Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Opinioni

Esercitarsi nella danza del mentre

L’ineguagliabile arte delle parole dello scrittore e attore Alessandro Bergonzoni: "Urge sicuramente una riforma interiore, urge rivelazione e poi rivoluzione. Urge non accontentarsi delle voci che sentiamo ma di quelle che non sentiamo. Urge ricordarsi che l’economia ha un posto nel mondo ma il mondo, dentro l’economia, non ci sta solo".
La versione integrale dell’intervista pubblicata sul numero 155 di Altreconomia

Tratto da Altreconomia 155 — Dicembre 2013

Lo puoi incontrare seduto in carrozzina accanto ai disabili. Oppure alla Dozza, con Roberto Morgantini a “imbiancare” le celle per “svelare” il carcere alla città. Da anni è testimonial ma anche testimone della “Casa dei risvegli Luca De Nigris”. Alessandro Bergonzoni è una persona che ascolta, che cerca, che guarda. A settembre ha pubblicato il suo primo libro di poesia “L’amorte” edito da Garzanti e in queste settimane sta portando in giro per l’Italia il suo “Urge” (www.alessandrobergonzoni.it).
Alessandro, cosa urge oggi?
Urge sicuramente una riforma interiore, urge rivelazione e poi rivoluzione. Urge non accontentarsi delle voci che sentiamo ma di quelle che non sentiamo. Urge ricordarsi che l’economia ha un posto nel mondo ma il mondo, dentro l’economia, non ci sta solo. Quando parlo di mondo non sto facendo riferimento a continenti, nazioni ma al cosmo. Urge ulteriorità. Quando dico fare voto di vastità nello spettacolo mi riferisco proprio a questo bisogno di lavoro alto. Io lo chiamo “salto in altro” o “salto in oltre”. Non è più possibile avere degli esempi, da Falcone a Borsellino, da don Gallo a don Ciotti. Sono certamente degli ispiratori ma ciò che manca è l’ispirazione personale; non posso più demandare ai dieci demandamenti: fallo tu, protesta tu, rivoluziona tu, urla tu, c’è l’urgenza di una azione-intenzione personale.
La tua esperienza teatrale ma anche la tua storia personale sono segnate da due parole: oltre e altro.
Queste due parole fanno un lavoro che non si ferma e non si deve fermare né a due né a tre né a mille parole.
Le mie parole lavorano e nascono dal silenzio, dai silenzi che molti credono che siano il tacere.
Non c’è un tacere. Molti dicono che davanti alla morte, davanti al dolore altro, bisogna tacere: se quel silenzio significa prendersi un minuto di silenzio per pensare ad altro o dormirsi a questo punto non passa energia.
Quello che dico con oltre e altro è una forma di conoscenza non di comunicazione, non informazione. Sono stanco dell’informazione e della comunicazione: questi sono solo i prodromi di quella che può essere una conoscenza. Queste due parole devono muovere per forza ancora una volta azione e intenzione. E mutazione, metamorfosi. Il cambiamento non è sperabile se non è già partito da noi, se non ha un’idea di nascita e di resurrezione. Solo che quando parli di resurrezione la gente vuol parlare solo di religione; quando vuoi parlare di religione non parli di spiritualità; se parli di spiritualità parli solo di Chiesa. E io ho molta paura di queste categorie dogmatiche.
Nel libro dedichi poesie anche ai detenuti. Chi li tiene prigionieri?
Sicuramente vengono tenuti prigionieri da uno Stato che non riconosce la tortura come legge ma la permette. Da uno Stato che spreca i denari per non usare il denaro che serve. Da uno Stato che non ha ancora capito che c’è dell’oltre e dell’altro, oltre quelle sbarre. Sono imprigionati soprattutto da un’opinione pubblica che non fa leggi ma potrebbe fare una legge che comincia a cambiare la mentalità di chi pensa ai carcerati, alla colpa, alla pena, al dolore.
Iniziamo noi a fare una legislazione interiore, un diverso giudizio, una diversa critica, un grande cambio nei confronti di ciò che è la vendetta, di ciò che è il buttare la chiave, di ciò che è “il finché non mi interessa non mi riguarda”. Tutti questi errori di ognuno di noi permettono l’orrore. Ogni giorno, ogni attimo lavoriamo in questa direzione di di-men-ti-can-za. E non c’è crescita culturale, antropologica, filosofica, antroposofica da parte nostra.
