Economia / Inchiesta
Eni, il gigante fragile
Riserve incerte, guai giudiziari e investimenti mal calibrati: inchiesta sulla multinazionale, a 20 anni dalla quotazione in Borsa. Anche se il fatturato dell’azienda fondata da Enrico Mattei è praticamente quadruplicato dal 1995, mentre la produzione di idrocarburi (petrolio e gas) è quasi raddoppiata, i punti di debolezza non mancano. Tutti i numeri in una infografica, da Altreconomia 175
Il 31 agosto 2015, dopo l’annuncio della scoperta di un maxi giacimento di gas nel Mediterraneo, di fronte all’Egitto, le azioni di Eni hanno “volato”. Alla Borsa di Milano il valore della multinazionale dell’energia è salito del 2,78%. È un dato “istantaneo” e senz’altro positivo (per l’azienda e i suoi azionisti), che però non dovrebbe distrarre da una lettura di medio-lungo periodo: una settimana prima, il titolo aveva toccato il suo minimo per il 2015 (13,05 euro per azione); negli ultimi 12 mesi Eni ha perso quasi un quinto del suo valore (le azioni si sono deprezzate del 19,2%); a fine 2014, la capitalizzazione di Borsa era del 40 per cento inferiore rispetto al 2005.
Questo è un primo esempio delle debolezze del “cane a sei zampe”, che è possibile cogliere sfogliando il bilancio aziendale. Eni è un gigante -negli ultimi vent’anni, dopo la parziale privatizzazione nel novembre del 1995, il fatturato dell’azienda fondata da Enrico Mattei è praticamente quadruplicato, mentre la produzione di idrocarburi (petrolio e gas) è quasi raddoppiata, come spiega l’infografica a fianco-, ma è fragile.
Come spiegano, ad esempio, i dati relativi ai costi per la produzione e vendita di idrocarburi. Si tratta di una variabile fondamentale per misurare la sostenibilità aziendale, in particolare dopo la fine dell’“impressionante ciclo espansivo che ha visto il crescere pressoché costante dei prezzi petroliferi, da livelli inferiori ai 20 dollari al barile nel 1999 a superiori ai 100 dollari al barile tra il 2011 e il 2014”, come spiega ad Altreconomia Filippo Clô, analista di Rie-Ricerche Industriali ed Energetiche (rie.it).
Oggi i prezzi oscillano tra i 40 e i 60 dollari al barile, mentre Eni ha visto crescere in due anni del 23,5%, fino a oltre 21 dollari a barile, i costi medi di sviluppo e sfruttamento di un giacimento. Negli stessi due anni, tra il 2012 e il 2014, è crollato del 38% il “profitto medio” per barile estratto, da 16 a 9,9 dollari.
C’è un altro elemento di debolezza che dipende direttamente dal prezzo medio dei combustibili, e chiama ancora in causa Zohr, la “scoperta” egiziana, il “giacimento supergiant” -così il comunicato aziendale- che “presenta un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas”. L’attenzione deve concentrarsi su due delle parole usate da Eni, “fino a”. “Un analista sa che quel dato rappresenta una stima massima di quello che viene definito ‘oil in place’, e rappresenta tutto quello che c’è nel terreno, non ciò che effettivamente si potrà recuperare -spiega ad Altreconomia Matteo Verda, ricercatore dell’ISPI, tra i curatori dell’Osservatorio energia dell’Istituto (ispionline.it/energywatch)-. L’incertezza tecnica è trasparente, sin dall’inizio. Quando affermo che ho scoperto un giacimento da un milione di barili, non sto dicendo che c’è una ‘riserva’ equivalente”. Per quanto riguarda il greggio, Verda stima “riserve” pari al 25-30% delle “risorse” trovate, una variabile influenzata anche dal prezzo. “Esistono risorse che quando il prezzo del petrolio è fissato a 80 dollari a barile sono effettivamente riserve, mentre a 40 restano solo risorse”, spiega.
