumo passivo), se lo compro a Montreal in Canada le segnalazioni sono 8, in Italia 5, in Danimarca o Nuova Zelanda 4.
Stesso pacchetto di sigarette nel Sud del mondo? Indicazioni generiche di nocività oppure nulla. Non riportano alcun avviso sulla pericolosità del fumo le sigarette vendute in Uganda, Cambogia, Camerun, Niger.
Stesso pacchetto di sigarette significa stesso produttore. Perché allora due pesi e due misure? Perché la legge lo consente: solo il 26% dei Paesi “in via di sviluppo” chiede ai produttori di sigarette di stampare gli avvisi sui pacchetti, contro l’89% degli Stati del Nord del mondo.
Così per la pubblicità. Nei Paesi occidentali la promozione diretta di sigarette e prodotti di tabacco è di solito proibita. Le multinazionali cercano di aggirare le restrizioni con varie sponsorizzazioni: dagli eventi culturali e sportivi alle linee di abbigliamento.

Provate invece a passeggiare per le vie di Dakar, la capitale del Senegal. Cartelloni pubblicitari giganti, ombrelloni per ripararsi dal sole, manifesti di concerti: tutti sponsorizzati dalle marche di sigarette più famose con tanto di pacchetto in bella vista.  E i consumi sono passati dalle 430 sigarette pro capite del 1970 alle 1.050 del 1990. Un aumento del 144% in vent’anni. Il Senegal è stato uno dei primi Paesi africani ad approvare -negli anni ‘80- leggi sul controllo del tabacco: divieto di fumare nei locali pubblici, vietati gli spot televisivi. Ma la normativa è stata modificata per la pressione delle aziende produttrici e oggi la promozione pubblicitaria di sigarette è comune. La strategia: ci si rivolge a un pubblico giovane puntando sul miraggio chiamato America con slogan come “Evadete con Marlboro” o “America arrivo!” (L&M).
Il 93% del mercato senegalese è in mano alla Manufacture du Tabac de l’Ouest Africain (Mtoa), azienda controllata quasi totalmente dalla francese Coralma International, a sua volta di proprietà di Bolloré e Seita, sempre francesi. Mtoa ha poi stretto accordi con alcune multinazionali straniere per produrre sigarette con i loro marchi. In particolare Marlboro e L&M (Philip Morris) e Camel e Gold Coast (RJ Reynolds). Le due multinazionali americane sono in Senegal dagli anni ‘80.

Un altro esempio di pubblicità senza limiti è quello dell’India. Qui la guerra delle multinazionali del tabacco è serrata, l’obiettivo è conquistare i fumatori di bidi, (tipiche sigarette indiane rollate a mano): i dati sui consumi parlano di 1.220 bidi procapite ogni anno, contro appena 150 sigarette. Si calcola che siano 250 milioni le persone che fanno uso costante di tabacco.
Ogni anno si spendono  2,3 miliardi di rupie (103 miliardi di lire) in pubblicità per sigarette e prodotti di tabacco. In testa l’Indian Tobacco Company (Itc), il primo produttore di sigarette del Paese, che nel 1999 ha speso 2 miliardi di rupie (90 miliardi di lire).
Le multinazionali si muovono spesso attraverso le società locali. British American Tobacco ha siglato accordi con Itc per produrre sigarette Benson & Hedges e State Express 555. Philip Morris invece produce Marlboro e Chesterfield attraverso Godfrey Philips India (Gpi) e le vende tramite la controllata Philip Morris India. Ma
Gpi commercializza anche Rothman’s (che dal 1999 è un marchio Bat). RJ Reynolds ha un accordo con il gruppo Mk Modi per i marchi Camel, Winston e Salem.
La pubblicità di sigarette e prodotti di tabacco in India è ovunque: giornali, televisione, cinema. Senza dimenticare le sponsorizzazioni di concerti ed eventi sportivi.

Ma il boccone più ghiotto per le multinazionali resta la Cina, il gigante dove i fumatori sono 430 milioni. Produzione e commercializzazione del tabacco sono in mano all’azienda di Stato, la Cntc, ma negli ultimi anni ci sono state aperture alle multinazionali (tra le altre anche qui Philip Morris, RJ Reynolds e Bat). Le legge cinese sulla pubblicità è molto rigida, non sono ammessi annunci su giornali, radio, televisioni e i pacchetti di sigarette devono riportare la dicitura “Fumare è rischioso per la tua salute”. Ma la norma è facilmente aggirabile: basta eliminare la parola “sigaretta” e promuovere -per esempio- il “piacere del mondo di Marlboro”.

