Distribuzione, te lo do io il marchio – Ae 48
Numero 48, marzo 2004Coop si convince e reintroduce sui suoi “prodotti a marchio” il nome del produttore. Un esempio da imitare. Anche perché il private label è un business enorme. I gusti e le preferenze dei consumatori sono in mano…
Numero 48, marzo 2004
Coop si convince e reintroduce sui suoi “prodotti a marchio” il nome del produttore. Un esempio da imitare. Anche perché il private label è un business enorme. I gusti e le preferenze dei consumatori sono in mano alla grande distribuzione che usa migliaia di marchi diversi. Un mercato che non lascia nulla al caso (neanche il posto sugli scaffali)
Altezza occhi, un po' a sinistra. Andate nel primo supermercato, e provate. Sta sempre lì: cercate un prodotto famoso nello scaffale davanti al vostro naso, e guardategli accanto. Vedrete un “prodotto a marchio”, cioè un prodotto che per marca, o logo, ha il nome della catena di grande distribuzione che lo vende. Facile che, nel tempo, ne abbiate comperato uno: cioccolato al latte Esselunga, torta Auchan, fagioli Coop, succhi di frutta Gs…
Di solito si tratta di prodotti di buona qualità venduti ad un prezzo inferiore agli omologhi di marca, ai quali vengono sempre più spesso preferiti.
Il private label, come anche si chiama il prodotto a marchio (o “marca commerciale”), negli ultimi anni sta conoscendo uno sviluppo notevole nel mercato italiano, anche se ancora ben al di sotto (se guardiamo alle esperienze estere) delle potenzialità. Ormai non c'è super, iper o superette che non abbia propri prodotti e le “referenze” (cioè le tipologie: ormai sono centinaia) assumono sempre più un ruolo strategico. E infatti la proliferazione (oltre che la disposizione) dei prodotti a marchio sugli scaffali -mai casuale- è un buon indizio di questo boom.
Della partita che si gioca sui prodotti a marchio si sono resi ben conto alcuni consumatori e il Centro nuovo modello di sviluppo, che con la campagna “SpronaCoop” (vedi box a pagina 9), hanno convinto il colosso della distribuzione italiana a reintrodurre il nome dei produttori, suoi fornitori, sulle confezioni dei private label. Una vittoria importante che ora mette fuori gioco tutte le “insegne” che vendono prodotti a marchio senza indicare (grazie alla legge, vedi pagina 8) chi li ha in realtà fabbricati o preparati.
I “prodotti a marchio” già oggi valgono oltre il 10% del totale delle vendite italiane -cioè due miliardi e mezzo di euro-, e crescono al ritmo del 9% l'anno.
Ma se si tiene conto solo dei territori serviti dalla grande distribuzione, il mercato dei prodotti a marchio copre il 20% delle vendite.
Un'enormità.!!pagebreak!!
I prodotti preferiti per il private label sono i surgelati, i prodotti in carta e “usa e getta”, i prodotti per animali.
Ma la scelta, come si vede anche dalle immagini di queste pagine, va dai piatti pronti al cotone, fino ai vini e alla frutta, ai dolci e alla verdura.
Per tutti questi motivi è legittimo che il consumatore sappia chi c'è dietro i prodotti a marchio: chi li fa e a chi vanno i soldi, oltre che al supermercato. A chi in sostanza attribuiamo la fiducia e il potere del denaro che spendiamo.
E qui iniziano i problemi.
Difficile da credere ma in Italia non è obbligatorio indicare sulle etichette il nome del produttore. Nemmeno sui prodotti alimentari (eppure “mucca pazza” e le ricorrenti emergenze alimentari dovrebbero pure averci insegnato qualcosa).
Inoltre sia l'industria che la grande distribuzione sono decisamente restie a dare informazioni.
Perché? Uno dei motivi è che così si nasconde un fatto molto semplice: che sullo stesso scaffale ci sono prodotti praticamente identici (fabbricati dagli stessi soggetti), le cui uniche differenze sono il nome stampato sulle confezioni e il prezzo. Se andate al supermercato potete fare da voi la prova.