Poi è ovvio che c’è bisogno di spazi per le carceri, di denaro, di leggi. Tutto questo non si riesce a fare se non si va a raccontare negli asili, nelle scuole che cosa è carcerazione, dignità, bellezza, che cosa è che ci riguarda, che cos’è la tortura, i corpi in cui siamo chiusi dentro. Il grande lavoro è quello di rendersi conto della “danza del mentre”: mentre io sto bene, mentre io non sono in carcere, mentre io non soffro, c’è qualcuno che vive il male. Questa danza del mentre dovrebbe chiedere un rito sciamanico della condizione di conoscenza ulteriore, vasta, allargata. Noi non possiamo più andare a casa, non abbiamo una casa dove difenderci: siamo all’aperto, siamo in un letto di due milioni di piazze, non due o tre piazze: king size? Il re di questo spazio è chiunque. Noi siamo in un letto con morti, feriti, carcerati, donne, bambini: questo è il letto enorme nel quale siamo.
È inutile andare ai festival e fare cultura colluttoria: sciacquarci la bocca con meravigliosi relatori e poi sputare quando andiamo a casa. Dobbiamo mandar giù. Questo è il tema del nutrimento.
Per molti può essere anche azione vera: andare negli ospedali, nelle carceri. Ma si può fare anche da lontano: lanciare un’intenzione per cambiare la nostra informazione nei confronti di chi non conosciamo. Dobbiamo mandare onde.
Nelle scuole ci sono dizionari che non hanno nemmeno la parola omofobia.
Deve cambiare l’animo umano. Io non me ne faccio niente della Costituzione italiana la più bella se dentro non ho la costituzione interiore capace di accoglierla, tradurla, vederla. Non me ne faccio più niente di citare Seneca, Aristotele, Platone. Non mi serve più a nulla ascoltare Dante, Beethoven, Verdi. Non mi interessa più se tutte queste persone non hanno ancora creato dentro di me energia, frequenza, potenza da distinguere dal potere, dal comando e dal dominio. Se questo non è avvenuto nulla vale. La grande rivoluzione, il grande terreno sono ancora io, essere sovra umano che deve essere seminato, arato, sventrato. Gli altri non ci sono ancora se io non ho fatto un mestiere come questo.
Perché sei andato in giro in carrozzina per le strade di Bologna ad una manifestazione di sensibilizzazione sul tema delle barriere architettoniche?
Noi siamo ancora qui a parlare di invalidità se ci coglie l’invalidità. Non c’è niente da fare, siamo a parlare di carceri se siamo stati dentro, se abbiamo visto e provato.
Come si può pretendere che siano abbattute le barriere stradali, le barriere architettoniche se quelle interiori partendo dall’omofobia sino all’handicap non sono state abbattute?
Ma noi ci fermiamo davanti alle tv del dolore che tutti i pomeriggi fanno sì che ci sia confusione sul dolore-spettacolo, sulla pubblicità banale per fare ascolti. C’è un ascolto che ci manca: è quello di saper ascoltare le voci che sono lontane da noi. C’è un’audience che manca, c’è ancora tantissima fascia oraria che non visitiamo: è quella degli orari che non ci competono, che non sono i nostri.
E qui ci arrivi solo con una frequenza interiore, con una energia, con una luce. E’ questione di luce. Noi siamo fatti di elettricità. L’unico buon conduttore televisivo: il rame?
Uno studio pazzesco e meraviglioso è stato fatto su quanto la terra vibri sotto grandi eventi di massa, tipo la morte di un reale o un grande concerto o i funerali di una persona conosciuta: dicono che la terra muova energia, che sposti frequenza. La scienza sta per venire dalla parte di chi dice che il pensiero e l’intenzione lavorano, scavano.
E noi continuiamo a pensare che l’energia sia solo quella delle automobili, degli elettrodomestici….
Quando lavoreremo sul tema della nostra energia capiremo che l’handicap, che le barriere, le diversità, il cambiamento, la mutazione possono avvenire anche intimamente.
Tu entri in classe, conosci la scuola. C’è ancora una scuola in Italia dove imparare a morire, a essere diversamente abili?
