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Opinioni

Cucchi, gli errori della Corte d’Appello

Le motivazioni -depositate il 12 gennaio- chiariscono gli elementi in base ai quali erano stati assolti i dodici imputati per i fatti che avevano portato alla morte del geometra romano. Spiccano alcuni errori, ad esempio in relazioni alla perizia sulla schiena del giovane, effettuata senza esaminare il corpo prima del taglio settorio post mortem. Elementi che rendono possibile riaprire l’indagine. Il commento di Duccio Facchini, che per Altreconomia ha scritto "Mi cercarono l’anima", sulla storia di Stefano Cucchi

Sono state depositate ieri le motivazioni della sentenza d’appello del caso Cucchi. Il 31 ottobre 2014, la prima Corte d’Assise d’appello di Roma, presieduta da Mario Lucio D’Andria, aveva infatti mandato assolti tutti e dodici gli imputati ritenuti, a vario titolo, coinvolti nei fatti che avevano portato alla morte del geometra 31enne. Arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 in via Lemonia, nella capitale, Stefano Cucchi sarebbe morto sette giorni più tardi, il 22 ottobre, nella stanza del “presidio ospedaliero protetto” del Sandro Pertini. Dopo un calvario durato una settimana che abbiamo ricostruito nel libro "Mi cercarono l’anima".

Nei giorni dello sdegno nazionale successivi al pronunciamento di assoluzione, il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, si era detto “pronto a riaprire le indagini”. Ed è in quest’ottica che vanno lette le poche righe riservate sul punto dalla Corte d’Assise d’appello: “Appare comunque opportuno disporre la trasmissione di copia della presente sentenza al Procuratore della Repubblica di Roma, perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte”.

Secondo i giudici di secondo grado, infatti, gli agenti penitenziari operanti la mattina del 16 ottobre 2009 nelle camere di sicurezza del Tribunale di piazzale Clodio non c’entrano nulla con la “azione di percosse” (pag. 28) patita da Cucchi. Al contrario: i tre poliziotti (Minichini, Santantonio e Domenici) -che mai hanno speso una parola durante il dibattimento- avrebbero svolto un “semplice compito di custodia”, addirittura “preoccupati di farlo visitare” (il Cucchi, ndr) da un medico. Le responsabilità andrebbero cercate altrove, date quelle che vengono definite “concrete circostanze” a carico dei “carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare”.

A poco è servita la testimonianza, ritenuta decisiva dalle parti civili, del cittadino gambiano Samura Yaya, che la mattina dell’udienza di convalida dell’arresto di Cucchi (16 ottobre 2009), udì i rumori di un pestaggio e, successivamente, condivise con il 31enne la stessa cella. Lì Cucchi gli avrebbe mostrato i segni dell’aggressione -confermati da una perizia sul sangue ritrovato sui pantaloni e sulla gamba sinistra-, addebitandola alle “guardie”. Secondo i giudici d’appello, però, quella di Samura Yaya è una ricostruzione inattendibile, riferibile a un testimone che “non può essere definito oculare” -perché “ha soltanto sentito”-, al quale Cucchi fornì, sempre secondo i giudici, “scarne e incomplete confidenze”.

Un teste inattendibile, dunque, che secondo la Corte d’Assise d’appello di Roma ebbe “validi motivi per ingraziarsi gli inquirenti, con la speranza di ottenere un trattamento più benevolo grazie al suo atteggiamento collaborativo”.

Seppellito il capitolo Yaya, la Corte ha successivamente assolto anche il personale del Pertini, ritenendolo tutt’altro che disattento o negligente quanto piuttosto “attento” alle esigenze di un paziente morto però in solitudine, privato del suo diritto di parlare con un avvocato e i suoi familiari.

Sebbene “la complessa istruttoria dibattimentale” non abbia “permesso di stabilire con certezza la causa della morte di Stefano Cucchi”, la Corte d’Appello ha rigettato la proposta di una nuova perizia, incappando così nello stesso errore commesso dal Procuratore generale Mario Remus, e che potenzialmente potrebbe rappresentare l’architrave di un ricorso in Cassazione. Scrivono infatti i giudici: “Questa Corte esclude la necessità di una ulteriore perizia, posto che gli accertamenti tecnici sono stati eseguiti in modo approfondito, sulla base di 200 rilievi fotografici, di prelievi per finalità chimico tossicologiche e istologiche, di esami eseguiti con TAC tomografia computerizzata ‘post mortem’ e risonanza magnetica (con la collaborazione di un esperto radiologo) nonché di un’indagine radiologica complessiva, che ha comportato ben 14.000 scansioni”.

Quel che la Corte non sa -o ha valutato come secondario- è che l’”esperto radiologo” citato che ha fornito il parere sulla schiena di Stefano Cucchi -determinante nella perizia della Corte d’Assise di primo grado e ritenuto sufficiente nel secondo-, lo ha fatto senza esaminare quella stessa schiena prima del taglio settorio post mortem, valutando “successiva” un’acuta frattura alla quinta vertebra lombare. Questo perché i periti “terzi” incaricati dalla Corte di primo grado non gli avevano fornito Tac ed Rx complete. Che però c’erano, e continuano ad esistere, seppur non valutate.

Dunque, quando la Corte d’Appello scrive che “questo Collegio ritiene che non residuino aspetti delle condizioni fisiche di Cucchi che non siano stati già esplorati e valutati dagli esperti nominati” sta sbagliando. Come sbaglia quando, elencando le “diverse patologie” in capo a Stefano Cucchi, riporta anche “l’uso di stupefacenti (iniziato a dodici anni) e di alcool”.

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