Diario da Israele/Palestina. Il blog di Andrea Semplici
Sul sito di Ae (sulla colonna di sinistra, e a questo indirizzo www.altreconomia.it/palestina) pubblichiamo il diario quotidiano di Andrea Semplici, giornalista e fotografo, amico e collaboratore della nostra rivista. E’ un viaggio tra Israele e Palestina che durerà fino a fine settembre, alla scoperta delle città, delle persone che le abitano e delle loro storie. Dentro un conflitto che rimane drammatico pur nella sua assurda “normalità”. Di seguito il racconto di una notte “particolare”.
Un sequestro normale
Ogni mattina Nablus, città del Nord della Palestina, si rimette in moto con lentezza. Come se si scrollasse di dosso la tensione e la fatica della notte.
I taxi gialli cominciano il loro andirivieni lungo la Rafidia Street un paio d’ore dopo l’alba. I negozi sono ancora chiusi. Solo i panettieri hanno già sfidato un coprifuoco che nessuno ha dichiarato. Le ore del giorno, a Nablus, centrotrentamila abitanti, sono uno strano equilibrio sospeso. I mercati della città vecchia sono affollati, la piazza dei Martiri è un girotondo di microbus e gente che arriva dai villaggi. Non appena cala il sole, invece, comincia un’attesa quasi rassegnata. Non sono tranquille le notti a Nablus. Colpi sordi di khalasnikov, sventagliate di M16, a volte tonfi cupi di mortaio. Nelle ore del buio si combatte per le strade di Nablus: quasi ogni sera l’esercito israeliano (che controlla la città dall’alto dei monti Ebal e Gerezim e l’assedia con sei check-point: nessuno può entrare o uscire senza l’autorizzazione delle forze di difesa di Israele) irrompe, con i suoi commandos, fra i vicoli della Città Vecchia o fra le case dei campi-profughi, diventati, dopo quaranta anni di esilio, periferia di Nablus. Qui vivono i figli e i nipoti di chi, nel 1948, è fuggito dalle città conquistate da Israele. Questa volta nemmeno per noi è stata una notte tranquilla.
Eravamo tornati a casa verso le undici di sera. Una cena con alcuni cooperanti italiani, con un professore dell’università e altri due fotografi. Ci avevano riaccompagnato a casa. Saggia precauzione a Nablus. La notte si annunciava agitata: si udivano già colpi di khalasnikov alla periferia della città. Nessuno, in questa normale ‘anormalità’, se ne stupisce più di tanto. In più: questi sono giorni di matrimoni e, qui, si festeggiano sparando per aria. Noi, a differenza dei palestinesi, non riconosciamo il rumore di una battaglia da quello di una festa. E questi sono anche giorni di incursioni dell’esercito israeliano. Siamo a Nablus solo da due giorni e già ci siamo abituati alle sparatorie notturne. Ci accompagnano nel nostro sonno. La nostra casa ha otto piani. Dalle nostre finestre si sovrasta il campo-profughi di Ebal che, in realtà, è un labirinto di strade strette e case malandate. Sulla collina più alta, pochi chilometri in linea d’aria, sono accese le luci di una caserma israeliana, svettano le antenne dei loro sistemi di ascolto e sorveglianza. Siamo due giornalisti italiani, Mario Boccia e Andrea Semplici, arrivati qua per scrivere un libro sulla città. Avremmo dovuto rimanere a Nablus una settimana. Avevamo trovato un appartamento in affitto. All’ultimo piano di un condominio nel quartiere residenziale di Rafidia. Scelta sbagliata: per una notte, come in un film di guerra, siamo stati prigionieri dell’esercito israeliano. Un commando notturno di otto soldati ha fatto irruzione nella nostra casa e ci ha sequestrato, sotto la minaccia dei loro fucili, per cinque ore. Per una notte siamo ‘diventati’ palestinesi. Abbiamo conosciuto, sulla nostra pelle, il destino quotidiano della gente di Nablus.
In piena notte, uno scambio di colpi più acceso ci sveglia. Nello stesso momento qualcuno bussa, con insistenza, alla porta. E’ Mario che va ad aprire. Pensiamo che sia una famiglia del palazzo. E invece due mitra vengono puntati alla testa di Mario. I caschi dei soldati rimandano una luce azzurra. Entrano in fretta, occupano l’ingresso. Sono ombre immense. Hanno fucili, elmetti, zaini, giubbotti antiproiettile. Mario sussurra: ‘Quiet, quiet, italian, italian’. Io esco dalla mia camera, mi sembra di vedere Mario inginocchiato. Intravedo i mitra spianati. Alzo le mani. Ci fanno sedere per terra. Un soldato (mi appare giovanissimo) parla qualche parola di inglese. Fa una battuta sulle squadre di calcio italiane, ma i suoi ordine sono secchi. Ci chiede i cellulari. Ci dice di rimanere seduti, di non parlare fra noi. Gli altri avanzano nella casa. Puntano i fucili con i binocoli a infrarossi verso le finestre, si appiattiscono negli angoli. Sono rapidi, febbrili come una fascio di nervi in tensione. Sembra che conoscano la casa. Cinque soldati trascinano zaini pesanti nella stanza accanto all’ingresso. Le finestre danno sul campo profughi. Ci fanno sedere sulle poltrone. Io mi siedo nuovamente per terra. Voglio stare lontano dalla grande finestra dell’ingresso. Mario si stende sul divano. I tre soldati di guardia sono seduti contro la parete di fronte a noi. Al riparo di un angolo della stanza. Parlano in sussurri. Ci offrono acqua. Ma non possiamo andare in bagno. Ci ripetono di stare zitti. Dalla stanza accanto proviene uno strano ronzio. Fuori si combatte. A sprazzi. Colpi isolati, qualche raffica, esplosioni più forti. I soldati comunicano con i loro comandanti grazie ad auricolari. La sensazione è che stiano guidando, dalla nostra finestra, un’operazione militare. Forse una caccia all’uomo fra le strade del campo-profughi. I nostri guardiani si danno il cambio. Sono fantasmi armati che si muovono con pesante leggerezza. Cercano di non fare rumore, ma poi scartano un sacchetto di patatine ed è un improvviso fracasso nel silenzio. Mi chiedono più volte quale è il mio nome. Passano le ore. Cambio spesso posizione. Un soldato mi dice di dormire.