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Le tre grandi sorelle del tabacco
PHILIPS MORRIS COMPANIES INC.
È la più grande multinazionale del tabacco. Ha sede a New York, i dipendenti in tutto il mondo sono 137 mila. Nel 1999 il fatturato è stato di 78 miliardi di dollari (166 mila miliardi di lire), il 60% deriva dal settore tabacco. I marchi più noti sono Marlboro, Merit, Chesterfield, Muratti.
Philip Morris controlla anche Kraft Foods (34% del fatturato, marchi come Philadelphia, Milka, Toblerone, Suchard, Sottilette, caffè Hag e Splendid), Miller Brewing Company (6% del fatturato, produce tra l’altro le birre Miller e Foster) e la società finanziaria Philip Morris Capital Corporation. Nel dicembre 2000 Philip Morris ha acquistato la Nabisco Holding Corp., gigante alimentare da 8,4 miliardi di dollari di fatturato (quasi 18 mila miliardi di lire).

BRITISH AMERICAN TOBACCO PLC
Sede a Londra, 90 mila dipendenti e un fatturato di 11 miliardi di dollari (23 mila e 400 miliardi di lire). Le sue sigarette più famose: Lucky Strike, Dunhill, Pall Mall. Nel 1999 si è fusa con Rothmans e ne ha acquisito i marchi. Controlla anche l’americana Brown & Williamson Tobacco.
La rivista statunitense Multinational monitor ha inserito la Bat tra le 10 peggiori aziende del 2000, per il suo coinvolgimento nel contrabbando di sigarette (come emerge da documenti segreti della multinazionale e dall’inchiesta del quotidiano The Guardian: www.guardian.co.uk/bat).

RJ REYNOLDS TOBACCO PLC
Sede a Winston-Salem (Usa), 7.800 dipendenti e 7,6 miliardi di dollari di fatturato (16 mila e 600 miliardi di lire). Ha fatto parte della RJ Reynolds Nabisco fino al 1999, anno in cui il settore tabacco è diventato autonomo. Tra i marchi più noti: Camel, Winston, Salem.

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Thailandia. Lotta serrata al fumo
La Thailandia ha una delle più severe leggi anti-fumo al mondo. E fino al 1989 esisteva anche un blocco quasi totale sull’import di tabacchi esteri. Gli strumenti adottati: tasse elevate, bando della pubblicità, monopolio governativo sulla produzione di sigarette. Il Thailand Tobacco Monopoly (Ttm) è infatti l’unico produttore legale di sigarette del Paese e dipende dal ministero delle Finanze.
Ma nel 1989 la United States Export Association, che riunisce Philip Morris, RJ Reynolds e Brown & Williamson (una sussidiaria della Bat) ha fatto pressioni appellandosi al Trade Act del 1975 (legge Usa sul commercio) e al Gatt per spingere il governo thailandese ad aprire le frontiere: nel ‘91 per la prima volta le sigarette straniere sono entrate legalmente nel Paese.
Ma le restrizioni restano ferree: sono proibite le pubblicità su qualsiasi mezzo di comunicazione (tranne quelli stranieri) così come la distribuzione di campioni gratuiti e di articoli promozionali. Gli avvisi sulla nocività del tabacco devono occupare almeno il 33% del pacchetto di sigarette, non esistono distributori automatici di sigarette e la vendita è proibita ai minori di 18 anni. Dagli anni ‘70 è vietato fumare nei luoghi pubblici. Inoltre, le aziende straniere devono comunicare al ministero della Sanità gli ingredienti di ogni marca di sigarette commercializzata.

Le regole non sempre vengono rispettate: pubblicità su giornali e manifesti, oltre che su cappellini, magliette e quant’altro, venivano utilizzate già negli anni ‘80, quando l’importazione di sigarette straniere era limitata. E poi le aziende ricorrono a sistemi promozionali indiretti: esposizione dei marchi nei punti vendita dei prodotti da fumo, sponsorizzazioni di concerti ed eventi artistici, donazioni di denaro ad associazioni di beneficenza, vendita di abbigliamento come “Marlboro Classic” e “Camel Trophy Adventure”.