Le etichette sono reticenti, ma qualcosa ancora rivelano: per esempio sugli alimentari si può non indicare il nome del produttore ma si è obbligati a dichiararne l'indirizzo (strano modo di dire e non dire, e di tutelare il consumatore). Questo almeno fino a quando il legislatore (distratto o connivente) non avrà cancellato anche questo ultimo obbligo (le pressioni sono molte).
Così si scopre per esempio che i ravioli venduti da Gs (gruppo Carrefour) sono prodotti negli stabilimenti dei più famosi a marchio Rana. O che Galbusera produce anche cracker a marchio Esselunga e Coop. O che dietro la carne in scatola di Sma-Auchan (gruppo Rinascente) c'è la multinazionale Bolton (che produce a marchio Manzotin), cui fa il paio Kraft (Altria, già Philip Morris) che produce quella per Esselunga.
Se provate a telefonare a Nestlé, vi diranno che non fanno prodotti a marchio per la grande distribuzione. Ma se vi capita di comprare un panettone Ca' Dolce (private label dei supermercati Despar) scoprirete che lo produce Motta (cioè una società del gruppo Nestlé).
E tanto per rimanere in tema di multinazionali, Kymberly Clark e Dole lavorano per Coop.
Gli esempi sono tanti. Il principio sembra essere “si fa ma non si dice” (e si fa sapere il meno possibile). Ma si va anche oltre, con aziende che hanno dismesso il proprio marchio per dedicarsi solo al private label, come la Deco, di Bagnocavallo, Ravenna, che lavora nel settore alimentare e in quello dei detergenti, o Coind, a Castel Maggiore, Bologna: caffè, cioccolato e cosmetici.
E ci sono anche aziende leader nel proprio settore di cui però non conosciamo i nomi perché quasi sempre “coperti” dall'insegna del super: come La Doria di Angri, Salerno, che fa conserve ed è tra i maggiori produttori anche del mercato britannico e scandinavo oltreché italiano, o la sua controllata Confruit, di Faenza, che fa succhi di frutta. Senza contare l'esercito di medie, mediopiccole e piccole aziende che forniscono il private label (e spesso grazie a questo sopravvivono), alcune delle quali specializzate in produzioni tipiche o locali.
Ma questo è solo un lato della medaglia, quello che, in apparenza, come consumatori ci riguarda più da vicino. !!pagebreak!!
In realtà, il ruolo della “marca commerciale” è anche strettamente legato alla trasformazione del mercato e del settore distributivo. Anzi, a una vera e propria rivoluzione, un passaggio di potere dalle mani dell'industria a quelle della grande distribuzione.
Nel passato i produttori hanno sempre esercitato un pesante condizionamento nei confronti delle aziende commerciali, controllando i margini, i prezzi di vendita, i volumi, l'esposizione dei propri prodotti e così via.
Anche per svincolarsi da queste pressioni, la grande distribuzione ha iniziato a introdurre prodotti con la propria insegna.
Oggi la grande distribuzione riveste nei confronti dell'industria il molteplice ruolo di partner indispensabile per le vendite, di cliente per il private label e non ultimo di vero e proprio concorrente. Con la differenza -notevole- che sono i supermercati a controllare meglio il rapporto coi clienti, e quindi a indirizzarne i consumi: un potere che l'industria oggi sta perdendo.
Questo passaggio di potere (dall'industria alla distribuzione) va di pari passo con la sempre maggiore concentrazione del comparto distributivo nelle mani di pochi e potenti gruppi, e con la tendenza di alcune catene a diventare addirittura produttori senza ricorrere a terzi (come il caso di Esselunga, che produce molte delle sue referenze nei suoi stabilimenti di Pioltello, alle porte di Milano).
In questa lotta di potere conta anche il fatto che supermercati e ipermercati “producono” un'enorme massa di liquidità ogni giorno: sempre più spesso il loro successo dipende non tanto dai margini sui singoli prodotti (o non solo), ma dalla quantità di denaro contante di cui dispongono (e che può e deve essere rapidamente investita). Per questo è la grande distribuzione che decide (impone, spesso) qualità e prezzi all'industria, e non più il contrario. Coi prodotti a marchio i supermercati possono quindi permettersi di vendere prodotti di qualità equivalente a quelli di marca ma a un prezzo inferiore, mantenendo tuttavia un margine (cioè un guadagno) piuttosto elevato. Prodotti sui quali hanno il completo controllo, e che sono favoriti in partenza rispetto ai prodotti dell'industria: basta lavorare sulla disposizione (o addirittura l'esclusione) negli scaffali. Un metodo semplice e spietato. E questo spiega per esempio perché, da un giorno all'altro, un prodotto che comperavate abitualmente può sparire dagli scaffali della grande distribuzione (e quindi dal mercato).