Arriva, improvviso, il canto del muezzin. Che questa volta mi fa sobbalzare. E’ la preghiera prima dell’alba. Ancora colpi di fucile per le strade. Il cielo cambia lentamente colore, le nuvole della notte scompaiono. Ho paura che i soldati vogliano portarci con loro: siamo due stranieri, prova ingombrante delle loro azioni. Vorranno capire sul serio chi siamo e come mai siamo in quella casa. Non sembrano credere alle nostre parole, ma non hanno guardato nemmeno i nostri passaporti. E’ il momento più pericoloso. Loro se ne devono andare. Mi fanno alzare. Mi dicono di stare pronto. Io devo aprire la porta di casa e uscire sull’ammezzato. Devo scendere le scale assieme a loro per tre piani. Mi dicono che è per la mia sicurezza. Obbedisco senza un solo pensiero nella testa. Non voglio credere che mi stiano usando come scudo. Giro la chiave e poi la maniglia. La porta è aperta. Nessuno. Avanzo di qualche passo. Nessuno. Loro si muovono veloci. Spianano i fucili. Cammino verso le scale. Ma sono lento, mi sfiorano e mi sorpassano a passi rapidi. L’ultimo soldato mi trascina con sé. Per un piano. Per due piani. Poi mi lascia andare. Mi fa solo cenno di seguirlo. Lo faccio per un altro piano. Mi fermo. Scompaiono nelle scale. Nessuno sparo. Risalgo. Chiudo la porta.
Mi muovo per la casa, avanti e indietro, sto lontano dalle finestre. Tocco la spalla di Mario. Adesso ho paura. E’ finita. Sono le sei e trenta del mattino. Rimonto il mio cellulare. Avverto l’organizzazione per la quale sto lavorando. Perlustro la casa. Mi siedo. Ascolto il mio respiro. Vedo il giorno arrivare. So che il panettiere è già al lavoro. I taxi cominciano a viaggiare: si sentono i primi clacson. Per strada, il rumore di un camion. Sobbalzo. I cani abbaiano. Chiamiamo un vicino, scendiamo da lui. Ci offre un caffé solubile. Mi appare come la cosa più buona del mondo. Raccontiamo. Lui quasi sorride: ‘E’ la normalità’. Scopriamo che pochi giorni prima erano già entrati nel palazzo. Scopriamo che, a Nablus, chi va a dormire la sera, non sa se verrà svegliato o meno dai soldati di Israele. Torniamo a casa. Prepariamo le valige. Non vogliamo più stare qui. Lasciamo la casa. La città si sta svegliando. Tutti sanno che gli israeliani sono entrati a Nablus questa notte. Qualche palestinese del campo-profughi sarà stato arrestato. Forse una casa è stata demolita. Noi siamo qua perché dobbiamo collaborare a un progetto che sogna una pace possibile fra Israele e Palestina. Bevo del tè caldo. Tutto mi sembra una follia. Ho vissuto una notte da palestinese. Una normale follia. Ma, per me, cittadino italiano, questa non è la normalità. Gli israeliani mi diranno che c’è una guerra qui. Ma io sono entrato in questo paese con una loro lettera che mi diceva che ero un distinguished guest di Israele perché il mio lavoro avrebbe aiutato la conoscenza di questa terra.
Il mercato di Nablus, fra i vicoli di pietra che hanno visto le bande dei Crociati, i guerrieri di Saladino, i memelucchi e i turchi, riprende la sua vita di ogni giorno. Bisogna pur vivere, sembrano dirti i vecchi che si siedono al caffé, i mercanti dalla impeccabile camicia azzurra che aprono i loro negozi, i ragazzini che ti inseguono per avere una foto, il pasticcere di Al-Aqsa, celebre per le sua kanafa, il dolce più amato di questa terra. La Città Vecchia è bellissima. Guardo verso la collina. Verso la caserma di Israele. Gli otto soldati di stanotte staranno dormendo. Gli amici mi dicono che non ha senso che avverta il consolato italiano, che scriva un articolo, che faccia una denuncia. Nessun tribunale mi darebbe ascolto. Ora cercherò di dormire anch’io. Dopo la calma lucida della notte, la paura dell’alba, gli automatismi della sopravvivenza, è arrivata la stanchezza. Ho già fatto l’abitudine alla violenza.