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Forze non sempre dell’ordine

Nel corso del 2014 sono almeno un centinaio gli agenti indagati, rinviati a giudizio o condannati per reati, dal furto aggravato allo stupro. Ma “la parte di fenomeno che diventa visibile -spiega ad Altreconomia Donatella Delle Porta, dell’Istituto universitario europeo- è molto minore rispetto a quella reale”, data la strutturale “omertà di corpo” che caratterizza i comparti interessati

Tratto da Altreconomia 168 — Febbraio 2015

Il 3 dicembre scorso sono stati arrestati due agenti dell’ufficio immigrazione del commissariato di polizia di Cinisello Balsamo (MI). Secondo l’accusa avrebbero agevolato alcune pratiche di rilascio dei permessi di soggiorno in cambio di dazioni di denaro. Una vicenda simile era stata registrata a Firenze, nel maggio 2014, con l’iscrizione al registro degli indagati di un poliziotto. Cambia la materia, il periodo, ma non la trama: a Roma, poco più di un anno fa, sono stati arrestati quattro agenti (due in servizio, uno destituito e un altro in pensione) ritenuti responsabili di saccheggi in ville e appartamenti, che si facevano aprire dai proprietari fingendosi finanzieri. A Rimini (ottobre 2014) due carabinieri sono stati indagati per sequestro di persona e abuso di ufficio per aver abbandonato in mezzo a un campo -senza scarpe e documenti- due presunti rapinatori di un supermercato. Alla fine dello scorso anno sono stati i carabinieri della compagnia di Portogruaro (Ve) ad accompagnare in cella un ex collega da poco condannato a tre anni e mezzo per peculato. A luglio, invece, il Tribunale di Milano ha comminato pene fino a 12 anni e 8 mesi a carico di tre agenti della Polfer di Lambrate, che per oltre un anno avrebbero eseguito una lunga serie di blitz illegali, sottraendo denaro e droga a presunti spacciatori. Ad aprile, ancora, era finito sotto inchiesta a Padova un ispettore di polizia coinvolto nella “Alleanza”, l’associazione sovversiva dei 24 secessionisti lombardi e veneti muniti di cingolato.
La rassegna stampa della “cronaca in divisa” dell’ultimo anno restituisce oltre un centinaio di casi di operatori appartenenti alle forze dell’ordine -comprendendo in questa categoria anche vigili urbani e membri della Marina militare- indagati, rinviati a giudizio o condannati nei diversi gradi. Per le sigle sindacali dei corpi interessati, interpellate da Ae, gli episodi sarebbero sporadici e fin troppo sottolineati dai media. Come se non vi fosse alcun bisogno di porsi interrogativi.
Secondo Donatella Della Porta, docente di Sociologia presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, invece, “la parte di fenomeno che diventa visibile è molto minore rispetto a quella reale”, data la strutturale “omertà di corpo” che caratterizza i comparti interessati. “Un altro fattore da tenere in considerazione -prosegue Della Porta- è la difficoltà incontrata da quelle persone che faticano a denunciare arbitrii a loro danno. Sia questo il delinquente, la prostituta o il migrante. Soggetti cioè considerati poco affidabili”.
I casi elencati nell’attacco di questo articolo sono posti volutamente in sequenza disparata, confusa. Non perché l’omero fratturato di un ragazzo -è successo a Palermo e l’agente responsabile è stato condannato a risarcire 17mila euro, nel gennaio 2014- pesi quanto una preziosa soffiata a Massimo Carminati relativa a un’indagine in corso sul suo conto (“Mafia capitale”, come riportato dal Corriere della Sera), ma perché tutti quei comportamenti (talvolta presunti) condividono una caratteristica: non sono misurabili statisticamente su vasta scala; nessuno, salvo il ministero dell’Interno, detiene infatti i dati relativi al tasso di “delittuosità” presente tra gli uomini in divisa (qualunque divisa, qualunque reato). È dal Viminale che viene diffuso ogni anno il “Report attività” (l’ultimo è relativo al periodo aprile 2013 – dicembre 2014), cui spetta il compito di fotografare l’“andamento della delittuosità” nel Paese (reati commessi, delitti, rapine, omicidi, furti), ma tralascia ogni differenziazione.
Secondo Felice Romano, segretario del SIULP, il più importante sindacato di Polizia del Paese per numero di iscritti (26.500 su poco più di 100mila operatori), il dato specifico sugli agenti sotto inchiesta o condannati (nei diversi gradi di giudizio) non esiste. E non avrebbe alcuna ragione di esistere. Per un “semplice” motivo, come spiega Romano ad Ae: “Il numero di casi che vedono coinvolti gli operatori di polizia in reati che siano scollegati all’attività di servizio è talmente limitato da ritenersi un fatto fisiologico in un’organizzazione così grande e complessa”. Così “fisiologico” da non richiedere una misurazione indipendente, trasparente e consultabile.  Una sorta di Comma 22 che Romano respinge: “In sedici anni di carriera sindacale ho incontrato al massimo una trentina di casi, per l’80% delle volte finiti con la piena assoluzione degli agenti”. La cronaca nazionale tratteggia però un quadro opposto: nel luglio scorso tre agenti della polizia ferroviaria di Roma Ostiense sono stati condannati a 6 anni per lo stupro di una prostituta in commissariato, e negli stessi giorni a Cremona vengono condannati tre agenti della Polstrada di Crema per falso ideologico e violazione di domicilio di un 25enne, morto suicida poco dopo essere stato ingiustamente accusato di essere uno spacciatore (Il Fatto Quotidiano). Senza contare i casi di violenza: il 2014 è stato l’anno della morte di Riccardo Magherini avvenuta a Firenze dopo un fermo o della ragazza calpestata durante una manifestazione a Roma da un agente del nucleo artificieri della questura della capitale. Fino al caso di un carabiniere di Bergamo,  che nel settembre dello scorso anno ha chiesto di patteggiare una pena di 1 anno e 4 mesi per una storia avvenuta un anno prima: durante le fasi concitate di un incidente mortale del settembre 2013 aveva infatti rubato una borsetta da un’auto coinvolta (la conducente rimase ferita). Casi preoccupanti anche nella Guardia di Finanza: a novembre l’ex generale Emilio Spaziante, imputato a Milano per concorso in corruzione nel “caso Mose”, ha patteggiato per 4 anni di carcere e una confisca di 500mila euro. Dopo di lui altri due ufficiali della Gdf -uno comandante provinciale di Livorno e l’altro comandante in seconda- sono stati coinvolti in estate in vicende di tangenti. Le notizie di cronaca e i ritagli di giornale non permettono di elaborare classificazioni dei comportamenti più ricorrenti. Ma anche per la seconda più importante sigla sindacale della Polizia di Stato -il SAP (18mila e 200 iscritti a fine 2013), guidato da Gianni Tonelli- “la stragrande maggioranza degli agenti (97-98% dei casi) viene prosciolta da ogni addebito”. Tonelli è quasi certo: “Non ho pietà o sensibilità per comportamenti che fossero fuori dalle righe. Ma esistono già le aggravanti specifiche in quanto pubblici ufficiali. Consideri che solo i poliziotti sono 100mila: il gene dell’onestà o della disonestà non è prerogativa di nessuna categoria. Il numero di disonesti è lo stesso della magistratura, dei medici, dei giornalisti. Questo si può vedere dai dati, anche se non ho una statistica”.