A volte i prodotti delle marche commerciali sono addirittura migliori, o più innovativi. Un esempio è costituito dai detersivi ecologici, che si sono sviluppati e diffusi a partire dalla Germania grazie proprio all'iniziativa della distribuzione.
Ma anche il successo del biologico in Italia ha un forte traino nelle scelte dei distributori e nelle caratteristiche dei loro prodotti.
Coi prodotti a marchio sono possibili politiche di prezzi più aggressive; fateci caso: le offerte nei supermercati riguardano ormai quasi esclusivamente il private label. Il che spinge i consumatori a preferirli, perché più convenienti rispetto ai prodotti di marca che devono sostenere in più i costi della pubblicità, che per la distribuzione sono molto più contenuti.
Il paradosso è che è proprio grazie alla comunicazione delle grandi marche la distribuzione attrae clientela, che poi però viene orientata verso i suoi prodotti meno costosi.
A questa dinamica sfuggono solo casi di supremazia incontrastata (e sempre più rara). Un esempio è quello di Ferrero, che -anche grazie a campagne pubblicitarie imponenti- è insostituibile sugli scaffali e mantiene una certa capacità contrattuale nei confronti della distribuzione. Che difficilmente riesce a trovare prodotti a marchio in gradi di fare concorrenza a Nutella. Ai produttori -anche di marchi famosi- non resta che fare buon viso a cattivo gioco.
Dall'altra parte, le grandi insegne legano la propria immagine a quella del prodotto che reca il loro nome. Il vantaggio di “giocarsi la faccia” è soprattutto in termini di fidelizzazione: se il consumatore apprezza un prodotto a marchio, tende ad apprezzare l'intera realtà (cioè la catena di supermercati) che gli sta attorno, dove in maniera esclusiva trova quella referenza.
Ma la grande distribuzione non “produce” solo prodotti a marchio di buona qualità; al contrario, cerca di saturare tutte le fasce di prezzo: solo che, quando vende prodotti di scarsa prezzo e qualità, allora preferisce inventarsi una marca ad hoc, o addirittura non metterla.
A seconda della qualità e della tipologia, tra le corsie ci si può imbattere anche nei cosiddetti prodotti generics, o nei fantasy label. I primi guardano ai consumatori alla ricerca del prezzo più basso. I secondi sono invece più spesso utilizzati per imitare prodotti più famosi, o nel caso in cui a una stessa catena di grande distribuzione corrispondano più insegne (come il caso dei tedeschi di Rewe, che posseggono i supermercati Billa e Standa e si affidano a sei marche commerciali dal nome di fantasia). !!pagebreak!!
Latte e piatti pronti. è boom all'Est e all'Ovest
85 miliardi di dollari: tanto vale per il 2003 il giro di affari del prodotto a marchio nel mondo. Secondo i dati di Ac Nielsen, in media il private label copre il 15% del mercato, anche se in Europa la percentuale sale al 22% e negli Stati Uniti al 16%. Medie a parte, è proprio nel vecchio e nel nuovo continente che si concentra il 95% delle vendite delle marche d'insegna. Ma qui lo spazio che il private label si ritaglia cresce più lentamente. In America Latina, Asia, Sud Africa e nei Paesi dell'Est europeo (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia) è vero e proprio boom, con ritmi di crescita annua che toccano il 50% e che sono direttamente legati alla crescita del sistema delle catene distributive.
I prodotti a marchio più venduti a livello globale rimangono i piatti pronti e i rotoli di alluminio (una confezione su due è private label), i derivati della carta e della plastica (ormai un prodotto su tre), il latte e i surgelati, con percentuali sul mercato superiori al 30%. I prezzi sono inferiori fino del 45% rispetto ai prodotti di marca.