Ci sono delle nazioni per esempio la Finlandia dove si raccontano le favole in cui la morte ti prende in braccio e ti culla. Ci sono dei luoghi dove la morte viene raccontata. Mal che vada non è mai ciò che è per noi: il tabù. Quando parlo di morte voglio parlare di vite, di altra vita. Presto voglio passare anche attraverso la mia arte e fare installazioni e performance sul tema della morte.
La morte non è un tema ma è il tema che sta insieme a tutto il resto. Non farmi parlare di educazione: ormai questa parola, così nobile, come la parola amore, è svilita, sfruttata, ha dei lavori in corso continui.
Si spera che certi maestri, che persone illuminate di una luce propria abbiano in animo il buon senso, la buona volontà. Ma sono stanco, stanco vivo di parlare di queste cose perché non possono più essere relegate alla predisposizione di certi maestri & C., dei buoni cuori  & C..
Deve cominciare un’educazione, una rincorsa che venga da lontano e prepari già pensando di narrare ai bambini delle elementari per farli diventare altri maestri, altri padri, altre madri, altri morenti, altri viventi. Non si può più pensare alla morte solo se ci sono milioni di morti raccontati dalla storia, se ci sono informazioni televisive o su internet. È ormai finita quest’epoca. Io ho bisogno dell’epoca infinita.
C’è un grande uomo, che non c’è più ma c’è ancora, si chiama Cesare Boni: provate a leggere il testo “Dove va l’anima dopo la morte”. Ecco cosa bisognerebbe studiare nelle scuole, negli ospedali, per vedere quanti danni può fare l’unica medicina del curassico. Quante persone dovrebbero arrivare alla morte avendo raccontato ai propri figli qualcosa su di essa che non sia solo l’orco cattivo.
L’orco cattivo molte volte è certa vita, raccontata da certi politici, da certi uomini dello spettacolo, da certe calciatori. Quella è una morte vivente che subiamo costantemente e della quale non ci accorgiamo.
Nel libro c’è forse una tua proposta tra le righe: “convertire l’inutilità”. Cosa ci vuoi dire?
Dopo che sono stato in Africa, ma non c’era bisogno; dopo che ho visto dei terremoti, ma non serviva; dopo che ho letto Steiner e tante cose sul buddismo, sull’arte (da ignorante perché sono uno studente non uno studioso), devo rendermi conto che quando si dice “salviamo il paesaggio” dovremmo aggiungere una cosa: da noi. Salviamo il paesaggio. Punto. Da noi. Fammi essere retorico di ritorno perché la retorica d’andata non è mia ma di chi racconta la terra in un modo, la produzione in un modo, il cibo in un modo, il mercato in un modo. Io ho la retorica di ritorno e ti racconto queste cose: quando c’è un terremoto in Emilia e tutti dicono che dobbiamo risolvere il problema delle terre emiliane non capiscono che il terremoto è su un asse terrestre che collega le Filippine con il Bangladesh, l’America al Giappone. L’idea di terra noi non ce l’abbiamo. L’idea di territorio l’abbiamo solo pensando ai confini, addirittura pensando ai quartieri, alle città. La questione è il rispetto cosmico della terra, che va oltre il tema del mondo. Alla politica interessa poco: lei ci arriva quando c’è la distruzione. Arriviamo alle cose per disperazione non per rivelazione. Arriviamo a interessarci se qualcuno ha fatto le infiltrazioni nel terreno se è il nostro di territorio che ha avuto dei danni. Ci interessiamo alla “terra dei fuochi” mettendo tutto sotto il tappeto. Da anni la terra viene frustrata, stuprata e vilipesa. Questo lavoro è un mestiere preciso che qualcuno ha scelto, voluto, persino desiderato.
Involontariamente i migliori, volontariamente i peggiori, conniventemente tutti. Prima di parlare della meraviglia della terra, di Slow Food, prima di diventare tutti dei Carlo Petrini, andiamo a vedere i territori interiori. È un tema di anime la terra, non è un tema economico. Se c’è un’ anima che decide di mettere sotto casa propria quintali di scorie radioattive è un problema di anima. Come quando qualcuno decide di mettere nell’acido un bambino non è mafia. Dopo diventa tale ma prima c’è un tema: come ha fatto la tua anima ad arrivare a quelle condizioni? Nello spettacolo parlo  “dell’infame nel mondo”: il problema non è solo la fame nel mondo ma l’infame. Finito l’infimo, come fosse un reparto di un grande magazzino, forse avremo rispetto della terra. La terra si vendica, trema perché noi gli facciamo paura. Vomita perché l’abbiamo ingozzata. La terra sta mandando giù molti rospi, speriamo che sputi principi impossibili. Una popolazione in ginocchio è stremata o prega?