Della Porta, però, ricorda i risultati della ricerca sociologica sulla polizia: “È importante guardare al tipo di persone che scelgono un certo tipo di professione,  agli elementi di contesto, al tipo di struttura istituzionale che rende facili e apprezzati dai colleghi alcuni tipi di comportamento, all’autoselezione -penso al machismo- più presente rispetto a chi fa l’assistente sociale. E poi alla socializzazione di un sistema che premia un certo tipo di comportamento, com’è quello di fare il duro”.

Il fatto certo è la mancanza di responsabilità -o “accountability”, come la definisce tecnicamente Donatella Della Porta- che non è paragonabile al caso inglese, cui rimanda Enrico Zucca, sostituto procuratore a Genova e pubblico ministero al processo per i fatti dell’irruzione alla Diaz durante il G8 2001. Per trovare un esempio tangibile di quel che manca nel nostro Paese è sufficiente infatti digitare https://www.gov.uk/government/organisations/home-office, e cercare le parole chiave “police corruption”.  Il secondo risultato ottenuto corrisponde al più aggiornato rapporto sulla corruzione della polizia operante in Inghilterra e Galles (“Corruption in the police service in England and Wales: second report”), a cura della “Independent Police Complaints Commission”, cioè una commissione indipendente. Nella prefazione si trova questo passaggio: “Non c’è nulla in questo rapporto che suggerisca che la corruzione della polizia sia un fenomeno endemico, o che le forze di polizia e le autorità non stiano facendo seri sforzi per individuare e affrontare quando questa si verifichi. […] (Ma) c’è anche una percezione pubblica che il controllo indipendente sia essenziale in una parte che va al cuore della fiducia della cittadinanza nella polizia, e che è fondamentale per la  sua legittimità”.
Nel  Parlamento italiano c’è un clima diverso. Dall’inizio della corrente legislatura, Salvatore Palidda, professore associato di Sociologia all’Università di Genova e studioso di questioni militari (autore tra gli altri di “Polizia postmoderna” per Feltrinelli),  ha inoltrato una comunicazione scritta a tutti i membri della commissione Affari costituzionale e Interni della Camera, che in un passaggio chiedeva conto di un “monitoraggio e un’analisi attenta dei casi di corruzione, abusi, devianze e condanne di personale delle polizie e quindi un’eventuale studio per la prevenzione e l’eventuale reinserimento di questo personale”. La richiesta non ha ricevuto alcuna risposta. Esito identico lo hanno avuto anche i tentativi di chi scrive, che, riprendendo l’iniziativa di Palidda, ha nuovamente inoltrato una richiesta analoga anche ai membri delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, all’Osservatorio Repressione coordinato da Italo Di Sabato (www.osservatoriorepressione.info) e ad Amnesty International (www.amnesty.it). Riccardo Noury chiarisce  l’attività di quest’ultima: “La nostra ricerca si è limitata a casi di violazioni di diritti umani: il fermo di polizia nel senso più ampio e l’uso eccessivo della forza nella gestione dell’ordine pubblico. Dati relativi a questi due filoni -spiega Noury- non li abbiamo mai ottenuti. La parola trasparenza è l’architrave del sistema di impunità che si è sviluppato negli ultimi 14-15 anni. Questa idea per cui per difendere la polizia non si debbano avere strumenti di trasparenza ha fatto sì che l’iter legislativo per l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento si bloccasse sempre. È incomprensibile -conclude- che il tentativo di scalfirne l’impunità suoni come un attacco alla polizia”. —
 

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