In Europa l'Italia è all'ultimo posto, lontana ad esempio dalla Svizzera, dove i prodotti a marchio coprono il 38% del mercato. Ma sono Gran Bretagna (dove il 31% del venduto è a marchio d'insegna) e Germania (27%) i due Stati dove il private label vale di più in termini di vendite: 14 miliardi di dollari ciascuno. Il record nel mondo spetta come è prevedibile agli Stati Uniti, dove tra il 2002 e il 2003 sono stati spesi in prodotti a marchio 26 miliardi di dollari.
Private label
Private label, o marca-insegna, o prodotto a marchio: sono quelle “referenze” che una catena di grande distribuzione si fa realizzare in esclusiva dall'industria e offre al consumatore nei propri punti vendita col nome della catena.
Con la marca il distributore vincola la propria immagine al prodotto, che per questo motivo di solito è di buona qualità.
Fantasy label
Il marchio di fantasia viene utilizzato per singoli prodotti o al massimo per singole linee di prodotti. Di solito se ne servono i distributori che non si vogliono identificare con il prodotto; per questo si nascondono dietro un marchio che appare al consumatore analogo a quelli industriali.
I fantasy label vengono utilizzati anche per particolari tipologie di prodotti, come gli alimenti biologici o quelli tradizionali e regionali.
Generics
Sono prodotti che costano mediamente il 30/40% in meno rispetto ai marchi leader. Di qualità medio-bassa, sono esposti senza indicazione di marca, né del produttore né del distributore. Esistono per soddisfare i bisogni della clientela più rivolta alla convenienza che alla qualità. Per le confezioni molto semplici sono detti anche “no frill products”, cioè prodotti senza fronzoli.
Etichette
Etichette omertose. Quello in fondo alla pagina è un tipico esempio di etichetta dei prodotti a marchio. C'è tutto: ingredienti, peso, distributore, indirizzo dello stabilimento. Tutto tranne un elemento: il nome di chi ha prodotto quel che abbiamo acquistato (in questo caso è carne in scatola).
A molti non interessa, ma qualcuno potrebbe voler sapere se lo stabilimento appartiene a una multinazionale, per esempio alla Bolton, che produce anche la più famosa Manzotin.
La legge non aiuta, e anzi recenti provvedimenti hanno assecondato la tendenza a far identificare col distributore il referente unico dei prodotti a marchio. Alla faccia della trasparenza. Il decreto legislativo del 23 giugno del 2003, numero 181, modifica il precedente (numero 109) del 1992.
In sostanza, per i prodotti alimentari, basta indicare l'indirizzo dello stabilimento di produzione, se si tratta di alimenti confezionati in Italia, o ancora più semplicemente la dicitura “Confezionato nell'Unione Europea” se il confezionamento avviene all'estero. Questo permette di omettere (indicando quella del distributore) la ragione sociale del produttore, che può anche essere sostituita col semplice numero d'iscrizione alla Camera di commercio (!).
Le uniche eccezioni sono per la carne e per il pesce, prodotti per i quali rimane l'obbligo di indicare la provenienza (allevamento o luogo di pesca), e per le bottiglie di acqua minerale, sulle quali è obbligatorio il nome dell'azienda titolare dell'autorizzazione. !!pagebreak!!
Conta il contante
Supermercati come banche? Non ancora, ma se pensate che la ricchezza della grande distribuzione si basi esclusivamente sulle vendite siete indietro.
O meglio: i profitti importanti per i supermercati non sono solo quelli che vengono dal margine sui prezzi dei prodotti. Questo è un ragionamento più da negozio che da grande catena. La vera ricchezza sta nella cassa, cioè nella disponibilità di denaro contante da poter investire. La finanziarizzazione dell'economia passa anche dal supermercato. Per cui il cash flow, il flusso di cassa che si costruisce di giorno in giorno grazie alla nostra spesa, costituisce un fondamentale strumento di investimento (e quindi di guadagno) delle catene commerciali. Che infatti fanno di tutto per avere denaro contante e disponibile per il maggior tempo possibile, anche ricorrendo a prezzi bassi (ad esempio con le promozioni sotto costo). E magari ritardando i pagamenti ai fornitori, che oggi sono anche posticipati di 120- 180 giorni rispetto alla consegna.