Che cosa serve per far resuscitare la politica?
Eh… È una domanda cui rispondo malvolentieri. La politica non può resuscitare fin quando non resuscita veramente la parte spirituale. Sono stato alla consegna della laurea a Aung San Suu Kyi. La leader dell’opposizione birmana parlando ai giovani ha detto loro di non odiare la politica ma di amarla, ma ha anche ricordato che la Birmania non è tale se dentro non hai l’idea della terra. Bisogna che ci intendiamo: ogni terra è la terra birmana, ogni guerra è la tua guerra. Se non hai queste cognizioni come fai ad arrivare alla politica? E i politici che la plaudivano capivano che operavano al contrario di quel che diceva? È come dire cambierà mai il femminicidio, l’omofobia, il maltrattamento? Il concetto “cambierà”, cambierà non solo con le leggi che possono dare un aiuto. Deve cambiare la tua urgenza: devi chiedere altra energia, altro afflato, altro humus, altro sangue. Alla politica credo basti invece quel sangue lì, non ha bisogno di un ricambio di sangue perché non sa ancora.
La politica non può essere rifondata, non può essere rifondato un partito, un nuovo governante non ci può essere. Deve cambiare ognuno di noi e farlo singolarmente prima ma non per egocentrismo o egoismo. Va fatto perché è un cambio di frequenza. La politica sarà mutata solo quando ci sarà stata una rivelazione interiore e solo dopo una rivoluzione. Quando comincerà ciò inizierà la fine e partirà il nuovo. Io non sono pessimista ma noto una fioca energia. Vedo che alcuni hanno già cambiato la politica, personale perché hanno capito che devono parlare prima di ante. La politica cambierà quando verrà cambiata l’ante politica.
Chi sono i tuoi maestri?
Io ho amanti non maestri. Anche se ne ho avuti tanti: dal teatro alla comicità, dai fratelli Marx ad artisti come Gastone Novelli e Pollock, sono tutti maestri. Ma come ricordavo agli studenti di un liceo tecnico nei giorni scorsi, il maestro è come un libro, finito di leggerlo non lo dovete chiudere, ma continuare.
Mancano gli scrittori. Dicono che in Italia si scrive troppo e si legge poco. Io dico il contrario: si legge troppo, si scrive niente. A forza di maestri ci siamo rincoglioniti. I migliori si sono rincoglioniti perché si sono sentiti allattati dai maestri, i peggiori hanno trovato la scusa nei maestri, una scusa per dire “ci pensano i maestri, ci penseranno i don Ciotti”.
Noi tutti i giorni votiamo. Paghiamo un pizzo tutti i giorni. Io cittadino pago il pizzo alla pubblicità, al femminicidio, alla superficialità, alla televisione, a certi giornali, a certa satira da bar.
Posso dire che non ho solo maestri, ho anche maestri: c’è il buddista, il missionario, il grande medico, il fratello, il figlio, la figlia. Ma il lavoro è quello di continuarli, di proseguire Martin Luther King, madre Teresa, chi vuoi tu. Nei grandi concerti li sbattono sugli schermi a fare il filmatino, per emozionare. Gli esempi sono finiti. L’esempio sono io. Siamo noi.
Serve coraggio a portare sui palchi, nelle piazze, nei musei questi temi?
Se la parola coraggio è quel concetto di sfida che vediamo nelle trasmissioni sportive e di intrattenimento quello non serve a nulla. Ho bisogno di un altro tipo di coraggio: è un urlo. Prima rifondiamo la parola coraggio ma al volo, dandoci dentro, parecchio. Altrimenti non basta. Quello che serve è la parola frequenza. Spostare questo tipo di luce, serve luce. Io mi sento urgente, ho una forma di corrente. E’ la frequenza. Manca frequenza non coraggio. Noi non tiriamo su l’antenna, non abbiamo la recezione. Siamo collegati con degli strumenti ma non riusciamo a mandare un’intenzione a sei chilometri o a dieci centimetri di distanza. Facciamo fatica a parlare con chi abbiamo davanti, facciamo fatica a irrorare. Manca irrorazione. C’è molta solitudine e pochi “soli”. “Soli” si sorge. —

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati