Opinioni
Cresciamo immersi nell’arte, senza comprenderne il privilegio
La formazione nel patrimonio culturale dell’identità italiana nello sguardo di due viaggiatori di fine Ottocento. “Un volto che ci somiglia”, la rubrica di Tomaso Montanari
Una sera del 1888, mentre passeggiavano sotto i portici di Bologna, Joseph Viktor Widmann e il suo ottimo amico Johannes Brahms videro un mendicante: “È un sordomuto che, accovacciato sulle pietre del selciato, con accanto un mozzicone di candela stearica disegna con un carboncino il ritratto di Cavour, in grandezza naturale. Quando un passante si ferma, egli illumina l’opera con il misero lucignolo. C’era lì accanto un piatto per raccogliervi il soldo di chi cedesse alla tentazione di spenderne uno per quell’arte da strada”.
A quel punto, continua nel suo racconto Widmann, Brahms aprì il suo portafogli, e fece cadere una moneta nel piatto: “E qui ci aspettava un’altra sorpresa perché subito il tintinnìo della moneta sul duro lastricato di pietra rivelò che non era un vero piatto, ma la sua immagine, dipinta con naturalezza identica al vero, attraverso l’abile uso di ombre e sfumature. Allora Brahms non trovava parole sufficienti a lodare quest’originale idea del povero artista, ed anche la sua elemosina mostrò quanto lo commuovesse constatare che nel popolo italiano, questo popolo privilegiato, perfino un mendicante di strada sapeva coprire la sua miseria con un lembo del ricco manto di festa dell’arte”. E cosa facciamo noi -membri di quel popolo privilegiato- ogni volta che solleviamo lo sguardo verso i monumenti che accolgono la nostra vita quotidiana, e segnano lo spazio pubblico della nostra democrazia, se non coprire le nostre miserie con un lembo del ricco manto di festa dell’arte?
Come il mendicante-artista di Bologna, tutti noi abbiamo un rapporto intimo e viscerale con la visibilità. Un rapporto che commuoveva Brahms, compositore particolarmente attento al senso della vista. “Un’altra volta a Palermo -scrive ancora Widmann- stavamo visitando, in quattro uomini, l’antica moschea araba, ora San Giovanni degli Eremiti, accompagnati da un custode che era stato uno dei Mille sbarcati con Garibaldi a Marsala. Giunto a metà della sua fluviale spiegazione, il nostro gentile cicerone si interruppe all’improvviso, e fissando lo sguardo su Brahms, esclamò d’impulso: ‘ah, mi pare di parlare al mio venerabile generale Garibaldi’. Gli occhi gli luccicavano di entusiasmo. Con l’istinto divinatorio dei mediterranei aveva riconosciuto nel maestro tedesco che gli stava davanti l’uomo grande, fuori dal comune. E siccome per lui Garibaldi veniva subito dopo Cristo, come ebbe poi a dire, non aveva trovato alla sua ammirazione miglior modo di rivelarsi che il paragone con il suo amato capo di guerra. Brahms accolse il complimento, che gli fece un visibile piacere, con un sorriso soddisfatto, e il lampo dei suoi profondi occhi azzurro chiaro”.
Un grande viaggiatore, un monumento arabo e cristiano, la dignità di un custode che era anche un cittadino: la densità di questi nessi, la rete di questi sguardi e di queste parole hanno dato forma a quello che chiamiamo il “patrimonio culturale”. Che non è un luna park per i ricchi attirati dai saldi di democrazia e giustizia (come la flat tax del governo Gentiloni), ma è la palestra della memoria, il laboratorio del futuro, la condizione principale della nostra civiltà. Il “ricco manto di festa dell’arte” di cui il visionario Brahms vedeva rivestito perfino un miserabile pittore di strada è il manto della nostra sovranità e della nostra dignità. Un manto rosso: come quelli dei sovrani degli antichi stati italiani, come le camicie dei garibaldini. Un’unica storia di progresso: non è forse giunto il momento di rimetterla in moto?
Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia, www.libertaegiustizia.it