Coop ci ripensa: un esempio di trasparenza per tutti
I nomi ritorneranno. È una bella e importante vittoria quella del Centro nuovo modello di sviluppo, che con una campagna efficace e fulminea ha convinto Coop a ritornare sui suoi passi. Ne abbiamo parlato già nel numero di novembre: dallo scorso anno Coop non indicava più il nome dei produttori sulle confezioni dei suoi prodotti a marchio. Un'involuzione in fatto di trasparenza che in poco tempo ha dato vita a una mobilitazione, fatta prima di messaggi via posta elettronica e poi di una vera e propria campagna, “SpronaCoop”, con tanto di sito (http://italy.peacelink.org/spronacoop). A partire dalla prima settimana di febbraio, sono fioccate le adesioni al sito di soci e consumatori (più di 4 mila), che chiedevano “i nomi” alla dirigenza della Coop. Il 27 febbraio l'annuncio ufficiale, fatto dal presidente Riccardo Bagni: sulle confezioni del private label Coop tornerà l'indicazione dei fornitori (anche perché alcuni di questi sono multinazionali).
Le supercentrali di acquisto
Non solo supermercati. Per districarsi nel mondo della distribuzione organizzata i conti bisogna farli anche con diverse realtà e tipologie di aziende. Quindi attenzione: si parla di grande distribuzione, ma anche di unioni volontarie, gruppi di acquisto, supercentrali di acquisto…
Schematicamente, il modello più semplice è quello delle aziende imprenditoriali a succursale. È il caso di Esselunga, che ha una struttura piramidale, con una proprietà unica e tanti negozi sparsi sul territorio.
Poi ci sono le unioni volontarie e i gruppi di acquisto, che invece hanno una struttura più orizzontale. Si tratta di strutture basate su un notevole numero di associati, ciascuno dei quali è proprietario di uno o più punti vendita, che si mettono insieme per dividere costi e servizi.
Selex o Conad sono esempi di questo tipo. O Coop, che è l'insieme di oltre 200 cooperative di consumatori.
Poi ci sono le super centrali di acquisto. Sono macro-realtà che acquistano i prodotti, e che raggruppano a loro volta aziende e gruppi.
La più grande è Italia Distribuzione, che vede insieme Coop e Conad, che sommate fatturano al pubblico quasi 15 miliardi di euro.
Le altre sono Intermedia, di cui fanno parte il Gruppo Rinascente/Auchan, il gruppo Pam, Bennet, Sun e Lombardini (quasi mille punti vendita solo tra iper e super); Esd, che raggruppa Selex, Esselunga, Agorà Network (e che a sua volta raggruppa gruppo Iperal, gruppo Poli e gruppo Sogeross); Carrefour Centrale, che oltre a Carrefour Italia comprende Finiper, Unes e Il Gigante; la centrale Mecades (Inerdis, Despar, Sisa e Metro), Sirio, Secom/Crai.
Accanto a queste un gruppo di indipendenti, come i tedeschi di Rewe (insegne Billa e Standa).
Quel che noi vediamo di questo mondo sono gli oltre 30 mila punti vendita: più di 7 mila sono i classici supermercati, 500 gli ipermercati. Questi ultimi occupano una superficie di 2 milioni e 300 mila metri quadri.!!pagebreak!!
Oltre al Kenya coinvolti un centinaio di Paesi
Sfruttamento e zone franche
Il Kenya ci sorprende ancora. Dopo la vittoria nei confronti della Del Monte, la Commissione per i diritti umani, che ha giocato un ruolo importante all'interno della campagna, ha deciso di continuare ad occuparsi dei diritti dei lavoratori. Per cominciare si è concentrato sul settore dei fiori, e mentre stava creando alleanze con i consumatori inglesi e olandesi, in Kenya andava rafforzandosi un altro fenomeno. Come molti altri Paesi del Sud, già dal 1990 il governo kenyota ha deciso di aprirsi agli investimenti esteri di tipo industriale, tramite la creazione di zone franche per l'esportazione. In pratica si tratta di aree attrezzate di strade, corrente elettrica, acqua ed edifici, offerti a buon mercato alle imprese straniere interessate a produrre per l'esportazione. L'offerta è resa ancora più appetibile da esenzioni doganali e fiscali. Il tutto in un contesto di bassi salari e una legislazione assai permissiva nei confronti dei lavoratori e dell'ambiente. Oltre al Kenya un altro centinaio di Paesi hanno istituito le loro zone franche. Complessivamente se ne contano 3.000 che occupano circa 40 milioni di lavoratori. Nel mese di febbraio Oxfam ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di lavoro esistenti nelle imprese estere che riforniscono prodotti a marchio di supermercati mondiali come Wal-Mart, Carrefour e altri (vedi box a lato). Che si tratti di vino proveniente dal Sudafrica, di fiori del Kenya o di camicie del Bangladesh, il panorama è sempre lo stesso. Il rapporto descrive un sistema di strangolamento a catena che prende le mosse dagli azionisti e dai consumatori. I primi chiedono alti profitti. I secondi prodotti a buon mercato.