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Dal 1945 in Italia bandita la pubblictà di sigarette e affini
Tabacco: divieto di apparizione
Negli Stati Uniti il consumo di sigarette non può essere promosso in televisione, radio o con manifesti. Ma la pubblicità è consentita sui giornali, con l’obbligo di pubblicare anche avvertenze sulla dannosità del fumo. Non vengono limitate le pubblicità indirette, attraverso la cosiddetta “diversificazione dei marchi” (la marca delle sigarette, per esempio, diventa anche il nome di una linea di abbigliamento). Si stanno però studiando norme più restrittive. Simili norme anche in Canada e Australia.
L’Unione Europea vieta la pubblicità in radio e Tv dal 1989. Alcuni Paesi hanno leggi più severe di altri: in Portogallo, Italia e Francia è bandito qualsiasi tipo di pubblicità dei prodotti da fumo. Altri Paesi sono più permissivi, ma ancora per poco: la direttiva europea 98/43 dà tempo fino al 2006 agli Stati membri per l’introduzione del divieto totale di pubblicità del fumo.
In Italia la pubblicità di sigarette e prodotti a base di tabacco è proibita fin dal 1965. Le sanzioni per la violazione della legge possono arrivare a 50 milioni di lire. Ma anche da noi ci sono molti modi per aggirare la legge: le marche di sigarette sono diventate “griffe” di moda, sponsor di gran premi di Formula uno o altre manifestazioni sportive, sponsor di eventi culturali.
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La conquista dell'Est
Nuovo obiettivo economico -con il Sud del mondo- è l’Europa Orientale. Caduta della Cortina di ferro, privatizzazioni delle imprese statali, basso costo del lavoro. Ma soprattutto nuovi mercati da conquistare. Ecco le parole magiche che hanno attirato anche qui le multinazionali del tabacco.
Emblematico il caso dell’ex-Unione Sovietica. I colossi multinazionali sono arrivati in tutte le Repubbliche con impianti per la produzione di sigarette, tramite partecipazioni nelle società locali o con nuove realizzazioni. A partire dalla Russia. Con 40 milioni di fumatori (110 milioni in tutta la Federazione Russa), tra cui il 60% della popolazione maschile, e un consumo procapite di 1.757 sigarette l’anno, la Russia è il maggior mercato in Europa e il quarto nel mondo per grandezza.
Nel 1995, 61 milioni di sigarette (il 44% del totale russo) era prodotto in 8 stabilimenti in cui Philip Morris, RJ Reynolds, Bat e altre aziende minori avevano tra il 49% e il 92% delle quote, quindi il controllo totale.
Tra il 1992 e il 1998 le multinazionali hanno investito oltre 1 miliardo di dollari (2.100 miliardi di lire) nell’industria russa del tabacco. E gli affari sembrano andare a gonfie vele se le “tre grandi” hanno deciso di aumentare gli investimenti. RJ Reynolds nei prossimi due anni spenderà 120 milioni di dollari (255 miliardi di lire) per trasformare la fabbrica di San Pietroburgo nel suo più grande impianto produttivo al di fuori degli Usa. Philip Morris sborserà 200 milioni di dollari (425 miliardi di lire) per un impianto vicino a San Pietroburgo che dovrebbe produrre 50 milioni di sigarette l’anno.
“La situazione è tipica di tutti i Paesi dell’ex-Urss”, sottolinea lo Iuf, l’unione internazionale dei sindacati alimentari e del tabacco.
L’ex-Unione Sovietica è un boccone ghiotto non solo per le dimensioni del mercato, ma anche “per i bassi salari e la debolezza dei sindacati”.
L’espansione delle multinazionali del tabacco è accompagnata da una massiccia campagna pubblicitaria. Le sigarette d’importazione rappresentano il 40% di tutta la pubblicità russa. La legge ha proibito gli spot televisivi che riguardano le sigarette, ma li permette su carta stampata e manifesti a patto che riportino avvisi sulla nocività del prodotto. Le tattiche delle multinazionali per  la promozione dei prodotti vanno poi dalla distribuzione di campioni gratuiti, alla sponsorizzazione di eventi sportivi, alla creazione di marche locali e slogan che si rifanno al sentimento nazionalista russo. È il caso delle sigarette “Pietro il Grande” di RJ Reynolds.
Anche in Ucraina le grandi del tabacco sono arrivate dopo il 1990 acquistando le fabbriche in via di privatizzazione: il 30% è in mano a società estere. La prima, con un terzo del mercato locale, è la tedesca Reemstma che ha conquistato il successo con la creazione di marche locali. La prima società a stelle e strisce a metter piede sul suolo ucraino è stata la RJ Reynolds nel 1992. Prima dell’indipendenza le pubblicità di sigarette erano proibite, oggi sono permessi gli annunci su giornali e manifesti, ma anche le pubblicità stampate su magliette e gadgets. In Ucraina il 60% della pubblicità è relativa ad alcol e sigarette straniere. Gli slogan sono i soliti e puntano sul desiderio di evasione: “assapora la libertà” o “assaggia l’Occidente”.
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Piano di riassetto per l'Ente tabacchi
Le sigarette italiane non “tirano”
In Italia le sigarette -ma anche sigari, tabacco, sale e carta- sono prodotte dall’Ente tabacchi (Eti). Ex monopolio di stato, società per azioni dallo scorso anno, è in via di privatizzazione. Che fa rima con “riassetto” o “ristrutturazione”, se volete: per diventare appetibile l’Eti deve sgravarsi di 3.584 dipendenti e di 28 impianti tra stabilimenti produttivi e magazzini. Il riassetto è iniziato nel 2000 e terminerà nel 2002. Anche l’assetto societario deve diventare più snello e puntare su produzione e distribuzione. Proprio come i principali concorrenti europei. Che, tolte le grandi multinazionali, si chiamano Austria Tabak e poi Seita (Francia) e Tabacalera (Spagna): queste due si sono fuse nel 1999 dando vita a Altadis, nuova società che si piazza al quarto posto nella classifica dei più grandi produttori mondiali di prodotti di tabacco. Ma i problemi dell’Eti non finiscono qui: quello del tabacco è un mercato “maturo” -sottolinea il piano di riassetto- cioè stabile. È così anche il mercato italiano: stabile, con un aumento “della quota dei prodotti importati e dei prodotti su licenza a fronte di un consistente decremento dei prodotti italiani”. In altre parole: le sigarette di Philip Morris importate o preparate su licenza dallo stesso Ente tabacchi vendono sempre di più, arrivando a occupare il 59% del mercato italiano per quantità. Le sigarette targate Eti (MS, Alfa, Nazionali, per intenderci, ma anche i sigari Toscani) non hanno un grande successo: nel 1989 la quota di mercato era del 56%, nel 1998 era crollata al 35%. Il motivo? La qualità dei prodotti non è alta e si posiziona in una fascia di prezzo medio-bassa. Da qui la ricetta per il riassetto.
Primo: “valorizzare i business prodotti da fumo e distribuzione”. Secondo: “razionalizzare e dismettere le attività” non strategiche, cioè carta, sale, filtri, premanifattura. E il sale in particolare, che nel ‘98 ha segnato 12 miliardi di perdite. Andrà quindi cambiata la struttura societaria attuale. Oggi dall’Ente dipendono altre quattro società: Ati (premanifattura tabacchi), AtiSale, AtiCarta, Filtrati Spa.
Altra strategia: l’internazionalizzazione. Oggi l’Ente tabacchi esporta in Francia e Germania, ma progetta di raggiungere Spagna, Grecia, Belgio e Lussemburgo. E poi sono in fase di studio joint venture per la produzione di sigarette in Sud America e Asia.

