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Idee eretiche

Come si può pensare di mantenere l’ordine di questo sistema delirante riesumando le pratiche della schedatura etnica? Una società che trova normale prendere le impronte ai bambini è una società senza speranza

Tratto da Altreconomia 97 — Agosto 2008

Una speranza per tutti esiste. Questo dato riguarda direttamente il senso e i modi della vita economica semplicemente perché riguarda ogni aspetto della vita.
Tale speranza è radicata nella comune umanità di cui siamo intessuti, nonostante tutte le differenze. È insita nel fatto che la nostra esistenza è in sé una domanda, un’apertura, una ricerca, una speranza vivente. E lo è nell’intreccio dei percorsi di vita, come in una trama ricchissima di differenze ma unica, per cui ignorare o negare gli altri vuol dire, in definitiva, fare del male a se stessi.
Per vedere e per sentire nel cuore la speranza umana riunita bisogna riconoscere la tensione dolorosa in cui siamo tutti. Da un lato siamo attratti da una meta che è oltre quanto già conosciamo. Meta che si può chiamare felicità, realizzazione di sé, amore riuscito, bene, liberazione, armonia. Ma dall’altro lato siamo feriti dalla sofferenza, dai fallimenti, dai lutti, dalle nostre stesse miserie, dal male. Nella tensione tra la festa desiderata e lo scacco, vive la speranza.
La speranza onesta e illuminata sorge quando impariamo che volere il nostro bene escludendone gli altri non ha senso. Quando ci rendiamo conto del fatto che la sventura altrui o l’indifferenza precludono la felicità a tutti. La speranza vera è universale o non è. Universale non perché astratta o generica; al contrario, universale perché accoglie l’unicità di ognuno, le storie, i volti, le aspirazioni, le sofferenze, la bellezza di ogni vita. E assume tutto questo nella gestazione di una realtà completamente diversa.
Qual è allora il rapporto tra l’economia e la speranza umana? Innanzitutto dev’essere un rapporto tale per cui l’economia riconosce il suo limite: il sistema economico
-dalla produzione alla distribuzione, dal consumo agli investimenti, dalle scelte quotidiane dei singoli alle dinamiche di scala mondiale- non deve negare o usurpare la speranza umana. Non può né seminare fame, oppressione e precarietà, né imporre false rappresentazioni del progresso e del futuro, come ad esempio il dogma della crescita del Pil o la vittoria sull’economia di altri Paesi.
Quant’è stupido sognare di sgominare l’economia degli altri, di metterli alla fame, per poi illudersi di poterli sfruttare ancora? O di ignorarli, di sedarli con la politica degli “aiuti”, oppure di ributtarli in mare se si presentano da noi per raccogliere qualche briciola? E come si può pensare, dopo gli orrori del Novecento, di mantenere l’ordine di questo sistema delirante riesumando le pratiche della schedatura etnica?
Sì, perché, se è giusto contestare la persecuzione nei confronti dei rom, giudicati in blocco in quanto etnia, bisogna anche dire chiaramente che i bambini cui si prendono le impronte non sono rom o extracomunitari o che altro: sono bambine e bambini, punto e basta.
La riprova della bontà di un’economia, di una politica, di una civiltà si ha chiedendosi quale sia la sorte che esse riservano ai bambini. Viene in mente il monito del Vangelo: “per chiunque è di scandalo per questi bambini, sarebbe meglio che gli fosse appesa al collo una pietra da mulino e fosse gettato in mare” (Mt 18, 6). Oggi come allora queste parole non vanno prese, evidentemente, come un invito a fare violenza a qualcuno; esse sono invece lo specchio di quello che stiamo accettando. Una società che trova normale prendere le impronte ai bambini è una società senza speranza.
Il rapporto tra economia e speranza, inoltre, dev’essere tale per cui l’economia viene organizzata per togliere gli esseri umani dalla disperazione materiale, dalla coazione a subire o a fare violenza, dalla penuria e dalla precarietà. L’economia funziona, è sana, se è un’economia di servizio. Non può essere un’economia di mercato, di Stato, un’economia del capitale e neppure del lavoro come fine in sé. Dev’essere invece un’economia di servizio ai bisogni delle persone e dei popoli, di servizio alla convivenza con la natura, di servizio all’accoglienza delle nuove generazioni.
Se non è di servizio, l’economia diventa una macchina che produce morte. Ecco che cosa c’è in gioco nella speranza di un’altra economia: uscire da un sistema mortifero per realizzare ciò che è degno della nostra umanità.
Dell’umanità di tutti, senza esclusi né nemici.
 

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