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Opinioni

Gli avvocati e lo sciopero

La protesta dei penalisti italiani, a metà novembre, per chiedere la separazione delle carriere di pm e giudici e denunciare prassi illecite e vessazioni. Una modalità di pressione che non educa il cittadino al rispetto del sistema giudiziario

Tratto da Altreconomia 134 — Gennaio 2012

L’ultimo sciopero degli avvocati penalisti, dal 14 al 18 novembre, porta la consueta invettiva contro la magistratura a un livello ancor più basso. Nei manifesti di propaganda affissi nei tribunali si offre al cittadino un’analisi cupa e allarmante. Sulla base di non meglio precisati episodi, si evoca una sconcertante quotidianità in cui l’attività difensiva sarebbe pregiudicata da prassi illecite quali intercettazioni telefoniche delle conversazioni fra cliente e avvocato, strumentalmente o deliberatamente attivate dai pm dietro compiacenti autorizzazioni dei giudici. Gli avvocati sarebbero inoltre “incriminati” per le loro scelte difensive, sindacate dai pm e si sarebbero verificati abusi quali l’arresto di un soggetto nello studio del difensore. Non sono state rese note le iniziative prese nei casi concreti cui si allude, come denunce, né l’eventuale esito.

Ma scioperare per orientare o stigmatizzare decisioni giudiziarie vuol dire valutare che il sistema non è in grado di assicurare la tutela di diritti e che si deve perciò ricorrere all’ultima spiaggia della protesta, un’estrema risorsa cui nel panorama internazionale si fa uso per contrastare regimi autoritari, se non dittatoriali. Eppure il sistema non si esaurisce nel singolo tribunale, ma nelle varie istanze giurisdizionali fino alle corti supreme anche sovranazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’avvocatura pare rinunciare al proprio ruolo nella tutela dei diritti fondamentali e suggerisce al cittadino che è meglio contrastare il sistema, piuttosto che vivificarlo con la propria azione quotidiana. Si dirà che la questione istituzionale è quella presa di mira e non può che essere risolta a livello politico, e che da ciò derivi la necessità di uno sciopero. Ritorna infatti puntuale l’ossessione della separazione delle carriere. Perché, spiegano gli avvocati, “la carriera del giudice al quale è affidata la decisione del tuo processo è condizionata dalle decisioni e dagli orientamenti del pm che ha formulato l’accusa nei tuoi confronti” e “i due hanno condiviso gli studi, il lavoro e persino la stanza”.

La situazione è tale per cui l’avvocato “è più preoccupato delle iniziative del pm contro di lui che della stessa difesa”. La giurisdizione sarebbe inaffidabile, poiché “legittima le prassi devianti in nome di un malinteso senso di appartenenza di due soggetti indistinti, pm e giudici, contrapposti a un altro diverso ed estraneo, il difensore”. Non si considera che le intercettazioni telefoniche come mezzo investigativo esistono da quando esiste il telefono. Che il nostro Paese è uno dei pochi per cui esse sono sempre autorizzate da un magistrato. Solo sulla base di presupposti legali e attraverso una procedura in contraddittorio possono essere utilizzate in giudizio. Dove non v’è compiuta normativa che le disciplina come mezzi di prova, come in Inghilterra, la lacuna è dovuta all’opposizione degli apparati investigativi, dei servizi segreti, che temono di dover svelare le tecniche che usano. Non si intercetta meno, cioè, ma di più e segretamente, per ottenere “informazioni” e senza alcun limite.

Negli Usa, dove invece le intercettazioni si possono utilizzare come prova, vige come in Italia il principio per cui le conversazioni tra cliente e avvocato sono inutilizzabili, perché coperte dal privilegio difensivo. In concreto accade che si captino anche conversazioni riservate. Sorge allora il dovere di soprassedere e non tenerne conto. Molto spesso ciò non succede e gli avvocati si lamentano. I giudici trovano scappatoie per salvare la prova ottenuta, e gli avvocati si lamentano ancor di più. Come in Italia. Senza scioperi però, perché cos’altro potrebbero ottenere per tenere a freno lo zelo del governo (così si chiama senza mezzi termini il loro contraddittore pubblico ministero, ben separato dai giudici), se non l’unificazione delle carriere? Nessuno sciopero di categoria neppure contro i più invasivi poteri garantiti dalla legislazione antiterrorismo dopo l’11 settembre, che ha consentito intercettazioni senza autorizzazione giudiziale incentrate sui colloqui tra avvocati e loro assistiti, anche detenuti e in cause civili. E a proposito di fair play, qui in Italia, come inquadrare in tale concetto l’opera di avvocati impegnati in una contesa processuale specifica e contemporaneamente legislatori con il potere di cambiare essi stessi le regole che dovrebbero governarla? Torniamo all’oscena commistione delle carriere: ho conosciuto una collega della Procura di Hannover venuta per uno stage in Italia. Raccontava che il suo procuratore ha deciso di cambiare ufficio per fare il giudice. Dove? Ad Hannover, naturalmente, è stata la più ingenua e tranquilla risposta.

Enrico Zucca è Sostituto procuratore generale a Genova

 

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