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Rotte complici
e multinazionali del tabacco sono complici del contrabbando di sigarette. Ne è convinta l’Unione Europea, che il 6 novembre scorso ha denunciato due tra i maggiori produttori al mondo di sigarette -Philip Morris e RJ Reynolds- presso il tribunale di New York, chiedendo il risarcimento per il danno economico subìto. La vendita di sigarette di contrabbando equivale infatti a imposte che l’Ue non può incassare: circa 2 miliardi di lire per ogni container. Saranno i giudici americani a stabilire l’entità del risarcimento; le perdite dei Paesi membri dell’Ue sono state di 20 mila miliardi di lire nel 1998-’99.
E alla denuncia dell’Unione Europea ha aderito anche il governo italiano, alcune settimane dopo. Si potrebbe così arrivare a un assurdo: l’Italia denuncia Philip Morris e RJ Reynolds ma intanto continua a produrre su licenza proprio le sigarette di Philip Morris.
Ma cosa c’entrano le aziende del tabacco con i contrabbandieri? Secondo l’Ue i trafficanti di sigarette comprano la merce direttamente dalle multinazionali, che ne sono consapevoli ma non fanno nulla per impedirlo. Anzi, secondo la rivista Tobacco Control il contrabbando è vantaggioso per le aziende stesse perché permette vendite maggiori ed è un sistema per entrare in mercati chiusi (come quello cinese, per esempio, dove ogni anno vengono importati clandestinamente 40 milioni di sigarette).
Le marche più diffuse sono quelle americane, come Marlboro e Camel. Le sigarette di contrabbando vengono acquistate legalmente dalle aziende produttrici negli Usa e arrivano al porto di Anversa in Belgio come merce “in transito”.
Ufficialmente si tratta di sigarette destinate a Paesi extraeuropei, come il Nord Africa. Per questo sono esenti da tasse. Ma una volta lasciata Anversa, se ne perdono le tracce.
Tre le rotte principali. La prima dal Belgio porta in Svizzera. Qui le sigarette non sono più sotto la legislazione Europea e ricevono una nuova destinazione, che di solito è l’Europa dell’Est o l’ex-Unione Sovietica.
Il secondo percorso: dal porto di Anversa arrivano agli aeroporti di Belgio e Paesi Bassi e da qui raggiungono di nuovo l’Europa orientale. Dai Paesi dell’ex-Cortina di ferro rientrano quindi in Unione europea, dirette soprattutto in Germania e Italia (qui arrivano soprattutto da Albania e Montenegro, Paese che sta diventando il nuovo centro di smistamento del contrabbando).
Terza rotta: dal Beglio arrivano direttamente in Spagna, Andorra a Portogallo.
Nel 1996 in Europa sono entrati 100 milioni di sigarette “duty-free” per un valore di 14 miliardi di dollari (quasi 30 mila miliardi di lire).
Il testo della denuncia dell’Unione europea si può scaricare dal sito http://www.nyed.uscourts.gov/pub/ruling/CV/2000 cliccando sul file 00cv6617cmp.pdf

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Sempre più numerose le cause legali perse dai produttori di sigarette
La multinazionale nuoce gravemente alla salute
La storia recente delle multinazionali del tabacco è scritta su carta bollata. La prima causa giudiziaria è del 1954 quando un fumatore si ammala di cancro e sporge denuncia: sul pacchetto di sigarette non veniva segnalata la pericolosità del fumo. Bisognerà però aspettare il 1965 perché i primi avvisi anti-tabacco compaiano sui pacchetti. Le multinazionali hanno sempre negato l’esistenza di un legame tra il fumo delle sigarette e il cancro. Ma molti studi medici provano esattamente il contrario. Nel ‘94 il Mississippi è il primo Stato americano a chiedere un risarcimento per le spese sanitarie sostenute per le malattie da fumo. In 24 seguiranno il suo esempio. Da quell’anno in poi i produttori americani di sigarette diventano protagonisti abituali dei tribunali. E nel 1998 ammettono che il fumo potrebbe provocare il cancro. Nel 1999 Philip Morris perde due cause contro privati cittadini: i giudici decidono risarcimenti per 131 milioni di dollari (280 miliardi di lire). Ma la cifra record è dell’anno scorso. Il tribunale di Miami, Florida, stabilisce che le multinazionali sono colpevoli dei danni provocati ai fumatori. E devono pagare: Philip Morris, RJ Reynolds, Brown & Williamson (di proprietà della Bat), Lorillard, Ligget dovranno sborsare 145 miliardi di dollari, vale a dire più di 300 mila miliardi di lire. Ovviamente le aziende condannate ricorreranno in appello. Intanto, forte della sentenza americana, il Codacons, associazione per la tutela dei consumatori, mette a disposizione una linea telefonica per chi volesse intentare una causa per danni da fumo attivo (info: www.codacons.it, tel. 06-37.25.809). La prima denuncia itaiana è partita l’anno scorso: è quella di due privati cittadini contro l’Ente tabacchi italiani (Eti). I processi contro le multinazionali del tabacco hanno anche reso pubblici molti documenti aziendali inediti. Per farsi un’idea potete visitare i siti: http://tobacco.who.int/en/industry/index.html , http://www.pmdocs.com , http://www.bw.aalatg.com , http://www.rjrtdocs.com

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