La combinazione dell'uno e dell'altro spinge i supermercati a offrire prezzi bassissimi ai propri fornitori che naturalmente si rivalgono sui lavoratori pagando salari da fame. Alla stesura del rapporto ha partecipato anche la Commissione per i diritti umani del Kenya che sta seguendo da vicino le condizioni di lavoro esistenti nelle zone franche del Paese e sta aiutando i lavoratori (o meglio le lavoratrici, visto che il 75% sono donne) ad organizzarsi. Nell'ambito di questo programma, dal 17 al 19 febbraio si sono svolte a Nairobi delle iniziative di animazione e di studio. Date non casuali. Negli stessi giorni, il parlamento kenyota stava esaminando una nuova legge sugli investimenti esteri. E inoltre, in un albergo di Mombasa, i ministri del Commercio estero di 10 Paesi africani si stavano incontrando con Pascal Lamy, Commissario europeo del commercio. Lamy, grande sconfitto alla conferenza di Cancun, sta facendo il giro delle capitali del Sud per convincere i governi a non opporsi all'apertura di nuovi negoziati sui temi che gli stanno più a cuore: il trattato sugli investimenti, sugli appalti pubblici e sulla concorrenza. L'incontro è avvenuto a porte chiuse, ma dalle indiscrezioni riportate da alcune ong che presidiavano l'albergo, si è appreso che i Paesi africani sono propensi a cedere. I loro tentennamenti sono vinti perché l'Europa è disposta ad offrire delle agevolazioni commerciali e altre contropartite. La tattica del bastone e la carota che funziona sempre con chi si trova alle corde. Nelle giornate di studio è stato messo in evidenza che per difendere efficacemente i diritti dei lavoratori è bene agire a tre livelli. Il primo è quello di base, per organizzare i lavoratori stessi. Il secondo è quello nazionale, per spingere il parlamento a varare una legge sugli investimenti, che obblighi gli investitori esteri a scelte che portano vantaggi al Paese.
Il terzo è quello internazionale, per opporsi al trattato sugli investimenti, meglio noto come Mai. Il lavoro si presenta piuttosto difficile e può portare a qualche risultato solo se si rafforza la rete di resistenza internazionale.
Francesco Gesualdi !!pagebreak!!
I Diritti svenduti sullo scaffale: uno studio di Oxfam
Trading away our rights. “Svendere i nostri diritti”: è dedicato alle donne che lavorano l'ultimo rapporto della ong Oxfam (lo trovate a questo indirizzo: http://www.oxfam.org/eng/pr040209_labour_report.htm). Il senso è questo: le grandi compagnie di marca del mondo della moda e dei prodotti alimentari, ma anche i maggiori attori della grande distribuzione, stanno gradualmente facendo peggiorare le condizioni di lavoro per milioni di donne lavoratrici in giro per il mondo. E questo perché la continua ricerca di convenienza e di abbattimento dei costi si riflette senza scampo su di loro. Lo studio è il risultato dell'accorpamento di 12 differenti ricerche legate a campagne di sensibilizzazione sulle condizioni lavorative nei Paesi poveri come in quelli più ricchi, e si basa anche su oltre mille interviste a operai, imprenditori, importatori e sindacalisti. Le grandi catene mondiali, come Tesco, El Corte Inglés e Wal Mart devono, si legge nel rapporto, “cambiare radicalmente il modo di negoziare coi produttori forniture e prezzi”, e smetterla di sventolare codici di condotta che poi risultano inapplicabili per mantenere bassi i costi.