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Ambiente / Approfondimento

I negazionisti della crisi climatica e le inserzioni milionarie su Facebook

© Barefoot Communications - Unsplash

Negli Stati Uniti diverse organizzazioni non profit conservatrici comprano annunci sui social per diffondere disinformazione sul cambiamento climatico e minimizzarne gli effetti. L’Ong InfluenceMap ha fatto luce sulle fonti di finanziamento e sulle responsabilità dei colossi della Rete

“I conservatori sono pro-scienza mentre la sinistra è pro-panico: il cambiamento climatico è una bufala!”. Questo è il titolo di una pubblicità che a dicembre 2020 era ancora in circolazione su Facebook, pagata da Turning Point USA, ente non profit statunitense. InfluenceMap, organizzazione di ricercatori nata a Londra nel 2015 per analizzare il condizionamento che le aziende esercitano sulle politiche ambientali dei governi, ha individuato sul social network decine di inserzioni a pagamento che hanno diffuso disinformazione sui cambiamenti climatici negli Stati Uniti raggiungendo oltre otto milioni di visualizzazioni. Il 14 settembre 2020 Facebook ha lanciato il Centro informazioni sulla scienza del clima, annunciando di essere “impegnato a contrastare la disinformazione scientifica” attraverso i suoi programmi di fact-checking. Eppure solo una delle 51 pubblicità individuate era stata rimossa quando InfluenceMap ha pubblicato il suo studio, in ottobre.

Analizzando gli annunci nel rapporto “Climate Change and Digital Advertising“, InfluenceMap ha sottolineato un elemento interessante: tutti gli inserzionisti sono organizzazioni non profit conservatrici, le cui fonti di finanziamento non sono però pubbliche. Il direttore di InfluenceMap Dylan Tanner ha spiegato ad Altreconomia che se negli ultimi anni “l’esplicita diffusione di disinformazione sul clima da parte delle aziende del settore fossile è quasi scomparsa, parallelamente è aumentata quella condotta da think tank e altre organizzazioni di cui sono sconosciuti i finanziatori”.

Tra queste, la CO2 coalition di Arlington, in Virginia, che sostiene che “il riscaldamento globale genererà un grande beneficio per la vita sulla Terra” e secondo la quale è in atto una “campagna di demonizzazone dell’anidride carbonica”. O PragerU, piattaforma online che, come si legge sul sito, intende “educare milioni di giovani ai valori che fanno grande l’America”, ora sotto attacco da parte delle “forze anti-americane di sinistra”. Ma chi finanzia queste organizzazioni per diffondere falsità sul riscaldamento globale?

Questa informazione non è accessibile. Negli Stati Uniti le organizzazioni non profit conservatrici ricevono infatti finanziamenti da fondi di beneficenza quali il Donors Capital Fund e il Donors Trust, che a loro volta sono sostenuti da numerose aziende. Ma questi fondi, nel momento in cui sovvenzionano determinate organizzazioni senza scopo di lucro, non sono obbligati per legge a divulgare la provenienza del denaro. Ecco dunque spiegato come alcune aziende non identificabili abbiano trovato il modo di finanziare queste campagne di disinformazione sul clima senza poter essere individuate come responsabili.

InfluenceMap ha invece avuto accesso al profilo dei destinatari delle inserzioni. Tramite la Facebook Library Ads, resa pubblica dal 2018 in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica, è infatti possibile accedere alla distribuzione geografica e demografica delle pubblicità. Chi ha “aperto” gli annunci sono soprattutto uomini sopra i 55 anni, residenti in aree rurali degli Stati Uniti, in gran parte negli Stati del Texas e del Wyoming (dove alle elezioni presidenziali del 3 novembre 2020 ha prevalso Donald Trump con rispettivamente il 52,1 e il 70,4%).

 

Distribuzione geografica delle inserzioni pubblicitarie che diffondono disinformazione sul cambiamento climatico negli Stati Uniti © InfluenceMap

Tra le strategie di disinformazione analizzate nel rapporto di InfluenceMap, la più comune consiste nell’attaccare la credibilità della scienza climatica e del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), la più autorevole fonte in materia. La seconda tattica, maggiormente efficace con gli over 55, mira a mettere in dubbio che il fenomeno sia causato dalle attività umane. Tra i giovani dai 18 ai 34 anni, invece, hanno più presa i contenuti che negano la gravità degli impatti del fenomeno. I giovani, infatti, sembrano essere più sensibili agli argomenti che sminuiscono le conseguenze dei cambiamenti climatici piuttosto che alla totale negazione della loro realtà o delle cause. Secondo Giulio Corsi, dottorando all’Università di Cambridge che studia i meccanismi di disinformazione sul clima, “ciò è in linea con la tendenza recente a forme di negazionismo sul clima più attenuate”.

Corsi spiega che “la nuova versione soft del negazionismo sul clima spesso si manifesta in una narrazione dicotomica tra realisti e allarmisti”, che non nega l’esistenza del riscaldamento climatico ma la sua gravità, opponendo “gli ‘allarmisti’, incarnati da Greta Thunberg e dipinti come catastrofisti impulsivi, ai ‘realisti’ che considerano i fatti in maniera razionale e lucida”.

Anche InfluenceMap ha riscontrato questa strategia narrativa in circa 30 inserzioni che associano gli scienziati del clima a “gruppi di allarmisti di sinistra”. Nel rapporto queste pubblicità non ricadono nella categoria di disinformazione perché non contengono falsità, nonostante cerchino di danneggiare la credibilità della scienza del clima.

Ma, come afferma il direttore di InfluenceMap, “non sempre è facile stabilire se si tratta di disinformazione”. Analizzando le pubblicità, Dylan Tanner e i suoi colleghi hanno notato “un frequente utilizzo di periodi che contengono due frasi, una vera e una falsa, strategia usata intenzionalmente per alimentare la confusione e il dubbio”. Ad esempio, si ammette la gravità del cambiamento climatico sostenendo tuttavia che la soluzione risieda nelle tecnologie e nel libero mercato. Secondo Tanner “qui non si tratta più di opinioni: l’Ipcc si esprime chiaramente e da tempo sull’urgenza di regolamentare e imporre limiti al mercato, motivo per cui affermazioni di questo tipo costituiscono forme di disinformazione.”

Ma Facebook, talvolta anche per giustificare il non intervento su pubblicità di negazionismo climatico ben più esplicito, continua a sostenere che il fact-checking “non deve interferire con l’espressione individuale, le opinioni e il dibattito”. Secondo Dylan Tanner, il colosso dei social media “ha una grande responsabilità nel controllare la disinformazione dato il suo enorme potere e il suo ruolo nella costruzione dell’opinione pubblica”. E questo è anche il parere dei quattro senatori del Partito democratico statunitense, tra i quali la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, che il 15 luglio scorso hanno scritto una lettera a Mark Zuckerberg chiedendo “di porre rimedio alle falle che consentono alla disinformazione sul clima di continuare a essere diffusa sulla piattaforma”. “La lotta alla disinformazione sui social media -continua Tanner- è fortemente legata all’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di pochi giganti informatici ed è solo regolamentandoli che si potrà meglio gestire un problema che mina le fondamenta della democrazia”.

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