Un esempio, guardando al passato recente di Eni: Kashagan, Kazakhstan, Mar Caspio settentrionale. È stato, nel 2000, il più grande giacimento scoperto negli ultimi trent’anni, ma si è trasformato in un gigantesco fiasco: “Cash all gone”, soldi buttati secondo The Economist. L’Eni ci ha messo -al 31 dicembre 2014- 8,5 miliardi di dollari, tra l’investimento necessario per lo sviluppo, gli oneri finanziari capitalizzati e l’esborso per l’acquisizione di quote in occasione dell’uscita di altri partner. “Al 31 dicembre 2014 le riserve certe del giacimento di competenza Eni sono pari a 580 milioni di barili di petrolio equivalenti, sostanzialmente in linea con il 2013” spiega l’azienda. Che però non fornisce “le stime sui costi di estrazione”, che -spiega- vanno richieste al Consorzio North Caspian Operating Company (NCOC) BV, di cui Eni fa parte insieme ad altri partner”. “Kashagan si sta rivelando un disastro -dice ad Ae Ugo Bardi, docente al dipartimento di chimica dell’Università di Firenze e membro dell’Aspo Italia, già presidente dell’associazione scientifica che studia il picco del petrolio (aspoitalia.it)-. È possibile che i pozzi riaprano nel 2017, ma non si riprenderanno mai i soldi spesi. Kashagan rappresenta un monito anche per il futuro del giacimento egiziano: quando il giacimento kazako venne scoperto, era stimata la presenza di 178 miliardi di barili; ora si parla 13 miliardi, che non sono pochi, ma non è la stessa cosa”. Senza contare i danni ambientali: Eni ha dovuto negoziare con la Repubblica del Kazakhstan il pagamento di una multa (la richiesta era di 730 milioni di dollari, il Settlement Agreement ha fissato la cifra a 55 milioni). In Kazakhstan, come in Nigeria, Algeria e Iraq l’azienda è anche al centro di inchiesta che riguardano la “corruzione internazionale” (vedi box).
A supervisionare le scelte industriali e dei manager potrebbe essere l’azionista di riferimento, che è ancora lo Stato -detiene direttamente il 3,93% delle azioni, e indirettamente un altro 26,36, controllato da Cassa depositi e prestiti-: l’esecutivo pare più interessato ai dividendi. In ognuno degli ultimi tre anni, lo Stato ha incassato oltre un miliardo di euro. Nel 2014, il rapporto tra il totale dei dividendi che vengono distribuiti e l’utile di esercizio è stato del 311%: per ogni euro, Eni ne ha distribuiti tre. E, se contano i simboli, non era mai successo che un membro del governo in carica si dimettesse dall’esecutivo per andare a lavorare per Eni: lo ha fatto, a metà giugno 2015, il vice ministro degli Esteri Lapo Pistelli.
A settembre, la Caritas ha diffuso un rapporto dedicato alle attività minerarie nella Repubblica del Congo, ha preso posizione su Eni: “L’estrazione petrolifera ha determinato un preoccupante deterioramento dell’ambiente naturale”. Dal 1997 è al il potere nel Paese Dennis Sassour Nguesso. Matteo Renzi l’ha incontrato nel luglio del 2014, accompagnando in Congo l’ad di Eni Claudio Descalzi. “Le prime due compagnie straniere per volume d’affari presenti nel Paese sono la francese Total e l’italiana Eni”, scrive la Caritas. “Se il governo francese ha scelto un atteggiamento istituzionale di distanza e critica nei confronti della Repubblica del Congo, a ragione delle gravi violazioni di diritti umani fondamentali, l’Italia non sembra essere troppo turbata da certe questioni”. —
Le inchieste su Eni e le sue controllate
La Relazione finanziaria annuale 2014 di Eni dedica 10 pagine ai “contenziosi”. In Italia è in corso dal 2003 quello che contrappone l’azienda al ministero dell’Ambiente, oggi pendente di fronte alla Corte d’Appello di Torino: la controllata Syndial (già Enichem) avrebbe inquinato con il DDT il Lago Maggiore. In primo grado nel 2008 Eni è stata condannata a un risarcimento di 1,83 miliardi di euro. Numerose sono invece le inchieste relative a pratiche di corruzione internazionale. L’ex ad Paolo Scaroni è stato rinviato a giudizio nel luglio del 2015 dalla Procura di Milano per una presunta maxi tangente da 198 milioni che sarebbe stata versata dalla controllata Saipem all’allora ministro algerino dell’Energia Chekib Khelil per ottenere appalti in Algeria. Sempre la Procura di Milano sta indagando una presunta maxi-tangente che Eni avrebbe pagato per ottenere in concessione (senza gara) il giacimento OPL 245 nel Delta del Niger, in Nigeria. Tra gli indagati oltre a Scaroni anche l’attuale ad Claudio Descalzi. In Iraq e in Kazakhstan -anche in relazione al controverso progetto di Kashagan- la Procura indaga (almeno dal 2011) sull’ipotesi di influenze indebite nell’aggudicazione di gare all’estero. C’è il caso Bonny Island, in Nigeria: numerose procure hanno indagato su presunti pagamenti illeciti a pubblici ufficiali nigeriani per la realizzazione di impianti di liquefazione del gas naturale da parte di un consorzio di cui Eni deteneva il 25%.
I procedimenti -spiega l’azienda- “si sono conclusi con transazioni”. Eni ha pagato 365 milioni di euro per chiudere il contenzioso.
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